Una rosa
capricciosa
Gli
omicidi non fanno mai bene.
Magari un pò, ma solo all’inizio.
Niente è paragonabile all’immagine del terrore sul
viso
della vittima.
Sapere che è te che
teme, fa bollire il sangue nelle vene.
Ricordo il suo sguardo innocente posarsi sulla mia sagoma.
Il respiro affannato dalla consapevolezza
di quello che stava per succedere.
In quel momento fu inutile correre, ma ci provò lo stesso.
Eppure sapeva che l’avrei inseguita.
Sfrecciò per le scale, gemendo ad ogni passo.
La raggiunsi in poco.
Le strattonai un braccio, fermando la sua corsa.
La guardai in volto, sogghignando.
Il terrore era tutto lì: su quel viso.
Ma non bastò ad impressionarmi.
Cercò di spingermi giù dalle scale.
Ero più forte, gliel’avevo sempre ricordato.
Lei lo sapeva, e anche meglio di me.
Estrassi il coltello che avevo afferrato in tutta fretta
dallo scaffale in cucina.
Glielo puntai alla gola ma, con uno strattone, lo fece
rotolare giù per i gradini.
Non ebbi neanche un attimo di indecisione: le afferrai il
collo con le mani ghiacciate.
Strinsi con tutta la forza che trovai nelle braccia.
La vena del collo ancora pulsava, quando vidi i suoi occhi
rovesciarsi e la bocca spalancarsi nel tentativo disperato di
raccogliere
ancora un ultimo filo d’aria.
Non glielo lasciai trovare.
Tossì, tentando debolmente di conficcare le unghie nella
carne delle mani che la stavano strangolando.
A stento me ne accorsi.
Le gambe le cedettero. Si accasciò sui gradini, mentre mi
inginocchiavo anch’io.
Con un sussulto tossì di nuovo, lasciando penzolare la testa
all’indietro.
Le braccia rimasero lungo i fianchi, la schiena si piegò in
un arco innaturale.
Allentai piano la presa, lasciando rotolare il corpo per gli
ultimi gradini.
Era davvero morta.
L’adrenalina si sciolse in un attimo.
Iniziai a correre per le scale, raggiunsi il portone
d’uscita e mi diedi alla fuga.
Mi portarono in una cella con le pareti piene di muffa
grigiastra, quasi del tutto vuota.
Un materasso sporco di sangue, una sedia con lo schienale
spezzato, un tavolo bucato con le gambe rosicchiate da qualche topo, e
sopra
una coperta arrotolata in un angolo erano gli unici arredi, ma mi
sarebbero
bastati.
La guardia mi diede una pacca sulla spalla, prima di
lasciarmi solcare l’ingresso.
Ero dentro, e ne sarei uscito solo per andare incontro alla
morte.
Sentii la serratura scattare, vidi la luce del corridoio
abbandonare piano la cella, fino a quando rimasi immerso nella penombra.
Tastai il materasso, mi sedetti ed osservai l’unico punto da
cui proveniva un po’ della luce della luna.
L’unica finestra era stretta ed alta, le sbarre doppie ed
arrugginite.
Per raggiungerla dovetti alzarmi in piedi sulla sedia ed
allungare il collo.
Nel complesso la cella era spaziosa e troppo fredda. I raggi
del sole avrebbero raggiunto l’interno solo verso
mezzodì.
Sospirai e mi stesi sul letto. In poco, mi addormentai.
Nuvole incatenate tra loro, fiori, passeri fulminati dalla
grandine impetuosa, cuori fatti a pezzi, occhi senza palpebre che mi
mordono lo
stomaco, anime che urlano in quel pozzo buio che è la mia
testa!
Spalancai gli occhi, sentendo il cuore scalpitarmi nel
petto. Con affanno mi misi in piedi ed arrancai fino alla sedia.
-Nemici del sole…- sussurrai, passandomi una mano sulla
fronte sudata.
Rabbrividii, e mi ricordai della presenza di una coperta,
sul tavolo. Iniziai a tastare il legno ruvido, ma le dita intorpidite
dal
freddo, incontrarono qualcosa di pungente.
Ritrassi la mano e mi portai alle labbra il dito ferito.
Quando mi alzai sentii le cosce bruciare, ma non ci badai. Mi chinai ai
piedi
del letto ed agguantai la lampada ad olio, ancora accesa.
Mi avvicinai di nuovo, e la sua luce rivelò una rosa posata
sul tavolo freddo.
Lo stelo era punteggiato da goccioline lucide, mentre
un’unica spina appena sotto la piccola foglia già
ripiegata su un lato,
sporgeva maligna.
I petali bianchi rimasero immobili anche all’improvviso
soffio di vento, che mi fece rabbrividire. Un uomo aprì la
porta della cella,
entrò, e se la richiuse alle spalle, prima che potessi
scorgere qualche sagoma
lungo il corridoio illuminato.
Camminai guardingo verso l' uomo, e feci per avvicinargli la
lampada al viso, ma mi bloccò serrandomi una mano sul polso.
Arretrai fino alla
sedia, ma prima di sfiorarla decisi di lasciar accomodare lui,
così presi posto
sul tavolo. Con le gambe penzoloni, gli feci segno di sedersi. Poggiai
la
lampada sulla mia sinistra, accanto alla rosa, in modo che la luce non
svelasse
il suo viso.
Lo sentii arrivare, ma vidi la sagoma alta rimanere solo
accanto alla sedia, senza toccarla.
Mi schiarii la voce, cercando le parole giuste per
chiedergli cosa volesse da me, un condannato a morte fresco fresco di
condanna.
-E’ abitudine di questo carcere acconsentire alle visite
notturne?
L’uomo spostò il peso del corpo da un piede
all’altro,
facendo schioccare le labbra.
-L’abitudine di questa galera è
un’altra, gentile signore.
Molto più insolita e sottile.
Parlò con un filo di voce, eppure rabbrividii.
Rabbrividii, io. Io, un assassino che non aveva provato né
paura né perplessità mentre soffocava la sua
donna. Io, un condannato a morte.
Mi ricomposi.
-Sarete allora così gentile da illustrarmela.
L’uomo girò piano su se stesso, osservando da capo
a fine la
cella.
In fine sollevò il mento, sospirando.
Pur di non guardare la sua sagoma, mi voltai verso la rosa.
Me la rigirai tra le mani, fingendo interesse per essa.
-Vedo che siete perspicace, mio signore- disse, facendomi
voltare di scatto.
-Sarete così gentile da spiegarvi meglio…
Rise.
-La rosa, signore. Avrete notato che non conoscete ancora la
data della vostra esecuzione.-
Mi leccai le labbra, pensando a dove volesse arrivare, ed
annuii.
-Ebbene, contando i petali della rosa potrete venire a
conoscenza di quanti giorni vi restano-
Strinsi il fiore ed iniziai a contare. Mi bloccai prima che
potessi contarne una mezza dozzina: l’uomo parlò
di nuovo con tono grave.
-Quando a quella rosa si staccherà anche l’ultimo
petalo,
verrete condotto in camicia, la corda al collo, sulla piazza adiacente
alla
prigione, dove sarete strangolato per impiccagione al braccio di forca
della
città.
Mi sentii preso in giro.
-Fate questo discorso a tutti i condannati? O sono il solo
privilegiato?
Nemmeno badò alla mia domanda.
-Per questo, mio caro signore, la permanenza su questa Terra
è tutta nelle vostre mani. Curate la rosa come meglio potrete,
trovatele un filo
di luce ed un goccio d’acqua al giorno per far sì
che germogli e non appassisca
mai.
Sentii la rabbia scatenarsi dentro il petto.
Una cella spoglia di luce e di arredi! Come mantenere una
rosa in quella miseria?
Scesi dal tavolo e mi accasciai a terra, in mano il fiore.
Parlò, ancora una volta, prima di me.
-Volete vivere, seppur in una cella vuota, lurida e buia, o
preferite morire, mio signore?
Serrai i denti, ma parlai in un sussurro.
-Ma non vedete? Non riesco neanche ad alzarmi e mi chiedete
se voglio vivere o morire?
Sorrise.
-E’ una notte troppo bella per morire. Il vento porta fin
qui l’odore del mare, sembra sia capace di spostare anche le
stelle. Non
lasciatevi morire questa notte. O, almeno, fino a quando spunta il
sole…
Mi sentii soffocare, e strinsi convulsamente la rosa.
-La corda mi si stringe al collo, signore.
Solo allora, l’uomo si sedette.
-Ho pietà per voi ed i vostri poveri vent’anni,
resterò ancora
per un po’. Ditemi un po’, caro signore,
cos’è per voi la libertà, se non
vedere il sole spuntare ogni giorno?
Risi amaramente.
-Fa bene a chiederlo a me, signore. Per sapere
cos’è la
libertà bisogna chiederlo sempre a chi non conosce ancora
questo privilegio.
Ebbene, la libertà è saper vivere. Sdraiarsi in
mezzo ad un campo, non essere
obbligati agli inchini, alle catene. E’ un lampo, una saetta,
un muro di
dolore, un cielo limpido, acqua fresca, un amico ritrovato. Fa vivere e
morire,
questa libertà.
L’uomo si portò una mano alla fronte e
sospirò.
-Molto poetico, davvero. Ma ora è davvero venuto il momento
di andare.
-Già ve ne andate?
Sorrise nuovamente.
-Ho altre rose da consegnare, mio giovane assassino. Spero
di rincontrarvi il più tardi possibile.
Cercai di rimettermi in piedi, senza successo. Rimasi con la
schiena contro la parete, guardandolo attraversare la cella fino alla
porta.
-Addio- dissi, comunque sapendo che l’avrei rincontrato a
breve.
-Addio, signore-
Con un tonfo, si chiuse la porta alle spalle
Strinsi di nuovo la rosa, mentre la candela si spegneva.
Mi riaddormentai a terra.
Erano passati tre giorni.
Solo tre petali si erano staccati dalla rosa, mentre gli
altri erano quasi del tutto appassiti.
Ero seduto sul materasso. Quella domenica sembrava anche più
scomodo.
Mi rigiravo la rosa tra le dita, immaginando che quei petali
rimanessero per sempre bianchi e morbidi, com’erano
all’inizio.
Speravo che la rosa non appassisse, ma volevo morire.
O meglio: non volevo vivere. La questione è diversa.
Ripensai a quell’uomo, a come mi fermò quando
tentai di
guardargli il volto, a quando mi chiese cosa fosse la
libertà.
Non volevo vivere, ma nemmeno volevo morire.
Troppo debole per continuare a vivere, e troppo vigliacco
per smettere di farlo.
Una rosa mi avrebbe salvato? Un capriccio della natura
avrebbe determinato il mio destino?
Sfiorai un petalo. Lo sfregai sotto le dita e… si
staccò.
Un giorno in meno.
Feci lo stesso con il secondo.
Due giorni in meno.
E poi con il terzo, il quarto, il quinto.
Rimase solo un petalo, solo un giorno.
Risi guardandoli, grigiastri, schiacciati sul pavimento.
Bastò un soffio di vento a staccare l’ultimo.
Volò via,
fuori dalla finestra.
Libero.
-GUARDIA!-
Chiamai con quando fiato avevo nel petto.
-GUARDIA! LIBERATE QUESTA CELLA!
Il guardiano di turno mi osservò: affannato, stringevo lo
stelo spoglio.
-E’ già giunto il tuo giorno?- chiese.
Sorrisi.
-Così pare.
Uscì di nuovo dalla cella. Quando rientrò erano
in due.
Mi legarono le mani, gettando occhiate all’interno.
-Esca, la prego- disse il secondo, senza neanche guardarmi.
Mentre gettavo un’ultima occhiata alla cella, sentii di
nuovo la voce dell’uomo che mi aveva fatto visita tre giorni
prima.
-E’ già il tuo momento.
Non era una domanda.
-Mi spiace non avere il pollice verde!
Rise. Aveva il volto coperto da un cappuccio nero.
-La rosa ha ceduto troppo in fretta. Cos’avete combinato,
signore?
Sospirai.
-Non ho voluto aspettare il volere di una rosa capricciosa.
-Non siete il primo, caro signore.
Feci una smorfia, poi sorrisi.
-Sono stato condannato a morte per volere di un giudice, ma
il giorno della condanna l’ho scelto io, e non una rosa,
signore.
Volevo sembrare sfacciato, ma dentro tremavo.
Le mie membra urlavano al pensiero di una corda stretta al
mio giovane collo.
Il cuore scalpitava sempre più forte nel petto, mentre
recitavo il mio copione.
Nessuno si mosse, le due guardie si scambiarono un’occhiata
vagamente confusa.
-E ne siete felice?- chiese l’uomo, compiaciuto.
Allontanarmi da questa vita, senza lasciarla. Come potevo?
La morte era il mio unico scampo, e, se avesse messo fine al mio
dolore, le
sarei andato incontro.
-Ne sono fiero. Ora, se siete d’accordo, vorrei essere
accompagnato al mio patibolo.
Uno sguardo spaventato tradì ogni emozione, facendomi uscire
allo scoperto.
Ma l’uomo ebbe compassione, e fece finta di non capire.
Prima di uscire, lo vidi gettare un’occhiata
all’interno
della cella e sorridere alla vista del tappeto di petali bianchi ai
piedi del
letto.