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Autore: MonicaLaBuona    23/12/2009    2 recensioni
-E’ una notte troppo bella per morire. Il vento porta fin qui l’odore del mare, sembra sia capace di spostare anche le stelle. Non lasciatevi morire questa notte. O, almeno, fino a quando spunta il sole…
Mi sentii soffocare, e strinsi convulsamente la rosa.
-La corda mi si stringe al collo, signore.
Fiction quarta classificata al contest "A Contest, a rose and a story!" indetto da RoyxEd 4Ever.
Genere: Malinconico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una rosa capricciosa

Fiction quarta classificata 

al contest "A Contest, a rose and a Story!"

indetto da RoyxEd 4Ever

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Gli omicidi non fanno mai bene.
Magari un pò, ma solo all’inizio.
Niente è paragonabile all’immagine del terrore sul viso della vittima.
Sapere che è te che teme, fa bollire il sangue nelle vene.
Ricordo il suo sguardo innocente posarsi sulla mia sagoma.
Il respiro affannato dalla consapevolezza di quello che stava per succedere.
In quel momento fu inutile correre, ma ci provò lo stesso.
Eppure sapeva che l’avrei inseguita.
Sfrecciò per le scale, gemendo ad ogni passo.
La raggiunsi in poco.
Le strattonai un braccio, fermando la sua corsa.
La guardai in volto, sogghignando.
Il terrore era tutto lì: su quel viso.
Ma non bastò ad impressionarmi.
Cercò di spingermi giù dalle scale.
Ero più forte, gliel’avevo sempre ricordato.
Lei lo sapeva, e anche meglio di me.
Estrassi il coltello che avevo afferrato in tutta fretta dallo scaffale in cucina.
Glielo puntai alla gola ma, con uno strattone, lo fece rotolare giù per i gradini.
Non ebbi neanche un attimo di indecisione: le afferrai il collo con le mani ghiacciate.
Strinsi con tutta la forza che trovai nelle braccia.
La vena del collo ancora pulsava, quando vidi i suoi occhi rovesciarsi e la bocca spalancarsi nel tentativo disperato di raccogliere ancora un ultimo filo d’aria.
Non glielo lasciai trovare.
Tossì, tentando debolmente di conficcare le unghie nella carne delle mani che la stavano strangolando.
A stento me ne accorsi.
Le gambe le cedettero. Si accasciò sui gradini, mentre mi inginocchiavo anch’io.
Con un sussulto tossì di nuovo, lasciando penzolare la testa all’indietro.
Le braccia rimasero lungo i fianchi, la schiena si piegò in un arco innaturale.
Allentai piano la presa, lasciando rotolare il corpo per gli ultimi gradini.
Era davvero morta.
L’adrenalina si sciolse in un attimo.
Iniziai a correre per le scale, raggiunsi il portone d’uscita e mi diedi alla fuga.

Dopo un veloce processo entrai nella cerchia ristretta dei condannati a morte.
Mi portarono in una cella con le pareti piene di muffa grigiastra, quasi del tutto vuota.
Un materasso sporco di sangue, una sedia con lo schienale spezzato, un tavolo bucato con le gambe rosicchiate da qualche topo, e sopra una coperta arrotolata in un angolo erano gli unici arredi, ma mi sarebbero bastati.
La guardia mi diede una pacca sulla spalla, prima di lasciarmi solcare l’ingresso.
Ero dentro, e ne sarei uscito solo per andare incontro alla morte.
Sentii la serratura scattare, vidi la luce del corridoio abbandonare piano la cella, fino a quando rimasi immerso nella penombra.
Tastai il materasso, mi sedetti ed osservai l’unico punto da cui proveniva un po’ della luce della luna.
L’unica finestra era stretta ed alta, le sbarre doppie ed arrugginite.
Per raggiungerla dovetti alzarmi in piedi sulla sedia ed allungare il collo.
Nel complesso la cella era spaziosa e troppo fredda. I raggi del sole avrebbero raggiunto l’interno solo verso mezzodì.
Sospirai e mi stesi sul letto. In poco, mi addormentai.
Nuvole incatenate tra loro, fiori, passeri fulminati dalla grandine impetuosa, cuori fatti a pezzi, occhi senza palpebre che mi mordono lo stomaco, anime che urlano in quel pozzo buio che è la mia testa!
Spalancai gli occhi, sentendo il cuore scalpitarmi nel petto. Con affanno mi misi in piedi ed arrancai fino alla sedia.
-Nemici del sole…- sussurrai, passandomi una mano sulla fronte sudata.
Rabbrividii, e mi ricordai della presenza di una coperta, sul tavolo. Iniziai a tastare il legno ruvido, ma le dita intorpidite dal freddo, incontrarono qualcosa di pungente.
Ritrassi la mano e mi portai alle labbra il dito ferito. Quando mi alzai sentii le cosce bruciare, ma non ci badai. Mi chinai ai piedi del letto ed agguantai la lampada ad olio, ancora accesa.
Mi avvicinai di nuovo, e la sua luce rivelò una rosa posata sul tavolo freddo.
Lo stelo era punteggiato da goccioline lucide, mentre un’unica spina appena sotto la piccola foglia già ripiegata su un lato, sporgeva maligna.
I petali bianchi rimasero immobili anche all’improvviso soffio di vento, che mi fece rabbrividire. Un uomo aprì la porta della cella, entrò, e se la richiuse alle spalle, prima che potessi scorgere qualche sagoma lungo il corridoio illuminato.
Camminai guardingo verso l' uomo, e feci per avvicinargli la lampada al viso, ma mi bloccò serrandomi una mano sul polso. Arretrai fino alla sedia, ma prima di sfiorarla decisi di lasciar accomodare lui, così presi posto sul tavolo. Con le gambe penzoloni, gli feci segno di sedersi. Poggiai la lampada sulla mia sinistra, accanto alla rosa, in modo che la luce non svelasse il suo viso.
Lo sentii arrivare, ma vidi la sagoma alta rimanere solo accanto alla sedia, senza toccarla.
Mi schiarii la voce, cercando le parole giuste per chiedergli cosa volesse da me, un condannato a morte fresco fresco di condanna.
-E’ abitudine di questo carcere acconsentire alle visite notturne?
L’uomo spostò il peso del corpo da un piede all’altro, facendo schioccare le labbra.
-L’abitudine di questa galera è un’altra, gentile signore. Molto più insolita e sottile.
Parlò con un filo di voce, eppure rabbrividii.
Rabbrividii, io. Io, un assassino che non aveva provato né paura né perplessità mentre soffocava la sua donna. Io, un condannato a morte.
Mi ricomposi.
-Sarete allora così gentile da illustrarmela.
L’uomo girò piano su se stesso, osservando da capo a fine la cella.
In fine sollevò il mento, sospirando.
Pur di non guardare la sua sagoma, mi voltai verso la rosa. Me la rigirai tra le mani, fingendo interesse per essa.
-Vedo che siete perspicace, mio signore- disse, facendomi voltare di scatto.
-Sarete così gentile da spiegarvi meglio…
Rise.
-La rosa, signore. Avrete notato che non conoscete ancora la data della vostra esecuzione.-
Mi leccai le labbra, pensando a dove volesse arrivare, ed annuii.
-Ebbene, contando i petali della rosa potrete venire a conoscenza di quanti giorni vi restano-
Strinsi il fiore ed iniziai a contare. Mi bloccai prima che potessi contarne una mezza dozzina: l’uomo parlò di nuovo con tono grave.
-Quando a quella rosa si staccherà anche l’ultimo petalo, verrete condotto in camicia, la corda al collo, sulla piazza adiacente alla prigione, dove sarete strangolato per impiccagione al braccio di forca della città.
Mi sentii preso in giro.
-Fate questo discorso a tutti i condannati? O sono il solo privilegiato?
Nemmeno badò alla mia domanda.
-Per questo, mio caro signore, la permanenza su questa Terra è tutta nelle vostre mani. Curate la rosa come meglio potrete, trovatele un filo di luce ed un goccio d’acqua al giorno per far sì che germogli e non appassisca mai.
Sentii la rabbia scatenarsi dentro il petto.
Una cella spoglia di luce e di arredi! Come mantenere una rosa in quella miseria?
Scesi dal tavolo e mi accasciai a terra, in mano il fiore.
Parlò, ancora una volta, prima di me.
-Volete vivere, seppur in una cella vuota, lurida e buia, o preferite morire, mio signore?
Serrai i denti, ma parlai in un sussurro.
-Ma non vedete? Non riesco neanche ad alzarmi e mi chiedete se voglio vivere o morire?
Sorrise.
-E’ una notte troppo bella per morire. Il vento porta fin qui l’odore del mare, sembra sia capace di spostare anche le stelle. Non lasciatevi morire questa notte. O, almeno, fino a quando spunta il sole…
Mi sentii soffocare, e strinsi convulsamente la rosa.
-La corda mi si stringe al collo, signore.
Solo allora, l’uomo si sedette.
-Ho pietà per voi ed i vostri poveri vent’anni, resterò ancora per un po’. Ditemi un po’, caro signore, cos’è per voi la libertà, se non vedere il sole spuntare ogni giorno?
Risi amaramente.
-Fa bene a chiederlo a me, signore. Per sapere cos’è la libertà bisogna chiederlo sempre a chi non conosce ancora questo privilegio. Ebbene, la libertà è saper vivere. Sdraiarsi in mezzo ad un campo, non essere obbligati agli inchini, alle catene. E’ un lampo, una saetta, un muro di dolore, un cielo limpido, acqua fresca, un amico ritrovato. Fa vivere e morire, questa libertà.
L’uomo si portò una mano alla fronte e sospirò.
-Molto poetico, davvero. Ma ora è davvero venuto il momento di andare.
-Già ve ne andate?
Sorrise nuovamente.
-Ho altre rose da consegnare, mio giovane assassino. Spero di rincontrarvi il più tardi possibile.
Cercai di rimettermi in piedi, senza successo. Rimasi con la schiena contro la parete, guardandolo attraversare la cella fino alla porta.
-Addio- dissi, comunque sapendo che l’avrei rincontrato a breve.
-Addio, signore-
Con un tonfo, si chiuse la porta alle spalle
Strinsi di nuovo la rosa, mentre la candela si spegneva.
Mi riaddormentai a terra.

Domenica mattina nemmeno il sole riusciva ad illuminare quelle mura gelide.
Erano passati tre giorni.
Solo tre petali si erano staccati dalla rosa, mentre gli altri erano quasi del tutto appassiti.
Ero seduto sul materasso. Quella domenica sembrava anche più scomodo.
Mi rigiravo la rosa tra le dita, immaginando che quei petali rimanessero per sempre bianchi e morbidi, com’erano all’inizio.
Speravo che la rosa non appassisse, ma volevo morire.
O meglio: non volevo vivere. La questione è diversa.
Ripensai a quell’uomo, a come mi fermò quando tentai di guardargli il volto, a quando mi chiese cosa fosse la libertà.
Non volevo vivere, ma nemmeno volevo morire.
Troppo debole per continuare a vivere, e troppo vigliacco per smettere di farlo.
Una rosa mi avrebbe salvato? Un capriccio della natura avrebbe determinato il mio destino?
Sfiorai un petalo. Lo sfregai sotto le dita e… si staccò.
Un giorno in meno.
Feci lo stesso con il secondo.
Due giorni in meno.
E poi con il terzo, il quarto, il quinto.
Rimase solo un petalo, solo un giorno.
Risi guardandoli, grigiastri, schiacciati sul pavimento.
Bastò un soffio di vento a staccare l’ultimo. Volò via, fuori dalla finestra.
Libero.

-GUARDIA!-
Chiamai con quando fiato avevo nel petto.
-GUARDIA! LIBERATE QUESTA CELLA!
Il guardiano di turno mi osservò: affannato, stringevo lo stelo spoglio.
-E’ già giunto il tuo giorno?- chiese.
Sorrisi.
-Così pare.
Uscì di nuovo dalla cella. Quando rientrò erano in due.
Mi legarono le mani, gettando occhiate all’interno.
-Esca, la prego- disse il secondo, senza neanche guardarmi.
Mentre gettavo un’ultima occhiata alla cella, sentii di nuovo la voce dell’uomo che mi aveva fatto visita tre giorni prima.
-E’ già il tuo momento.
Non era una domanda.
-Mi spiace non avere il pollice verde!
Rise. Aveva il volto coperto da un cappuccio nero.
-La rosa ha ceduto troppo in fretta. Cos’avete combinato, signore?
Sospirai.
-Non ho voluto aspettare il volere di una rosa capricciosa.
-Non siete il primo, caro signore.
Feci una smorfia, poi sorrisi.
-Sono stato condannato a morte per volere di un giudice, ma il giorno della condanna l’ho scelto io, e non una rosa, signore.
Volevo sembrare sfacciato, ma dentro tremavo.
Le mie membra urlavano al pensiero di una corda stretta al mio giovane collo.
Il cuore scalpitava sempre più forte nel petto, mentre recitavo il mio copione.
Nessuno si mosse, le due guardie si scambiarono un’occhiata vagamente confusa.
-E ne siete felice?- chiese l’uomo, compiaciuto.
Allontanarmi da questa vita, senza lasciarla. Come potevo? La morte era il mio unico scampo, e, se avesse messo fine al mio dolore, le sarei andato incontro.
-Ne sono fiero. Ora, se siete d’accordo, vorrei essere accompagnato al mio patibolo.
Uno sguardo spaventato tradì ogni emozione, facendomi uscire allo scoperto.
Ma l’uomo ebbe compassione, e fece finta di non capire.
Prima di uscire, lo vidi gettare un’occhiata all’interno della cella e sorridere alla vista del tappeto di petali bianchi ai piedi del letto.

   
 
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