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Autore: Mapi D Flourite    24/12/2009    1 recensioni
BUON NATALE, KARYON!
Perché pioveva sempre? A che cosa serviva, tutta quella maledetta pioggia?
Lo vide alzare il viso, gli occhi su di lui, la faccia bagnata. [...]
A che serviva, la pioggia, se non era nemmeno in grado di lavare via un po’ di sangue?
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: James Potter, Severus Piton
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Wash away my sin
Pairing
: James/Snape
Rating: PG
Conteggio  Parole: 1446
Warnings: Slash, Angst, nomi e nomignoli originali, Angst, un po' di botte e parolacce. Ho già detto Angst?
Spoiler: Nessuno.

Note: Sono più di tre anni che non scrivo una parola su questo Fandom e, in particolare, su questa coppia. Onestamente non so che effetto mi faccia, questa cosa.
E, onestamente, non so nemmeno da dove mi sia uscito di scrivere questa One Shot. Sul serio, non so che dire.
Solo che spero che vi piaccia.

Disclaimer: Harry Potter e i suoi personaggi appartengono agli aventi diritto. Questa fanfiction non è scritta a scopo di lucro.

Dedica: Karyon, buon Natale!
So esattamente che questa fanfic non è proprio impregnata di gioia festiva e di clima natalizio ma sono abbastanza fiduciosa che possa, se non piacerti, quantomeno andarti a genio. Dopotutto tu lo sai meglio di chiunque altro che il vero regalo, qui, oltre che la fic in sé, è proprio il Fandom su cui è scritta, vero?
Scriverti questa fanfic è stato doloroso, me la sono strappata dal cuore, insieme a tutta l'amarezza che mi porto ancora dentro. Non l'ho estirpata, ma ho trovato una forza (quella di far finta di niente, quella di andare avanti) che non credevo di possedere.
Scrivere questa fanfic, alla fine, è stato bello. Perchè è un regalo, perché spero che possa esserti gradita e perché, forse, sto diventando molto più forte e molto più consapevole che c'è sempre una via d'uscita
Ti voglio bene, e non è tanto per dire.
Ancora buon Natale.

-:-:-

Non lo guardò in viso mentre lui lo strattonava per le spalle, stringendogli le braccia ossute fino a fargli male, parlandogli – urlandogli dritto nelle orecchie fino a stordirlo. Gli riversava addosso tutti quei fiumi di parole che aveva già sentito in troppi sospiri e troppi sguardi, che aveva già visto dipinte sulla sua stupida faccia quando, improvvisamente, se lo era trovato davanti in maniche di camicia e calzoni leggeri, se lo era trovato addosso con quelle mani bollenti e quegli occhi che sembravano volergli uscire dalle orbite.
E c’era pure quella cazzo di pioggia. Digrignò i denti, sotto i capelli che gli si appiccicavano sulla faccia, la fronte, le guance, schifato oltre misura mentre l’acqua si intrufolava sotto i suoi capelli e il mantello, inzuppandolo da capo a piedi. Fottuta, fottuta pioggia.
«Mi stai ascoltando?!»
Ritirò la testa tra le spalle, distolse lo sguardo, chiuse gli occhi. Falla finita. Vattene e falla finita. Prima sentì le ossa del braccio quasi scricchiolare e poi si trovò in bilico sulle sue gambe malferme, quando venne meno il suo sostegno. Sentì un freddo lancinante, dove prima c’era stata quella morsa di ferro – bollente – e si ritrovò sulla terra, nel fango umido, le mani sulla faccia che bruciava.
Per la prima volta, alzò gli occhi.
Lo troneggiava, immerso nella luce fioca e tremolante di un lampione, le braccia distese lungo il corpo con i pugni serrati. Non lo guardò in viso, tanto sapeva già cosa ci avrebbe trovato.

Orrore, disgusto, disprezzo.
Odio.

Si girò su un fianco e si passò un polso sulla faccia, sul naso sanguinante. Dentro di sé provava quasi una perversa soddisfazione nell’averlo spinto a tanto. Appoggiò il palmo della mano per terra, tra i rigagnoli e cercò di tirarsi a sedere, schiacciato dal peso della pioggia che gli gravava addosso.
Rise.
Una risata roca, esausta, folle. Gli occhi spalancati sul niente, la testa vuota, il corpo scosso da un fremito che sembrava troppo simile ad un conato di vomito. Sentì il sangue bagnargli le labbra e si pulì, macchiandosi la faccia, continuando a ridere in silenzio, sotto un cielo opprimente e uno sguardo che gli toglieva il respiro.
Girò la testa e sollevò il mento. «Sei contento, adesso?» Lo guardava di sottecchi, sotto le sopracciglia e i capelli unti, quasi felice di vederlo esitare un attimo mentre sulla sua – fottuta – faccia si dipingeva un’espressione quasi alienata.
«Contento?» Biascicò, sollevando e appassendo il mento lentamente mentre un ghigno si dipingeva sui suoi lineamenti. Gli donava. «Tu pensi che io sia contento?» Incredulità, lenta e serpeggiante, mentre la sua bocca si deformava e lui si lasciava andare ad una risata latrante, troppo dannatamente simile a quella di quel maledetto cane. «Ma certo che sono contento! Non potrei essere più contento!»
Ora ringhiava quasi, come un cane.
Lui si ritrasse, senza distogliere lo sguardo. «Allora vattene! Hai detto quello che avevi da dire, no? Vattene!»
Gli sembrò che stesse per cadergli addosso. Se lo trovò a pochi centimetri dal suo naso, inginocchiato sopra le sue gambe e non vide il pugno che si infranse di nuovo sulla sua faccia, facendolo rantolare per terra.
«Certo che sono contento! Contentissimo! Al settimo cielo!» Uno, un altro, un altro ancora, lo zigomo, la tempia, in naso, la bocca, le sue mani che cercavano inutilmente di fermarlo. «Non vedevo l’ora di avere una buona ragione per spaccarti la faccia!»
Un rantolo e l’ennesimo pugno si fermò a mezz’aria. Alzò il viso zuppo di acqua e sangue e incontrò i suoi occhi dietro il vetro appannato degli occhiali. «Contentissimo…» Lo vide fremere e tirare un cazzotto alla terra. Strisciò via, come un rettile, andando ad acquattarsi poco più in là senza smettere di scrutarlo mentre lui non faceva altro che ridere.

Stava sicuramente ridendo. Di lui.
Sicuramente.
Sicuramente.

Cercò di alzarsi in piedi e scivolò sulla rena fradicia, inciampando, ritrovandosi a faccia in giù. Si fece forza sulle braccia e le ginocchia traballanti e si mise dritto, sentendo le forze venir meno.
Ora era lui in piedi, ora era lui a troneggiare ma, con quella poca luce che gli sbatteva negli occhi continuava a sentirsi piccolo e meschino, sotto quell’acqua scrosciante.
Perché pioveva sempre? A che cosa serviva, tutta quella maledetta pioggia?
Lo vide alzare il viso, gli occhi su di lui, la faccia bagnata. Tutta colpa della pioggia. Distolse lo sguardo e si passò una manica sulla faccia, ancora, mentre il sangue si raggrumava sulle ferite.
A che serviva, la pioggia, se non era nemmeno in grado di lavare via un po’ di sangue?
«E tu, Snivellus?» Sembrava quasi strano, dopo tutto quel tempo, sentire ancora quel nome sulla sua bocca.

Era stato capace di chiamarlo in ben altro modo, con ben altra voce.

«Io… Io cosa?» Uno scatto nervoso, come se fosse pronto, preparato ad essere aggredito di nuovo.
«Sei contento, Snivellus? Sei soddisfatto? Ti senti tanto forte, adesso? Sei fiero di te?»
Non riusciva a sostenere lo sguardo e non poteva distoglierlo. Si sentiva in trappola, come un topolino. Deglutì a vuoto e rispose con la voce più grossa che poté, non sicura come lui l’avrebbe voluta. «Non… Non sono affari tuoi!»
Lui si alzò da terra con la camicia macchiata e fradicia, gli occhi fissi sulla sua figura. «Non sono affari miei. Certo che non sono affari miei. Come cazzo potrebbero, essere affari miei?!»
E gli corse incontro, di nuovo, e lui sentì le mani calde afferrargli le braccia e strattonarlo. Ma non arrivò nessun pugno, nessun colpo; non lo buttò per terra, non lo prese a calci.
Spalancò gli occhi e si dibatté furiosamente quando sentì le sue labbra sulle proprie e la sua lingua entrare di forza nella sua bocca, quasi come se stesse cercando di soffocarlo, di rubargli tutta l’aria, tutta la vita che gli scorreva nelle vene. Se lo tirò più vicino e lo prese per il bavero, buttando via il mantello, rompendo ogni bottone che gli capitava tra le mani.
Cercò di scansarsi, agitandosi come un pesciolino inerme, ma lui sembrava non volergli dare tregua. Lo baciava, impiastricciandosi la faccia di sangue e gli strappava i vestiti, scoprendo la pelle troppo chiara che le stilettate di pioggia ferivano senza tregua. Quando gli strappò la manica sinistra lui riuscì a ritrarsi, rimettendo insieme i brandelli a coprirgli le spalle.
Si guardarono per un lungo istante, mentre le pioggia si abbatteva impietosa su entrambi.
«Perché, Severus?»
Lui non rispose, cercando di reprimere il brivido caldo che lo scuoteva fin da dentro.
«Perché?»
Digrignò i denti e maledì la pioggia che gli faceva bruciare gli occhi.
«Perché lo hai fatto?»
«Perché sì.»
«Non è una risposta!»
«E allora? Non ne hai ancora avuto abbastanza? Alzare le mani non ti fa sentire poi tanto grande?» Lui non rispose. «È così? Dici tante belle cose, Potter, ma, alla fine, che resta? Bugie, bugie, bugie e la boria di un moccioso che fa finta di giocare con i grandi?»
Lui strinse i pugni, abbassando la testa. «Non hai capito niente.»
«Non mi interessa, qualsiasi…»
«Non hai capito niente! Sei tu il fottuto moccioso che non sa che cazzo sta facendo. Guardati:» indicò il suo braccio sinistro e lui se lo strinse al petto. «A che ti è servito? Ti ho comunque pestato a dovere, ho fatto comunque quello che volevo!» Pestò i piedi a terra, e si asciugò la faccia – dalla pioggia – con una mano.
«Sta zitto!»
«Cosa? Ti sei reso conto di essere un idiota? Lo sai che non si torna indietro?»
«Zitto! Non mi interessa quello che hai da dire, non mi interessa niente di te!»
Rimase zitto. Rimase zitto a guardarlo da quella rete d’acqua che lo faceva apparire tanto lontano. Irraggiungibile. Abbassò lo sguardo e poi lo rialzò. Sembrava quasi che gli tremassero le labbra.
«Potevamo risolvere tutto. Potevamo… io e te… si sarebbe risolto tutto.»
«Non è vero.» La voce era più ferma di quanto si aspettasse.
«Tu non hai aspettato.»
«Cosa dovevo aspettare?»
Non gli rispose e lui capì che non gli avrebbe più risposto. Mosse un primo passo, poi un altro, un altro ancora, lentamente, fino ad essergli accanto, quasi a sfiorargli la spalla con la sua.
«Severus…»
Chiuse gli occhi per non vedere quello che sapeva ci sarebbe stato dipinto su quel volto.

Sofferenza, compassione, paura.
Amo…

Continuò a camminare lasciandoselo alle spalle e stringendosi le braccia al petto magro, tremando come una foglia. Stupida pioggia che gli faceva bruciare gli occhi, stupida pioggia che gli scivolava sulla faccia, sulle guance, sulle labbra, stupida pioggia che lo faceva tremare e che gli faceva gocciolare il naso.

Stupida pioggia che non era nemmeno capace di cancellare un segno marcato a fuoco sul suo braccio.

  
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