“Basta, Morrighan, smettila” era cominciata così,
la nostra conversazione settimanale, stavolta; in uno di quei locali Londinesi
in cui non capisci realmente con chi tu sia o se sia da sola, da tutte le anime
che circolano con bicchieri in mano.
“Smetterla di cosa?” quello era stato il punto
culminante. Già, smetterla di cosa? Lo avevo chiesto buttando giù il secondo
bicchiere di Gin, penso fosse Gin, ma si sa all’alba non è semplice rendersi
conto di cosa si butta dentro lo stomaco: poteva anche essere veleno, non mi
sarebbe importato granché.
“Indovina? Cosa stai facendo da due ore a questa parte?”
ironia spiccia, veramente scontata, la sua; era una frecciatina eppure non
riuscivo ad allontanare lo sguardo dal bicchiere, sfiorando la sua figura magrolina
ma ben mantenuta che si rifletteva sul vetro lucido.
“Non so, stressarmi con te affianco, forse?” lui
sbuffa, inarcando la schiena all’indietro. Sicuramente sarebbe caduto dalla
sedia, se non avesse avuto la fortuna di avere il muro a pochi centimetri. Il
suo sguardo sarebbe stato un perfetto vaffanculo, se non sapessi quanto
tende ad essere educato nei miei confronti.
Penso di fargli pena, per i miei vestiti, per la mia casa
piccola, per i miei genitori chissà dove.
Ed anche per il mio essere stata esclusa dalla sua vita
così brutalmente da farmi dimenticare gran parte delle cose che facemmo insieme
da bambini.
“Ovviamente no, voglio che la smetta di bere quel Gin.”
E no per una volta mandami a quel paese e basta! Odio quello sguardo da Padre
che mi mostra ogni volta che mi vede così. Che poi.. non sono in nessun modo così.
“Bene, allora, per farti contento, passerò alla
Tequila, ti piace?” sbatte un piede contro il pavimento, tornando con le
gambe della sedia contro il terreno. Oh, sei arrabbiato, tesoro?
“E poi come cazzo ti ci porto a casa, me lo dici? Come
glielo spiego a Mio padre che ti sei ubriacata fino a rischiare di crepare?” bella argomentazione, peccato non regga.
Reggo l’alcool quant’è vero che lui è davanti a me in questo momento, per cui
non vedo perché debba stufarmi con le sue Filippiche.
“Domani mattina sarò fresca come una rosa, per vedere
tuo padre, non ti preoccupare.” Steccata, mi guarda con un’espressione
compassionevole ed al contempo stufa.
“E’ già domani mattina, Morrighan” ecco quelle
parole che ora mi tormentano violentemente.
“Che tu possa essere maledetto quanto quest’alba
metropolitana” lentamente lascio andare il bicchiere sul tavolo. E’ mezzo
vuoto, o mezzo pieno, dipende dai punti di vista, ovviamente. Il mio adorato
Gin abbandonato da solo a quel tavolo scorticato da chissà quale balordo
londinese. A guardarlo ora, Lui sembra più rilassato, odia quando bevo, o
meglio, odia dovermi portare a casa sua ubriaca, sebbene sia la prima volta
dopo mesi – o forse anni addirittura – che lo fa.
Non finirò mai di ricordare quella lettera via Gufo che
aveva spaventato la mia vicina di casa.
“Ti vengo a prendere, dobbiamo parlare. Amadeo”
Quel nome lo usava solo con me e non so nemmeno perché lo
facesse. Amato da Dio, significava, visto dal latino, davvero un bel
controsenso, per uno che crede solo in sé stesso usare quel nome.
Mi aveva spaventata, sapevo cosa fosse successo negli anni
in cui ero stata lontana da casa sua anche se ovviamente informarsi era
difficoltoso nascosta com’ero dentro quel maledetto Collegio in Svizzera, ma
per mia fortuna tre anni fa ne fui liberata, in modo tale da potermi godere
quel poco che dei miei genitori mi rimaneva, il loro patrimonio
- non da poco, lo
ammetto – e le loro rare foto insieme.
Credo di non aver mai odiato tanto la libertà.
Fattosta che ora, a distanza di tre anni dalla morte dei
miei genitori lui torna farsi vivo. Perché? A causa di cosa?
Era per quelle domande che mi mantenevo lucida, per quelle
risposte che da lui non arrivarono mai se non con un secco: saprai tutto
quando saremo a casa.
Sinceramente lo avrei preso a pugni, ma la mia reputazione
di donna paziente doveva essere sicuramente salvaguardata più della mia
curiosità.
“Ovviamente, però hai accettato il mio invito, vero Puerpera?
E come mai? Perché avevi voglia di vedermi, di tornare dove sei nata, ed è
questo che intendo fare io. Oggi stesso.” Quelle parole mi riportano alla
realtà come pugnalate contro il cuore. Si, volevo rivederti, Amadeo, era da
così tanto che i tuoi occhi grigi non mi scorgevano, da farmi tremare al
pensiero di tornare vicini anche se per poco tempo.
“Anche se fosse? Qui ho una vita più che decente, non
vedo perché dovrei tornare dove ero prima. Non lo capisco, non capisco perché
dopo anni i tuoi genitori mi permettono di mettere piede in casa tua, dopo che
per tutto questo tempo ti hanno impedito di vedermi.” Prendo fiato, è il
dolore che mi brucia in petto forte come il Sacro Fuoco di Vesta che non si
spegneva mai, per ardere in eterno e proteggere così le mura della Roma Latina.
Ricordo ancora i nostri incontri clandestini, le lettere spedite da Londra a
Londra via posta, niente di più naturale, niente di più fraterno d’una
relazione mantenuta segreta con chi con te condivide il sangue più dolce.
Sapevano d’Ambrosia, le sue parole. Lettere
chilometriche, pagine su pagine di
parole ricolme di rancore verso chi lo partorì e d’amore verso chi non gli era
permesso di vedere: me, la sua Puerpera.
“No, non è così, e lo sai. Potresti avere molto più di
questo, e sai perfettamente che la ricchezza dei tuoi genitori non ti è di
supporto, né tanto meno di consolazione: hai bisogno di me, ed io ho bisogno di
te, ora più che mai.” Una fucilata, la definitiva. Io non ho bisogno di
nessuno e nessuno ha bisogno di me; mando giù il Gin, con lui che si disgusta
alla vista del liquido che bagna le mie labbra. Gli piacciono, le mie labbra,
le ha sempre trovate belle e nelle sue tavole erano speciali, sempre tinte di
rosa perlato ed i miei capelli? Anche quelli li adorava: rossi come il fuoco
delle foglie autunnali, con tinte oro che sembrano privare di luce il Sole.
“Non hai bisogno di me, lo sai” ed ora sono in
piedi, trascinata dalle sue mani fuori dal locale, stretta tra corpi
sconosciuti, tra l’ebbrezza di un fumo strano, di droga cerebrale: il conforto.
Sentivo il suo respiro accanto al mio, sentivo le sue mani strette intorno ai
miei polsi mentre quei corpi estranei mi sfioravano maledettamente precoci.
Poi il nulla, l’Alba su una Londra ancora viva: viva dei
suoi giovani, delle sue anime allegre, tinta da colori vivaci ed invitanti.
Ecco cos’era Londra, una candela accesa in mezzo al Buio, buttaci su del Gin e
s’infiamma mortalmente.
“Ecco, cosa dovevo farti vedere” ora sembra
disperato. E’ il buio, che sovrasta la città, il buio del cielo, un buio
innaturale che non sembra reale; che non è reale, bagnato da lampi verdastri,
sempre più imponenti. “E’ tornato quello che ti allontanò e tu non puoi
farci niente, Puerpera. La settimana scorsa è arrivata questa, a casa: se non
mi credi t’illuminerà.”
Una
busta bianca, a contrario del cielo mi veniva in mano, ora. Sottile e morbida,
penso che se fossi stata più sveglia avrei subito riconosciuto il sigillo che
la teneva chiusa. Quanto aveva atteso Amadeo quella busta! Quanto i suoi
genitori avevano sperato in meglio! Ma probabilmente ero troppo annebbiata per
rendermi conto di quello che stava succedendo, di collegare i fatti, di
immaginare cosa quella busta celasse, cosa quel cielo mettesse in mostra: non
fuochi d’artificio, ma altro.
Il
sigillo si spacca con poca difficoltà, mostrando una carta sbiadita lievemente
e poche parole:
“Questa
per informarLa della mia decisione – tardiva – di accoglierLa fra le braccia
della Scuola di Stregoneria e Magia di Hogwarts. La sua carriera scolastica
presso Noi riprenderà esattamente dal 5° Anno, sperando che, nella sua
lontananza abbia mantenuto vivi i suoi poteri. Speriamo accetti di abbandonarsi
alle Mie cure ed a quelle degl’insegnanti
Ossequi,
Albus Silente”
Girai
la lettera. Non era possibile, non tutto d’un tratto, non tutto ora. Sull’altra
faccia della busta brillava, una scritta in oro:
Morrighan
Eloise Malfoy