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Autore: Naco    26/12/2009    3 recensioni
A lui era sempre piaciuto, starsene lì, su quella panchina, a fissare i binari vuoti, in attesa dell’arrivo e della partenza dei treni.
Gli piaceva guardare quegli scatoloni enormi, capaci di trasportare da una parte all’altra del Paese tanta gente e adorava vedere le espressioni di coloro che attendevano l’arrivo del proprio treno e di quelle che scendevano dalla vettura. [...]
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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The train man


A lui era sempre piaciuto, starsene lì, su quella panchina, a fissare i binari vuoti, in attesa dell’arrivo e della partenza dei treni.
Gli piaceva guardare quegli scatoloni enormi, capaci di trasportare da una parte all’altra del Paese tanta gente e adorava vedere le espressioni di coloro che attendevano l’arrivo del proprio treno e di quelle che scendevano dalla vettura. Era come poter entrare nei loro mondi, esplorare per un attimo le loro vite. Ormai aveva studiato talmente tante facce che era diventato bravissimo a comprendere le storie dei loro possessori, che poteva indovinare subito cosa avrebbero fatto o avevano visto, semplicemente da un’occhiata. Lo riconosceva appena lo vedeva, l’impiegato stanco del suo lavoro nonostante fosse ancora molto giovane e indovinava che probabilmente presto si sarebbe licenziato da quel posto e avrebbe cercato un altro impiego; individuava al volo il professore che, tutto impettito, andava a far lezione, il maniaco che saliva sul treno sempre quando c’erano più ragazze giovani, magari quelle che andavano all’università, i giovani liceali che parlavano di calcio, donne e compiti, gli universitari preoccupati per gli esami e la tesi; capiva subito se una giornata era stata particolarmente stressante, se una persona aveva un problema familiare, se un esame era andato bene o era stato un fallimento, se una persona era stata lasciata o aveva trovato da poco l’amore.
E amava ascoltare i discorsi, quei frammenti di vita che alla fine gli dimostravano sempre che aveva visto giusto, che non si era affatto sbagliato, e soprattutto che gli permetteva di lasciare con loro quel luogo e di vivere ancora un po’ con quella gente, seguendola per un pezzettino della loro vita, anche se soltanto con la fantasia.
Quando era piccolo, non c’era stato giorno che scappasse di casa per poter correre in stazione e potersi gustare quello spettacolo per ore ed ore. Sua madre non faceva che rimproverarlo per tutti i grattacapi che le dava, tuttavia il personale della stazione era ormai talmente abituato a quel ragazzino che ogni giorno si limitava a sedersi su una panchina e a guardare rapito il loro mestiere, che iniziarono a considerarlo uno di loro e i pendolari regolari presero a persino a regalargli qualche cioccolatino. Una volta che lui aveva avuto gli orecchioni e non si era presentato in stazione per un po’, il bigliettaio era andato persino a casa sua ad accertarsi che stesse bene.
I suoi genitori erano sempre stati convinti che, con gli anni, quella sorta di fissazione sarebbe venuta meno e che avrebbe smesso una volta che fosse cresciuto; tuttavia, gli anni passavano e lui continuava imperterrito a trascorrere i suoi pomeriggi su quella stessa panchina. Quando gli impegni scolastici si erano fatti più pressanti, aveva anche preso l’abitudine di portarsi i compiti lì, pur di non perdere neanche un minuto.
“Tuo figlio è malato!” aveva commentato una volta la madre verso il marito, che, a differenza sua, tollerava e persino vedeva di buon occhio la mania di suo figlio.
“Vedrai che quando si troverà una ragazza la smetterà.”
Ma gli anni passarono, inesorabilmente, e non solo continuava a frequentare la stazione come prima, ma non accennava a portare a casa nessuna ragazza.
“Non è che è omosessuale?” si chiese una volta suo padre.
“Per me, è innamorato di quella stazione e basta.” Fu la lapidaria e piuttosto contrariata risposta di sua moglie.
Un giorno, il ragazzo si presentò in salotto, dove i suoi genitori stavano guardando un programma in televisione; si mise davanti all’apparecchio e li fissò, deciso.
”Mamma, papà, devo darvi una notizia.”
I due si guardarono preoccupati, ma allo stesso tempo felici per la strana determinazione che videro negli occhi del giovane.
“Cosa c’è, figliolo?”
“Ho deciso di lasciare l’università.”
Alla madre, per poco non venne un colpo al cuore.
“Cosa?”
“Ho deciso di fare il concorso per entrare nelle ferrovie.” Spiegò.
Fu in quel momento che entrambi compresero che la sua passione era così forte che non sarebbero mai riusciti a contrastarla.
Nonostante sapesse di star dando un dispiacere enorme ai suoi genitori, la sua decisione fu irremovibile. Era talmente tanto deciso che anche sua madre comprese finalmente che, forse, quella era l’unica strada che avrebbe potuto renderlo veramente felice; eppure, nonostante tutto, si era più volte scoperta a sperare che non passasse il colloquio e non venisse assunto.
E invece, lui ce la fece: quando tornò nella sua amata stazione e salutò il capotreno, non lo fece più come semplice amico o passeggero, ma come suo collega.
Tuttavia, ben presto si accorse che qualcosa non andava: benché avesse finalmente coronato il sogno della sua vita, benché fosse addirittura pagato per fare il controllore e lavorare su quei treni che tanto amava, sentiva che c’era qualcosa di incompleto nella sua vita: guardare i passeggeri stanchi per la lunga tratta, allegri perché erano in buona compagnia, pensierosi, mentre il paesaggio scorreva accanto a loro indifferente, tristi per chissà quale oscura ragione, non lo commuoveva più. E benché continuasse a comprendere ognuno di loro anche solo guardandolo in viso per pochi attimi, si rese conto che ciò non lo rendeva più felice e soddisfatto come una volta.
“Forse perché il tuo era soltanto un capriccio e adesso che vivi in quel mondo ti rendi conto che non è così bello come sembrava.” Cercò di aiutarlo sua madre, che non aveva mai cessato di sperare che suo figlio lasciasse perdere e riprendesse l’università.
Eppure, non era convinto. Lui amava ancora i treni. Amava cercare di intuire cosa passasse nella mente dei suoi passeggeri. Amava il suo fischio, che decretava la partenza del convoglio, e amava la locomotiva che sbuffava di quando in quando.
E allora? Cosa c’era che non andava?
Lo comprese un giorno, quando un collega aveva avuto un’emergenza in famiglia – sua moglie aveva avuto le doglie e non poteva lasciarla sola in quel momento! – e, visto che si conoscevano da quando lui era ancora un ragazzino, gli aveva chiesto di sostituirlo in stazione, come favore personale.
Era stato allora, mentre osservava i passeggeri scendere e salire dal convoglio, che l’aveva sentita, quella sensazione, che aveva sempre amato e che negli ultimi tempi gli era mancata: quella gioia mista ad invidia di chi percepisce dietro a quei volti anonimi la loro vita, i loro segreti, le loro speranze e le loro paure, tutto ciò che ognuno di loro aveva accumulato nel viaggio che li aveva condotti lì o quelli di coloro che invece si accingevano a compierlo, quel tragitto.
E finalmente si rese conto di cosa aveva davvero amato in quegli anni: non era il treno in sé, il suono del fischio, lo sbuffo della locomotiva, il rumore delle rotaie sotto il peso dei vagoni… era piuttosto quel senso di attesa, di qualcosa di indefinito che si sarebbe svelato alla fine del viaggio, i sentimenti di coloro che l’avevano compiuto e che finalmente avevano avuto modo di vivere quello che avevano atteso. E al contempo, mentre qualcosa veniva scoperto, qualcosa di nuovo si preparava a farsi svelare, dopo il loro ritorno: il piatto pronto a casa, l’incontro con un amico o con la persona amata, una serata romantica, i compiti da fare…
Era quel senso di attesa di un futuro non ancora scritto, ma in un certo senso segnato, ciò che vedeva negli occhi della gente e che tanto amava.
Era l’attimo in cui scendevano e salivano quei gradini il momento in cui, lo sapevano e lo sapeva, il fato avrebbe ricominciato a muoversi e, con lui, gli eventi.
Fu quando finalmente comprese, che capì cosa doveva fare: corse in direzione e chiese di poter cambiare le sue mansioni: non voleva lavorare sui treni, ma per la gente che li prendeva, quei treni, in stazione.
Inizialmente, i suoi responsabili non si dimostrarono molto contenti di questa idea: ma come, uno appena arrivato pretendeva già di fare di testa sua? E poi, perché, visto che aveva vinto un concorso? Eppure, il suo appello fu così accorato che alla fine quelli furono costretti ad assecondare le sue richieste.
E fu così che finalmente riuscì a sentirsi veramente sereno e felice.

**

“Quindi quell’uomo visse felice e contento con i treni per sempre?” Chiese il bambino, voltandosi a guardare l’uomo che gli si era seduto accanto e che gli aveva raccontato quella storia. Era un vecchio strano, si disse, che però non gli faceva paura. Sua madre gli aveva sempre detto di non parlare con gli sconosciuti, eppure, quando quello strano tizio gli si era seduto accanto e gli aveva chiesto cosa ci facesse lì e perché non fosse a casa a fare i compiti o a giocare come tutti i bambini, lui non aveva avuto alcun tentennamento nel rispondergli.
“Mi piace guardare i treni.”
Allora, l’uomo l’aveva guardato a lungo, con tenerezza e gli aveva domandato se avesse voluto ascoltare una storia.
“Sì, piccolo.”
Il bambino saltò giù dalla panchina e gli si parò davanti, gli occhi che gli brillavano di gioia.
“Secondo te, anche io un giorno potrei diventare come quell’uomo?”
Il vecchio gli sorrise e gli pose una mano sulla testa.
“Io ne sono sicuro. E anche lui lo sarebbe.”
“Credi che un giorno potrei conoscerlo anche io, questo tuo amico?”
“Perché no? Magari potreste guardare insieme i treni che passano, come stiamo facendo noi due, adesso. Magari lui potrebbe raccontarti come facesse a capire gli esseri umani solo guardandoli negli occhi e...”
“Guido! Ancora qui? Quante volte ti ho detto che non devi venire da solo in stazione?” urlò all’improvvisò una voce femminile. Era la mamma del bambino che era andata a recuperare il suo piccolo discolo.
Il ragazzino sbuffò contrariato da quell’interruzione. “La prossima volta mi racconterai ancora del tuo amico, signore?”
L’uomo sorrise e annuì. Osservò ancora per un po’ la madre che stava continuando a rimproverare il figlio per il suo comportamento sconsiderato e gli parve di tornare indietro nel tempo, a quando, molti anni prima, gli era capitato di incrociare un altro ragazzino con la stessa passione per i treni.
“E tu che cosa ci fai qui? Non dovresti essere a casa, adesso.” aveva chiesto anche a lui.
“Mi piace guardare i treni.” Gli aveva risposto serio il piccolo.
Sorrise nel ricordare quel ragazzino che aveva incrociato su quella stessa panchina anni prima, quando lui era ancora giovane ed aveva fatto il concorso nelle ferrovie di malavoglia, solo perché non sapeva cosa farne della sua vita; l’aveva considerato un bambino, all’inizio, nonostante avesse pochi anni meno di lui, eppure gli aveva insegnato ad amare quel mestiere con tutto se stesso.
E i treni avevano ricambiato il suo sconfinato amore, tanto da avergli concesso di realizzare anche l’ultimo dei suoi desideri e morire su quella panchina, seduto ad ammirare quegli amici che aveva continuato ad andare a trovare nonostante la malattia l’avesse alla fine costretto a licenziarsi.
Aveva pianto a lungo, quel giorno, come tutti i suoi colleghi, anche quelli più giovani che conoscevano solo a metà la storia così particolare di quell’uomo che amava i treni.
“A quanto pare esistono ancora dei pazzi sognatori come te, eh?” chiese lanciando un ultimo sguardo ai binari che si stavano lentamente ripopolando, prima di ritornare nella sua posizione, in attesa che il fischio della locomotiva segnasse l’arrivo di un altro treno.

Fine

Note dell’autrice
Dovete sapere che io ho un’insana passione per i treni. Praticamente io adoro andare in stazione, ogni giorno, per andare a lezione. Certo, ammetto che il fatto di non dipendere dalle FS fa sì che il mio affetto per questi mezzi sia nettamente superiore a quello di coloro che sono costretti ad avere a che fare con ritardi e soppressioni praticamente ogni giorno. XD
Ragion per cui, ho sempre sognato di scrivere di qualcuno così, che ama così tanto qualcosa da renderla la sua unica ragione di vita e il prompt #44 della criticombola di Criticoni (alla cui iniziativa ovviamente questa storia partecipa) mi ha dato l’imput necessario. Mi rendo conto che è un po’ assurda, come possibilità, ma il mondo è bello perché è vario e ormai io non mi stupisco più di niente. XD
Mi rendo conto di non essere espertissima su come funzionano le cose in una stazione; ho cercato anche informazioni in giro, ma ho trovato poco e niente; ragion per cui, se trovate incongruenze o stranezze, ditemi pure, che modifico e controllo. XD
Ah, piccola nota: anche a me che l’ho scritta, questa storia ha ricordato un po’ La leggenda del pianista sull’oceano, film tratto dal bellissimo monologo Novecento di Alessandro Baricco. La mia intenzione ovviamente non era quella di ispirarmi, ma quando me ne sono accorta ho pensato che il riferimento mi piace, sia perché amo quell’opera, sia perché l’amore del protagonista per le stazioni è forse pari a quello che lo stesso Novecento prova per la sua nave.
Perché il protagonista non ha un nome? Gliel’ho chiesto anche io, ma lui mi ha risposto che non era importante…
   
 
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