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Autore: Naco    27/12/2009    3 recensioni
Può sembrare una stupidaggine, ma, in un certo senso, ero persino fiera del mio carattere: ero diffidente per natura, scontrosa con chiunque incontrassi per la prima volta e questo mi aveva salvata sempre da un sacco di delusioni, tipiche di chi si fida fin dalla prima volta di qualcuno che conosce ancora troppo poco. Non c’era nessuno che fosse in grado di riuscire a fregarmi, dicevo io, con una certa tracotanza.
Le mie assurde e pretenziose convinzioni crollarono miseramente un giorno, nel modo più stupido possibile – e al solo pensarci il sangue mi ribolle ancora nelle vene.
Tutto era iniziato dieci giorni prima quel fatidico giorno. [...]
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Solarial, per il suo compleanno.
Perché è pucciosa, perché è dolce, perché sì.


Like the sun and the moon


Fondamentalmente, io sono sempre stata una persona abbastanza irascibile: mia madre amava definirmi, davanti ad amici e parenti, acida, isterica, permalosa e antipatica – e crescere con una genitrice che ti riempie di simili complimenti, probabilmente non aiuta a migliorare – ma io facevo finta di non sentirla perché, dovevo ammetterlo, anche se avrei preferito la morte piuttosto che farlo davanti a lei, aveva ragione.
Non che la cosa mi interessasse, francamente: a me andava bene così, quindi qual era il problema? Può sembrare una stupidaggine, ma, in un certo senso, ero persino fiera del mio carattere: ero diffidente per natura, scontrosa con chiunque incontrassi per la prima volta e questo mi aveva salvata sempre da un sacco di delusioni, tipiche di chi si fida fin dalla prima volta di qualcuno che conosce ancora troppo poco. Non c’era nessuno che fosse in grado di riuscire a fregarmi, dicevo io, con una certa tracotanza.
Le mie assurde e pretenziose convinzioni crollarono miseramente un giorno, nel modo più stupido possibile – e al solo pensarci il sangue mi ribolle ancora nelle vene.
Tutto era iniziato dieci giorni prima quel fatidico giorno: avevo detto più di una volta a quella cretina di Alessia che alla festa dei diciotto anni di sua cugina non ci volevo andare; ma lei no, aveva insistito e insistito, dicendo che comunque la conoscevo e che lei mi aveva invitato e che quindi non sarebbe stato educato rifiutare.
Beh, da questo punto di vista non posso darle tutti i torti: Sabrina, la cugina di Alessia, mia migliore amica dai tempi delle scuole medie, era quasi una cugina anche per me. L’avevo vista crescere, in fondo, dato che sua madre stava sempre a casa di Sabrina, esattamente come me. E poiché ci aveva sempre visto come le “grandi”, i modelli da seguire ed ammirare – avevamo sei anni di differenza, e, si sa, quando si è più piccoli questi sono davvero tanti, anche se con il passare del tempo questa differenza si riduce sempre di più – : era da noi quindi che era venuta quando le era arrivato il ciclo per la prima volta, quando aveva dato il suo primo bacio, quando per la prima volta aveva fatto l’amore con il suo terzo ragazzo, ancor prima di rivelarlo a sua madre – se mai poi l’avesse fatto, cosa di cui dubito fortemente. Per lei, quindi, io ed Alessia eravamo un po’ come delle sorelle e mamme insieme.
Ragion per cui non potevo dar torto ad Alessia quando l’aveva messa su questo piano, nonostante l’idea di andare ad una festa di diciottenni – e ad un festa in generale -, dove non conoscevo nessuno, a parte la festeggiata e sua cugina, non è che mi mettesse proprio di buon umore.
Inutile dire che le mie aspettative erano state anche troppo rosee: non solo non conoscevo davvero nessuno, ma anche Alessia, la mia unica ancora di salvezza, ben presto fu rapita dai suoi parenti e non la rividi praticamente più.
A quella, si aggiunse la quasi immediata apertura delle danze – un lento, quello della festeggiata – seguito da balli di cui non avevo mai sentito neanche la melodia.
Per non pensarci troppo, mi soffermai a studiare il locale che la mia amica aveva scelto per la sua festa: non era una di quelle sale ricevimenti che da noi molti ragazzi preferivano, neanche si trattasse di un matrimonio poi, ma una semplice palestra, appartenuta alla sua famiglia, che per un giorno aveva smesso le funzioni per cui era stata costruita; alla musica ci aveva pensato il figlio di un conoscente della madre.
Per quanto potesse trattarsi di una palestra molto grande e moderna, comunque, era pur sempre una palestra, quindi non è che avesse molto da offrire ad una persona che volesse ammirarla – insomma, non era una chiesa o un museo, quindi smisi ben presto far finta di osservarne l’architettura.
Chiunque, anche la persona più sospettosa e paranoica di questa Terra, capirà quindi quale gioia fu vedere questo tizio, più o meno della mia età, alto qualche centimetro più di me, venirmi incontro nell’angolo del locale che avevo eretto a mio rifugio personale in quella jungla di ballerini da poco maggiorenni.
“Non ti piace la festa?” mi chiese indicando il baccano intorno a noi.
“No.”
Non avevo intenzione di essere sin da subito così brutale e laconica, ma capitemi: chi, quando ormai si crede condannato al silenzio e finalmente vede l’unica persona con cui pensa di poter intavolare un minimo di conversazione, non manda la suddetta a cagare se questa se ne esce con una simile domanda, quando è palese che io lì mi sentissi come un chihuahua circondato da dei bulldog? La prima impressione che mi aveva fatto, non era stata quindi ottima.
“Posso sedermi?” mi chiese ignorando la mia risposta acida.
Gli feci cenno di sì con la testa e lui, tra tanti posti liberi, scelse proprio quello accanto al mio; tuttavia, il suo comportamento invece di farmi piacere – non ero stata forse io quella che aveva sperato di trovare qualcuno con cui parlare un po’? – , mi indispettì, riportando a galla in meno di dieci secondi la mia solita scontrosità e ritrosia: come si permetteva di avvicinarsi così tanto a me se neanche ci conoscevamo?
Per un po’ quindi mi rifiutai caparbiamente di guardare nella sua direzione, così continuai a fissare, senza realmente vederli, i ragazzini che in pista ballavano l’ultima versione della Ma carena (ormai avevo perso il conto di quante ne avessero fatte!) , tacendo.
“Posso farti una domanda?” mi domandò ad un certo punto lui; io asserii ancora una volta, senza degnarlo ancora di un’occhiata.
“Quanti anni hai?”
Questa volta mi voltai e lo fissai freddamente. “Lo sai che non si chiedono gli anni ad una donna?”
Lui scoppiò a ridere e mise le mani avanti, come per difendersi. “Scusa, scusa, hai ragione. Te l’ho chiesto solo perché loro” indicò la massa dei ballerini “mi sembrano tutti dei ragazzini, mentre tu hai l’aria di essere più grande.”
Acuto, per essere un ragazzo.
“Giusta osservazione. Io ho ventiquattro anni. Sabrina mi ha costretto a venire, perché ci conosciamo da quando lei era ancora una bambina.”
“Quindi hai accettato l’invito più per farle un piacere che per altro.”
Annuii. Stavolta era il mio turno di chiedergli qualcosa, compresi al volo. “E tu? Anche tu mi sembri più grande di loro” e indicai anche io il gruppo.
“Giusta osservazione anche la tua. Sono un cugino di Sabrina e ho ventisette anni.”
I miei occhi divennero due fessure. “E come ti chiameresti?”
“Enea.”
Se possibile, il mio sguardo si fece ancora più torvo. “Mi stai prendendo in giro?”
“Perché dovrei usare un nome così palesemente idiota, scusa?”
“Alessia non ti ha mai nominato.” Commentai, decisa a non farmi fregare.
“La tua amica sarà parente da parte materna; io lo sono da parte di padre.”
Il ragionamento non faceva una grinza; eppure, non ero convinta, il mio sesto senso sempre all’erta. “Però non vi somigliate per niente.”
“Proprio non ti fidi?”
“No. Per quanto mi riguarda potresti anche essere un potenziale stupratore che si è imbucato per provarci con qualche ragazzina della festa!”
Il mio commento, tuttavia, invece di offenderlo, lo fece sorridere divertito: “Ah sì?” commentò infatti alzandosi e, non appena lo sguardo di Sabrina si spostò nella nostra direzione, alzò la mano in segno di saluto; Sabrina ricambiò felice. “Allora, mi credi?”
“Almeno mi hai dimostrato che non ti sei infiltrato di nascosto!”
“Grazie per la concessione!” Risi della sua espressione. “Bene!” sospirò, quasi avesse compiuto un’impresa eroicissima e fosse stanchissimo, accomodandosi “Adesso che ti ho dimostrato di non essere un pazzo maniaco, stupratore e scroccone, posso sapere il tuo nome?”
“Claudia.”
Forse furono i suoi occhi scuri e intelligenti, forse il modo in cui muoveva le mani quando parlava, come se avesse bisogno di mostrare le cose che raccontava, forse fu semplicemente il trovarmi accanto una persona allegra e simpatica, ma alla fine smisi di farmi le mie solite paranoie e mi ritrovai, stranamente, a chiacchierare piacevolmente con lui.
Si chiamava Enea, studiava lettere, era al secondo anno della specialistica e suonava la chitarra.
“Bello.” Commentai.
“Anche tu suoni uno strumento?”
“Se il citofono può essere inteso come tale…”
Lui rise, ancora. Aveva una bella risata, pensai, cristallina e fresca; quel genere di risata che non ti stancheresti mai di sentire e che ti farebbe scoppiare a ridere, anche se sei triste o depresso. Contagiosa.
“Non è difficile, sai? Se vuoi posso insegnarti!”
“A me? Guarda, il mio senso del ritmo è pari a zero. Non ti sei chiesto perché io non balli?”
“Perché hai le scarpe scomode?” domandò lanciando una rapida occhiata alle mie calzature con il tacco – scomodissime, tra l’altro, perché io odiavo quella roba, ma mia madre e Alessia mi avevano costretta a portarle perché ‘almeno per una sera potessi assomigliare a una donna vera’.
“Non nego che non siano la comodità in persona, ma no, non è solo per questo. Io e il senso del ritmo siamo due concetti molto diversi. Come il sole e la luna.”
“Però il sole e la luna si completano.” Ribatté.
Lo fissai interdetta.
“Intendo dire che la notte e il giorno si completano. Come il bianco e il nero, l’amore e l’odio… non esisterebbe l’uno senza l’altro.”
“Sei un filosofo?”
Abbozzò un inchino. “Solo un umile pasticcere.”
“Davvero? Io sono una frana in cucina, invece: qualsiasi pietanza nelle mie mani diventa carbon fossile” ammisi, pensando al modo in cui mia madre scuoteva la testa ogni volta che provavo a darmi da fare ai fornelli “E dove lavori?”
Ci pensò un attimo, probabilmente per cercare di spiegarmi nel modo più semplice possibile come avrei potuto capire il posto. “Hai presente il liceo scientifico?”
“Sì.”
“E la rotonda lì vicino?”
Annuii ancora una volta: c’ero passata molte volte tornando da scuola, ai tempi del liceo, e, quando avevo preso la patente, quella rotonda era stato un percorso praticamente obbligato durante le guide.
“Beh, sulla strada a destra, prima di immetterti nella rotonda, c’è una pasticceria. Non proprio ad angolo, ma quasi.”
Cercai di focalizzare bene il punto indicatomi e finalmente capii: sì, quel posto lo conoscevo.
“Lo conosco. Ma non sono mai entrata.” Ammisi “Mi hanno detto che fanno dei dolci buonissimi.”
Enea si accarezzò la testa imbarazzato. “Gra… grazie. I dolci in realtà li fa mio padre, ma da qualche tempo mi ha permesso di aiutarlo e non solo di servire al bancone.”
“Quindi stai seguendo le orme di tuo padre?”
“In realtà vorrei diventare un professore, ma ho sempre aiutato mio padre in pasticceria fin da piccolo. All’inizio lo facevo solo per rendermi utile, ma ultimamente mi sono accorto che mi piace.”
“Ti dedicherai alla pasticceria, allora?”
Si passò una mano tra i capelli scuri. “Non lo so. Non ho ancora deciso. Per adesso mi prendo anche la specialistica, poi si vedrà.”
Annuii. “Ti capisco. Anche io non so bene cosa ne sarà di me, ma prima di preoccuparmi voglio laurearmi. Sai, studio informatica.”
“Bello. Io invece sono una frana con il computer.”
Lo guardai, sorpresa. “Davvero? E’ strano sentir dire una cosa del genere da un ragazzo; di solito, è il contrario.”
“Non mi ci far pensare! I miei amici mi prendono già abbastanza in giro! Il fatto è che, tra studio e pasticceria, non ho molto tempo libero a disposizione. E quello che ho, invece, lo dedico alla musica. Tu invece? Sei una, com’è che si dice? nerd, oppure fai altro nella vita?”
“Pratico kick-boxing.”
Lo guardai di sottecchi per vedere che espressione avrebbe fatto una volta saputa la notizia. Di solito la gente restava a guardarmi come se fossi un mostro sceso sulla Terra da qualche strano pianeta, oppure si allontanava da me, come se io, in quel momento, sarei all’improvviso impazzita e avrei iniziato a pestarla così, senza un motivo. Anche Enea per un attimo mi guardò incerto, chiedendosi probabilmente se stessi scherzando; tuttavia non si mosse di un millimetro.
“Stai scherzando?”
“No. Perché dovrei?”
“Beh…” mi osservò a lungo “non l’avrei mai detto, sul serio. Pensavo che chi pratica questo sport avesse muscoli ben scolpiti e invece tu mi sembri…”
“… normale?”
“Sì.” Ammise.
Era una domanda che mi facevano in molti, a dire la verità. “Beh, tieni conto che, studiando informatica e stando sempre al computer, è l’unico modo che ho per muovermi un po’. Forse è questo il motivo per cui non divento una palla da biliardo, ma al contempo non ho muscoli ben definiti.”
“Mi metti in imbarazzo, sai? Pur essendo io l’uomo tra noi due, tu sei quella che pratica uno sport e sa usare il computer.”
“Beh, non è che ci vuole molto. Potrei darti io delle lezioni.”
Per giorni, mesi, mi sono poi chiesta da dove fosse uscita quella proposta proprio da me verso una persona mai vista prima di allora; tuttavia, non sono mai riuscita a trovare una risposta esauriente: magari era solo un modo per ricambiare quella che mi aveva fatto prima, mi ero risposta in quel momento.
“Solo se mi permetti di sdebitarmi insegnandoti a suonare la chitarra!”
Mossi la mano, a significare che non aveva importanza. “Te l’ho detto, è meglio che lasci perdere. Sono un caso disperato, io. Potresti però offrirmi qualche pasticcino, che ne dici?”
“Perché hai così poca fiducia?” si accigliò.
“Non è questione di fiducia; conosco semplicemente i miei limiti.” Ribattei piccata.
Mi resi conto di essere stata un po’ troppo acida, con quella mia risposta e per questo tacqui, colpevole. I balli di gruppo erano finiti e i The Righteous Brothers stavano ormai finendo di cantare Unchained Melody.
Enea non mi rispose, ma si alzò in piedi e mi si pose davanti, tendendomi la mano.
“Cosa c’è?” risi.
“Voglio dimostrarti che sbagli.”
“Guarda che non so ballare, te l’ho detto. Non so neanche cosa sia, il senso del ritmo.”
“Posso dimostrarti che non è vero?”
“Non ci riusciresti.”
“E invece sì. E poi ti insegnerò anche a suonare la chitarra.” Era una sfida.
“Ok.” Balzai in piedi. “Ma poi non lamentarti se ti pesterò i piedi, d’accordo?”
Lui sorrise e, con delicatezza, mi trascinò un po’ più al centro, in modo che ci trovassimo in pista, ma comunque in disparte rispetto agli altri.
“Innanzi tutto, rilassati. Sei più tesa di una corda di violino!” rise, poggiando le mani sui miei fianchi, avvicinandomi così a lui.
Sbuffai: la faceva davvero facile lui! Perché non avevo evitato di cacciarmi in quel casino da sola? Mi chiesi.
“Adesso circonda le mie spalle con le braccia. Ecco, così…” Il suo viso era a pochi centimetri dal mio e, per evitare che notasse il mio imbarazzo, scostai un po’ la testa e guardai verso gli altri ballerini.
“E adesso?”
“Adesso…” iniziò ad ondeggiare lentamente, sul posto. “Balla.”
Stavolta non potei non guardarlo, stupita.
“Come balla?”
“Ascolta la musica e muoviti!”
“La fai facile tu!”
“E’ facile. Basta che non ci pensi. Su, chiudi gli occhi e ascolta solo la musica e il mio movimento. Non pensare a nulla, tanto ci sono io qui che ti guido.”
“Ok…”
Iniziavo a sentirmi seriamente una stupida. Che stavo facendo? Ero abbracciata ad un tipo che avevo conosciuto neanche un’ora prima ed ero al centro di una pista da ballo, ad una festa a cui non avevo neanche voluto partecipare. Dovevo essere impazzita.
Eppure, quando chiusi gli occhi, mi resi conto che aveva ragione: il calore delle sue braccia che mi avvolgevano protettive, mi fece completamente dimenticare gli altri, la festa, il locale e le note di Careless Whisper iniziarono ad affluire lentamente in me; quasi senza rendermene conto, il mio corpo iniziò da solo ad ondeggiare, seguendo i movimenti di Enea che continuava a condurmi.
“Allora, cosa ti avevo detto? E’ facile, no?” mi sussurrò la sua voce all’orecchio e un brivido mi attraversò la schiena.
“Sì.” Ammisi, e lo sentii sorridere, compiaciuto.
I Wham avevano intanto lasciato il posto a Celine Dion. Ero ancora con gli occhi chiusi, decisa a lasciarmi guidare ancora dalla musica e dalle sue braccia, quasi temessi che, se solo li avessi aperti, quell’incanto sarebbe terminato. Perché quella era una magia, ne ero convinta: non ero io a muovere le mie gambe a ritmo di musica – avevo provato così tante volte, a casa mia, con le mie amiche e avevo sempre fatto la figura dell’idiota che va contro tempo! - ; era lui che aveva gettato qualche incantesimo su di me e mi aveva reso in grado di farlo. Era una constatazione sciocca, lo sapevo, ma in quel momento mi sentivo completa, leggera – felice! – come non lo ero da tanto.
Mi resi conto che i miei passi avevano acquistato una certa sicurezza e che ormai non ballavamo più fermi sul posto, ma ci muovevamo sulla pista; istintivamente aprii gli occhi, finalmente consapevole.
“Sei diventata brava.“ commentò, forse rendendosi conto del mio cambiamento.
“E’ stato solo merito tuo.” Minimizzai.
“Secondo me, ti serviva solo un po’ di fiducia in te stessa.”
Stavo per replicare, ma all’improvviso la musica cessò e il DJ intonò Happy Birthday to you! seguito da tutti gli altri e dallo scrosciare degli applausi: era appena arrivata la torta per la festeggiata.
Istintivamente ci separammo e ci voltammo per seguire il taglio della torta: Sabrina era a dir poco raggiante, nel suo lungo abito nero; gli orecchini brillavano alla luce delle candeline, mentre un lieve rossore le imporporava le guance. Sì, era a dir poco meravigliosa. Per un attimo, mi si strinse il cuore: come avevo potuto anche solo pensare di non partecipare alla sua festa? Vederla così felice e appagata, per me che l’avevo vista crescere, era una sensazione bellissima e solo allora compresi come dovesse sentirsi una madre in una situazione del genere: fiera e orgogliosa della propria bambina; proprio come lo ero io di lei.
“Sabrina è bellissima, stasera, non trovi?” chiesi ad Enea, quasi inconsciamente, tuttavia lui non mi rispose. Mi voltai nella sua direzione per domandargli il perché di quel silenzio, ma le parole mi morirono in gola: era completamente scomparso.

*

Tra me ed Enea, a conti fatti, non c’era stato niente. Non un bacio, non una carezza, niente; ragion per cui, non aveva assolutamente senso che io mi sentissi così maledettamente presa in giro quando mi accorsi che nella sala non c’era più e che, in definitiva, si era completamente volatilizzato.
La mia rabbia, però, si smorzò solo nel giro di alcuni giorni: era stata una conoscenza fatta ad una festa, né più né meno, mi ripetei più volte per minimizzare: non ci eravamo neanche scambiati il numero di telefono, io non gli avevo detto dove abitassi e quindi non c’era ragione per sperare di contattarlo; certo, potevo andare io a trovarlo e a chiedergli il perché di quella improvvisa scomparsa, ma, si sa, quando è periodo di esami, soprattutto quando uno di questi è a giorni, non si ha molta voglia di perder tempo. E poi, diciamocela tutta: ero troppo orgogliosa per andare a cercarlo. Per questo motivo, la questione passò in secondo, terzo e quarto piano.
A riportare i miei pensieri su quel ragazzo ci pensò Alessia, qualche giorno dopo. Dalla festa, non ci eravamo più viste, a causa dello studio, quindi avevamo deciso di prendere un caffè insieme e chiacchierare un po’, una volta dati i nostri esami.
Fu così che, tra una chiacchiera e l’altra, la conversazione scivolò tranquillamente su quella serata.
“Hai visto com’era raggiante Sabrina l’altra sera?” commentai io, ricordando appunto la sua espressione felice.
“E non solo lei, a quanto ho visto.” ribatté la mia amica, riducendo gli occhi a due fessure.
Non mi ci volle molto per comprendere a cosa si riferisse: la conoscevo da troppi anni ormai.
“Non è successo niente di quello che credi.” spiegai infatti.
“Sì, immagino. Però tu non solo hai parlato, ma addirittura ballato con lui. Cioè, per te una cosa del genere è come… non so, andare a letto con un ragazzo appena conosciuto per una ragazza normale!”
“Alessia!”
“E dai che hai capito! Allora chi è? Quanti anni ha? Cosa fa nella vita?” mi incalzò lei.
Sbuffai: “Si chiama Enea e mi ha detto di essere cugino di Sabrina da parte di padre, la sua famiglia ha una pasticceria e studia lettere. Contenta?”
Alessia non rispose, ma continuò a guardarmi fisso. “Come ha detto che si chiama?”
“Enea.”
“E cosa studierebbe?”
“E dai, Ale’, hai sentito bene! Ma perché quella faccia?” La sua espressione mostrava più preoccupazione che contentezza.
“Perché non ho mai sentito parlare di un Enea in famiglia.”
Silenzio. Il cuore aveva preso a battermi all’impazzata ed ero sicura di essere impallidita. “Cosa? Ne sei sicura?”
“Uno con un nome simile me lo ricorderei, no? Anche se non abbiamo un rapporto così stretto, almeno una volta i parenti dello zio li ho visti, e ti posso assicurare che quel tizio non fa parte della mia famiglia. Comunque, se vuoi, chiedo conferma a Sabrina…”
Ma io ormai non la stavo più ascoltando, perché la rabbia, cieca e sorda, aveva iniziato ad offuscarmi la vista.
Mi aveva presa in giro.
Mi aveva chiaramente presa in giro. E sicuramente si era pure divertito, nel farlo.
E potevo tollerare che mi avesse lasciata lì, come un’idiota, alla festa, ma quello no.

*

Nonostante Alessia avesse cercato di fermarmi scongiurandomi di lasciar perdere, che avrebbe prima indagato lei, che avrebbe scoperto la verità, ma che, per favore, per favore, per favore! non andassi da lui a massacrarlo, come avevo minacciato di fare tra un bastardo e un figlio di puttana e l’altro, il mio desiderio di ottenere spiegazioni sul suo comportamento e le sue bugie era – e rimase - troppo forte per lasciar perdere; perciò, visto che ci teneva tanto, accondiscesi e decisi che avrei aspettato la mattina dopo per fare qualsiasi cosa, sperando che la mia rabbia, nel frattempo, si placasse.
Peccato che quell’attesa servì solo ad alimentare il mio desiderio di vendetta.
Alessia aveva anche provato a contattarmi dopo tramite MSN per dirmi che dai, non fare così, deve esserci una spiegazione, quindi che ne dici di lasciar perdere questa storia?
“Col cazzo!” fu la mia risposta e chiusi la comunicazione prima che provasse a convincermi di nuovo; il fatto che poi non mi avesse telefonata, penso significhi che avesse compreso quanto fosse più utile iniziare a costruirmi un alibi, piuttosto che cercare di farmi cambiare idea.
Non riuscii a dormire per tutta la notte, mentre l’odio, la rabbia, il rancore, la vergogna di essere stata presa così allegramente per il culo da uno sconosciuto si facevano sempre più forti.
Dire che ero arrabbiata era poco; dire che ero furiosa era un pallido eufemismo; dire che l’avrei ucciso con le mie mani, anche.
“Dai, in fondo è una cosa che può capitare a tutti!” aveva ancora cercato di rabbonirmi Alessia, e anche il mio cervello, da qualche parte, continuava a ripetermelo. Eppure il mio orgoglio – e se c’era una cosa cui tenessi veramente era proprio quello – ricacciò indietro quella voce con violenza.
La mattina dopo, ovviamente pallida, con gli occhi rossi, sia per l’insonnia che per la rabbia (se fossi una scrittrice potrei usare l’espressione “iniettati di sangue” per descriverli nel miglior modo possibile), decisi che l’unica possibilità che avevo per risolvere quella situazione era partire dall’unico indizio veramente concreto che avevo: la pasticceria. Certo, anche quella poteva essere una balla, ma il mio istinto – e quel minimo di raziocinio che mi era rimasto – mi dicevano che poteva anche essere falso il fatto che fosse il figlio del proprietario, ma potevo almeno controllare se il padrone lo conoscesse, e se quindi almeno qualche elemento che mi aveva dato fosse reale. In caso contrario, sarei passata direttamente alla facoltà di lettere, dove avevo un’amica che lavorava part time in segreteria. Non mi sfiorò neanche lontanamente il pensiero che non avrei potuto più trovarlo: il paese in cui abitavo era quello, del resto, e prima o poi sarei riuscita a scoprire dove si nascondesse, a costo di cercarlo casa per casa.
Fortunatamente non ci fu bisogno di arrivare a tanto: quando entrai nel negozio, non appena posai lo sguardo sull’uomo al bancone, compresi che doveva essere per forza parente di quel ragazzo, visto che gli somigliava così tanto.
“Desidera?” mi domandò guardandomi in modo strano: curioso, era lo stesso sguardo che mi avevano riservato anche i passanti che avevo incrociato nel tragitto che avevo percorso e preferii non chiedermene il motivo.
“Buon giorno, stavo cercando E-“
Non ebbi neanche il tempo di formulare la mia domanda – avevo intenzione di chiedere direttamente notizie sul nome che mi aveva fornito alla festa; se fosse stato falso, gli avrei fatto fare una di quelle figuracce che si sarebbe ricordato fino alla fine dei suoi giorni – che “Papà, dove devo mettere questi vassoi?” chiese una voce.
Mi voltai immediatamente nella direzione del suono; la mia espressione doveva davvero far paura, perché lui, appena mi vide, impallidì di colpo e lasciò quello che aveva tra le mani sul bancone senza staccarmi gli occhi di dosso.
“Papà, ti spiace se mi allontano un attimo?”
“Ehi, come sarebbe! Mi avevi promesso che, se ti avessi permesso di fare quello che volevi quella sera, per un mese intero avresti lavorato tutto il giorno con me!”
Sbuffò contrariato. “Ed è quello che sto facendo, no? Mica sto scappando, devo solo parlare un attimo con questa ragazza. Non ci metterò molto. Restiamo qui sulla soglia, ok?”
L’uomo guardò prima suo figlio poi me senza decidersi; non so se fu perché non voleva mostrarsi scortese con una potenziale futura cliente oppure la mia espressione da se non vuoi che ti distrugga il locale, lasciaci parlare in pace. Adesso! Ma alla fine “D’accordo, ma sbrigati!” accondiscese con un sospiro.
Enea mi guidò fuori dal locale e chiuse la porta alle sue spalle; io incrociai le braccia e lo guardai fisso, in attesa: sapeva perfettamente cosa volessi da lui, quindi aspettai con calma che si decidesse a parlare.
“Credevo che saresti venuta prima, in effetti.”
“Non sei contento di aver avuto qualche altro giorno di vita in più?” domandai ironica. “E non credere che l’abbia fatto per compassione o che; semplicemente sono venuta a conoscenza della tua identità – o meglio, della tua non identità – solo ieri.”
“Allora un po’ simpatico devo starti, perché mi hai regalato ben un altro giorno di vita!”
Avrei voluto prenderlo a pugni per la sua sfacciataggine, ma mi trattenni solo perché avevo visto una mamma con un bambino avvicinarsi. Non è bello che i bambini vedano cose simili: hanno tutto il tempo per imparare, una volta cresciuti.
“Per la verità devi solo ringraziare Alessia: è lei che mi ha convinta ad aspettare sperando che la mia voglia del tuo sangue si calmasse; peccato che invece non sia servito a nulla. Tutt’altro.”
“E allora come mai sono ancora qui integro?” domandò con un sorriso. Da schiaffi, aggiungerei.
“Semplicemente perché voglio sapere il perché tu sia stato così masochista da avermi rivelato dove lavori dopo avermi detto una cazzata così grande, che sapevi avrei scoperto nel giro di pochi giorni. O pensavi che fossi così stupida da non parlarne con Sabrina o sua cugina?”
“Non-“
Ma io non lo lasciai proseguire. “Poi, se la tua risposta mi soddisferà, ti chiederò perché tu ti sia divertito a prendermi così palesemente per il culo, visto che neanche ci conosciamo e quindi non mi pare di averti mai fatto qualcosa in vita mia.”
“E se la mia risposta non ti soddisferà?” mi domandò.
“Rispondi alla mia domanda.” Lo incalzai fredda.
Enea – o come diavolo si chiamava – sospirò. “Prima rispondi tu alla mia domanda: se mi fossi presentato a te semplicemente come ‘Enea’ punto e basta avresti accettato di parlare e ballare con me?”
“Ovviamente no.”
“Ti chiedi ancora perché ti abbia mentito?”
Il ragionamento non faceva una grinza.
“E non ti è venuto in mente che ti avrei scoperto?”
“Certo che lo sapevo. Tutto mi sei sembrata, guarda, tranne che una sprovveduta. Volevo solo trovare una scusa per parlarti: eri così sulle tue, come se avessi eretto un muro tra te e gli altri… e l’unico modo per farti abbassare le difese era inventarmi quella parentela.”
“Quindi chi sei veramente?”
“Te l’ho detto: mi chiamo Enea e sono il figlio del proprietario di questa pasticceria. Mio padre è amico del padre della festeggiata e quindi si è occupato lui del catering. Io l’ho aiutato, ed è per questo che ha ricambiato il saluto. In realtà ci conosciamo solo di vista, non credo neanche sappia il mio nome.” si passò una mano tra i capelli “Quella sera, eri l’unica che non ballava, che se ne stava lì, come se fosse incazzata con il mondo: chissà che cos’ha e perché non balla, mi sono chiesto. Forse si sente a disagio perché sono tutti ragazzini. Così ho fatto un accordo con mio padre: quella sera mi lasciava libero di unirmi alla festa e in cambio io per un mese sarei stato tutto il giorno in negozio con lui.”
L’avevo ascoltato in silenzio, soppesando ogni sua parola: “Sei sempre così scontrosa con tutti, è normale che non ti trovi un fidanzato!” mi aveva più volte apostrofata mia madre, tra le altre cose, ma io le avevo replicato che il fidanzato, io, non lo volevo e che, per uno stupido uomo, io non avrei mai cambiato il mio modo di essere. Che si fosse adeguato lui!
Ed era quello che Enea aveva fatto: si era inventato una stupida storia pur di potersi avvicinare a me e potermi conoscere, nonostante sapesse di correre un bel rischio. Non solo: aveva smesso di mentire e mi aveva raccontato dove lavorava, i suoi hobby, i suoi studi, ben sapendo che così avrei potuto benissimo rintracciarlo e fargliela pagare cara per il suo comportamento.
Ci teneva così tanto a conoscermi?
“Perché ci tenevi così tanto a conoscermi?” gli chiesi cercando di rimanere il più neutrale possibile a quelle rivelazioni: ero una ragazza, del resto, e per quanto odiassi ammetterlo, sentire che una persona aveva rischiato tanto pur di parlare con me, non poteva che farmi piacere.
Lui rise. “In realtà, io ti conosco già.”
Lo guardai sorpresa. “Come?”
“Sì. Tu andavi allo scientifico, vero? Ti ho visto un sacco di volte andare e tornare da scuola. Ti ricordi quella volta che per poco non picchiasti un ragazzino perché aveva rubato un cappello alla tua amica?”
Spalancai gli occhi dalla sorpresa: doveva essere successo in quarta liceo, credo. Io e Alessia stavamo tornando da scuola come al solito, quando ‘sto cretino, correndo, aveva letteralmente strappato dalla testa della mia amica il suo cappello della Nike.
“Figlio di puttana!” avevo urlato correndogli dietro come un fulmine e raggiungendolo dopo poche falcate; il tizio si era spaventato così tanto che aveva mollato il berretto giurandomi che non ci avrebbe riprovato mai più, ma che, per favore, non lo picchiassi.
“Successe tutto proprio qui di fronte. Vidi tutta la scena, sai? Per giorni non feci che ridere, ripensandoci, e da allora feci caso a te. Pur essendo un ragazzo, non credo che al tuo posto avrei fatto la stessa cosa. Ti invidiavo. Pensavo che non ti avrei più rivista, una volta finita la scuola, e invece l’altra sera ebbi questa grande fortuna.”
La mia rabbia scomparve nel giro di due nanosecondi, tanto ero sconvolta: “Tu mi stai dicendo che ti sei avvicinato a me nonostante mi conoscessi già?”
Enea scoppiò a ridere. “Beh? Sei così aggressiva solo quando si tratta di ladruncoli e poi hai così poca fiducia nelle tue doti femminili?”
Lo fulminai con lo sguardo. “E’ un dato oggettivo, questo, non una questione di fiducia. Io e la femminilità siamo agli antipodi.”
“Come il sole e la luna.”
“Come il sole e la luna.”
“E se ti dimostrassi che ti sbagli?”
“Questa domanda non mi suona affatto nuova… E come vorresti dimostrarmelo stavolta?”
“Vediamo… potrei provare chiedendoti se ti va di uscire con me, una volta che il mese sarà finito. Per insegnarti a suonare la chitarra, ricordi?”
“E in cambio cosa vorresti, questa volta?”
“Magari potresti insegnarmi un po’ di kick-boxing, tra una lezione di informatica e l’altra. Che ne dici?”
“Dico che si potrebbe anche fare, se…”
“Se?”
“Se adesso mi offrissi qualche pasticcino. Per farti perdonare di avermi preso in giro l’altra sera. Che ne dici?”
Lui non replicò, ma si limitò ad aprirmi molto cavallerescamente la porta del locale.
“Li preferisce alla marmellata o al cioccolato, mademoiselle?”


Fine


Note dell’autrice.
Storia scritta per la Criticombola di Criticoni, prompt # 60 “Dieci giorni fa”.
Che dire? Che come al solito questa storia non doveva svolgersi in questo modo, ma, come sempre, i personaggi mi sono sfuggiti di mano e così è nato tutto questo.
All’inizio la vicenda era stata pensata come un parallelo dell’altra mia originale A simple summer story a cui, in effetti, un po’ assomiglia. Questo perché, la mattina in cui ricordai il sogno che poi ha dato vita a quella storia, per un attimo, mi ero convinta che i due fossero ad una festa; solo dopo ricordai che no, non c’era nessuna festa in corso, mentre loro erano sul terrazzo. XD Perciò alla fine mi sono chiesta cosa sarebbe potuto accadere se, partendo da una base comune – una ragazza costretta ad andare in un luogo in cui non voleva recarsi che incontra un ragazzo – avessi sviluppato delle trame e dei personaggi completamente diversi.
In realtà Claudia doveva essere molto più buona e dolce di Serena, ma alla fine è diventata peggio di lei. °_° Anzi, a dirla tutta, credo che lei sia il personaggio che più mi somiglia, tra quelle che ho creato finora – a parte per il kick-boxing. Anche la scena del furto del cappello è accaduta veramente, quando ero alle medie, solo che quella volta fu la stessa proprietaria del cappello a rincorrere il ladruncolo, senza riuscire a beccarlo, però.
Probabilmente non vi interesserà, ma volevo farvi sapere che in realtà questa storia era scritta nella mia testa da almeno tre mesi XD la parola fine la misi andando in stazione, il giorno in cui diedi il mio ultimo esame del primo anno della specialistica, solo che poi non ho avuto né tempo, né tanto meno voglia di metterla per iscritto. Ci hanno pensato la Criticombola e Solarial, a darmi l’input giusto.
Cara Sol, questa storia è tutta per te: so che il tuo compleanno non è oggi, ma spero mi perdonerai per aver anticipato di qualche giorno: postarla al mio ritorno non sarebbe stata la stessa cosa! Lo so che Claudia non ti somiglia per niente, ma io sono sicura che da qualche parte c’è un Enea che ti accetterà per quella che sei, perciò smettila di buttarti sempre giù e abbi fiducia in te stessa! è_è
Naco
   
 
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