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Autore: Selene Silver    29/12/2009    3 recensioni
Così, nell’arco di mezzo secolo, l’ultima depositaria del sapere morì, ma la sua conoscenza non andò perduta. La sua anima entrò nel tronco del salice, e da lì Colei che Sapeva aspettò. Aspettò che arrivasse la domanda che l’avrebbe risvegliata ed infine resa libera. Perché finché il Sapere non sarebbe stato tramandato, l’anima di colei che lo conteneva non sarebbe potuta morire.
E così il salice aspettò.
Prima ff originale sensata, commentino, please!
Genere: Malinconico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salix - Le Donne del Sapere.

 

Ci fu un tempo in cui le donne si tramandavano un sapere millenario senza averne paura né doverlo nascondere.

Un tempo in cui forze ignote all’uomo potevano camminare sulla Terra senza essere temute, ma solo rispettate.

Un tempo in cui tutti gli esseri umani conoscevano i veri nomi di piante ed animali, e li trattavano con rispetto fraterno, e non c’erano guerre, ma solo pace.

Un tempo in cui a governare era la Natura.

Al fine di questo tempo ormai troppo lontano per essere ricordato dagli esseri umani che ora calcano la Terra, una delle donne che ancora conosceva il Sapere delle sue ave, piantò nel terreno un seme argenteo.

La donna aveva in braccio un piccolo fagotto che si contorceva, da cui sbucava il faccino scontento di una bambina ancora in fasce.

Colei che conteneva il Sapere, piantò quel seme di salice per sua figlia, che un giorno sarebbe cresciuta, diventata donna, vecchia, ed infine sarebbe andata a morire sotto quelle fronde.

E il salice crebbe insieme alla bambina. Ogni tre anni Colei che Sapeva, e Colei che Avrebbe Saputo andavano a innaffiare l’albero con le loro lacrime, e a concimare il terreno dove Esso cresceva con ciocche dei loro capelli.

La bambina divenne ragazza, mentre la madre diventava vecchia.

Un giorno arrivò solo la ragazza, che ormai era donna e si approssimava a diventare madre, e ormai era Colei che Sapeva, perché Colei che Aveva Saputo era morta.

E invecchiò, quella donna che non sarebbe mai diventata madre, e versò lacrime sul tronco del salice, pregandolo di renderla feconda anche se non lo era.

Ma Esso non poteva compiere quella magia, e Colei che Sapeva non poté tramandare il Sapere.

Così, nell’arco di mezzo secolo, l’ultima depositaria del sapere morì, ma la sua conoscenza non andò perduta. La sua anima entrò nel tronco del salice, e da lì Colei che Sapeva aspettò.

Aspettò che arrivasse la domanda che l’avrebbe risvegliata ed infine resa libera.

Perché finché il Sapere non sarebbe stato tramandato, l’anima di colei che lo conteneva non sarebbe potuta morire.

E così il salice aspettò.

Si avvicendarono i secoli.

Venne un giorno in cui uomini accerchiarono il salice; nell’arco di dieci anni venne costruita una reggia, ed il muro del giardino sfiorava i rami di quell’albero piangente.

Il salice avrebbe voluto innalzarsi nel cielo, ma quel muro glielo impediva. L’unica soluzione, capì il vecchio albero, era aspettare, e lui aspettò.

Nacque una principessa, che crebbe sotto le sue fronde come aveva fatto Colei che Sapeva.

Il salice fu spettatore dei suoi capricci, della sua rabbia, del suo amore.

Custodì gelosamente i suoi segreti, e la protesse da sguardi indiscreti quando amoreggiò con il giovane stalliere, quando con lui perse la verginità a quindici anni.

Guardò impotente lo stalliere venire impiccato per aver impunemente corteggiato la principessa, fece del proprio meglio per consolare la ragazza quando quella notte, in segreto, andò a piangere per il suo amato morto sotto le fronde del suo caro albero.

La vide dimenticare quel suo primo amore, prendere parte della società, la vide sposare un nobile.

Ebbe figlie e figli, la principessa, e poi nipotine, ma nessuna di loro pose al salice la domanda.

Una notte di molti anni dopo, quando il regno del discendente della principessa, che era morta tre anni prima, era ormai divenuto debole, una pioggia di frecce infuocate solcò il cielo ed uccise l’uomo di guardia e gli arcieri.

Il salice vide il regno cadere, vide il fuoco mangiare quel giardino che un tempo era stato rigoglioso, ma le fiamme non toccarono l’antico albero, riconoscendone il potere.

Barbari s’insediarono al trono, e tentarono di tagliare il salice per farne legna da ardere.

Un’improvvisa sonnolenza li colpì mentre alzavano le asce, l’albero li vide andarsene ciondolando per il sonno, due giorni dopo essi comprarono un tappeto che non conteneva solo tessuti preziosi, ma anche il germe della peste.

I barbari morirono, e il regno della principessa, che un tempo era stato ricco e temuto, venne dimenticato.

L’edera attecchì alle pietre. Il muro del giardino cedette sotto il peso dei secoli che si erano avvicendati.

Attorno al salice rimasero solo ruderi e erbacce, mentre si riformava la foresta che un tempo lo aveva circondato, e che gli uomini avevano distrutto per costruire il castello.

L’albero aspettò, guardando pellegrini e viaggiatori passare davanti al suo tronco, ma ancora nessuno pose la domanda.

Ma il salice avrebbe aspettato. Se necessario, avrebbe atteso fino alla fine dei tempi.

Viandanti e sconosciuti si addormentarono all’ombra delle sue fronde.

Alcuni erano vecchi e malati, oppure feriti, altri semplicemente stanchi o pigri in cerca di una sosta e bisognosi di un attimo per riposare i piedi.

Il salice curò come poté i malati ed i feriti, formò tappetini di muschio sotto i corpi degli stanchi e dei dormienti, accolse nella sua terra coloro che avrebbero dormito per sempre, sondando le loro anime alla ricerca della più piccola traccia del Sapere.

Unì alle proprie le conoscenze di coloro che aveva seppellito fra le proprie radici, e con quei flebili sussurri morti a fargli compagnia, ancora attese che venisse Colei che Avrebbe Saputo.

La foresta venne nuovamente abbattuta intorno a lui.

Si formarono villaggi sempre più progrediti, finché non furono più borghi, bensì città, ed infine metropoli.

Il salice resisté, in un parco pubblico pieno di spazzatura, attese con ansia crescente che arrivasse una nuova portatrice del Sapere, e con il passare degli anni si accorse che il suo potere iniziava ad indebolirsi.

Attese e attese, ormai stanco e vecchio, ma ancora bello e lucente di quel bagliore magico che lo contraddistingueva, ma si accorse che nessuno faceva più caso alle cose come quella.

Aspettò, rassegnato, certo che il Sapere sarebbe stato perso con l’avvicinarsi del nuovo secolo.

Finché un giorno, sotto le fronde dell’albero, non arrivò una bambina.

Poteva avere cinque anni, indossava una salopette di jeans con sotto una maglietta a strisce dei colori dell’arcobaleno. I capelli, lunghi fino alle spalle ed aranciati, erano legati in due codini che svolazzavano allegri, ed i grandi occhi verdi splendevano di una luce che il salice non vedeva da secoli.

Quella era la luce che attendeva, pensò con un impeto di gioia nel suo petto legnoso e nella sua anima umana.

La bambina osservò a lungo l’albero, come se tentasse di capire dove fosse il trucco.

In una mano paffutella teneva un asciugamano di spugna viola trapuntato di stelline dorate, e ne succhiava avidamente un angolo come se fosse stato intinto nel miele.

Infine, aprì la bocca scoprendo una dentatura piccola, candida e perfetta, cui però mancava un molare, e chiese, con voce acuta: << E tu chi sei? >>

Il salice sentì la propria anima distendersi sotto quella voce, ed al tocco di quella manina che leggermente si tendeva, e toccava il tronco, delicatamente.

E rispose il salice, rispose con parole che solo una bambina simile poteva capire, e questa piccolina, che un giorno Avrebbe Saputo sorrideva e succhiava la sua salvietta, ascoltando parole senza suono che però sapevano di musica.

Finché non arrivò una donna con gli stessi capelli della bambina, e chiamò: << Vieni, Beatrice! >>

La bambina toccò per l’ultima volta il tronco di quello che ormai era il suo albero, trotterellò verso la madre e lasciò che quella la prendesse in braccio.

Rimase col volto girato verso il salice, mentre la mamma la conduceva via, ed una lieve folata di vento sollevò un sottile ramo dell’albero finché non le sfiorò la guancia in una carezza.

Ritorna”, mormorò il salice, con voce di vento.

<< Ritornerò >>promise la bambina.

E Beatrice tornò nell’arco degli anni, imparò e seppe.

Intrecciando i rami del salice ascoltò storie, preghiere, canzoni, lezioni, imparò versi a memoria, gesti magici, incurante degli sguardi degli altri, delle parole della madre, preoccupata perché trascorreva troppo tempo in quel parco anche se ormai era grande.

Apprese tutte le conoscenze che il salice aveva accumulato, non solo il Sapere, ma anche le consapevolezze di tutte le persone che ai suoi piedi erano morte.

L’ultima lezione, il salice fece cadere tre dei suoi rami, e disse con la sua voce udibile solo a Colei che Stava Apprendendo: “Intreccia questi rami in una corona e poi, quando arriverai a casa, lasciala seccare in un luogo che tua madre non possa trovare”.

La bambina iniziò ad intrecciare, e ripeté i versi di quell’ultima invocazione che il salice le stava insegnando.

Infine, giurò che avrebbe preservato il Sapere e l’avrebbe tramandato alle sue figlie, quando ne avrebbe avute.

La corona era stata intrecciata, e l’ultima parola del giuramento pronunciata.

Beatrice chiuse gli occhi e le sembrò di vedere il viso incartapecorito di una vecchia, che le sorrideva stanca.

Sentì sulla fronte la carezza di un bacio di vento e di foglia, e quando aprì gli occhi il suo vecchio albero era ricoperto di muffa e funghi.

Rimaneva solo un piccolo pezzo di corteccia ancora intatto, e la ragazza capì cosa dovesse fare: allungò la mano e staccò l’ultimo brandello di pelle del suo albero, se lo lasciò scivolare in tasca.

Sotto il pezzo di corteccia si aprì un buco; c’infilò dentro la mano e la ritrasse con in mano un sassolino piatto e grigio, non più largo del tappo di una bottiglia di plastica, con al centro disegnata una spirale.

Negli occhi di Beatrice affiorarono le lacrime.

Prese la corona di rami che aveva intrecciato, mise il sasso in tasca insieme al pezzetto di corteccia. Posò un bacio sulla punta delle dita e lo soffiò verso il suo albero che lentamente moriva come sarebbe dovuto morire millenni prima.

Si voltò e se ne andò, senza guardarsi più indietro. Senza tornare più in quel parco che era ormai morto.

E Beatrice divenne donna.

Crebbe, si laureò, senza mai scordare gli insegnamenti del salice.

A trent’anni ebbe una figlia che chiamò Francesca, e quando ebbe cinque anni la iniziò al Sapere.

Le generazioni si susseguirono, lente ed implacabili.

Francesca ebbe una figlia e la iniziò, e così continuò, e continua tutt’ora.

Tutto continua a scorrere in un cerchio infinito che non deve essere spezzato. Il sassolino, il pezzo di corteccia e la corona dei rami del salice continuano a passare di madre in figlia, una generazione dopo l’altra, in un’eredità millenaria come l’albero che aveva portato il sapere.

Verrà un giorno in cui una madre pianterà di nuovo il seme di un albero per la figlia, prevedendo che questa non riuscirà ad avere una discendenza di sangue, e quindi non tramanderà il Sapere, ma quel momento è ancora lontano.

La terra continua a girare, la terra a dare frutti, le madri a partorire figlie, e Coloro che Sanno insegneranno a nuove bambine l’arte della magia, per tutti i millenni in cui ancora ce ne sarà bisogno.

Perché la magia continua ad esistere. È dentro di noi, nascosta, ma c’è. Sotto forme diverse, con un altro nome, ma il Sapere continua ad esistere.


Prima shot seria! Che faticaccia i codici HTML, però.
Non so come commentare, a parte dicendo che mi piace questa cosa che ho scritto e che spero piaccia anche a voi.
Grazie per aver letto da Selene
  
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