~ Prologo.
E'
oramai una consuetudine affermare che le conoscenze via internet non
possano
costituire autentiche amicizie, eppure, noi non la pensiamo
così. Parlo di noi
non tanto perchè sono così boriosa da appiopparmi
anche un plurale maiestatis,
ma perchè sottintendo il pensiero di tutte coloro che hanno
dato vita a questa
storia, e che ne ispirano i personaggi. Si,
Buona
lettura, dears.
~ Il diavolo veste prada.
« Tutti vogliono
essere noi »
Michelle’s
POV
Distolsi
lo sguardo dal finestrino, per posare le mie iridi nere sul ragazzo che
stava
dormendo, stravaccato sulla poltroncina del mio aereo personale,
russando
sonoramente, la testa inclinata verso destra, una mano a sorreggerla.
Mi
soffermai solo per un attimo ad osservare la perfezione di quel gran
pezzo di
ragazzo che mi ero trovata in Francia, precisamente a Parigi, dove ero
stata
per due mesi.
Ero
partita poco dopo l’inizio delle vacanze, dopo il primo anno
di università, a
Yale, per
Ok,
il nome faceva decisamente schifo, ma non rendeva la bellezza di quella
specie
di Dio Greco che mi trovavo davanti in questo momento. Aveva dei
capelli
biondi, la carnagione chiara, gli occhi di un azzurro che raramente
avevo
incontrato nel mio, seppur breve, arco di vita. Jean – feci
una piccola smorfia
nel pensare quel nome – aveva le mascelle squadrate. I
capelli erano
disordinati quanto bastava, un piccolo accenno di barba, addominali
scolpiti,
spalle larghe. Il mio paradiso personale, uno dei tanti, Jean aveva
solo la
fortuna di essere l’ultimo, che avevo avuto
l’istinto di descrivere in quel
modo. Certo, quanto a sesso il signore ci sapeva fare, e non poco. E io
non
avevo voglia di restarmene lì a fissarlo, soprattutto quando
avevamo a
disposizione un intero aereo tutto per noi.
Mi avvicinai, alzandomi la gonna, facendo sì
che le mie cosce venissero
scoperte, e così anche gli autoreggenti neri che indossavo.
Mi avvicinai,
sedendomi sulle gambe di Jans, allargandole.
«Mmh…»
sussurrai accanto al suo orecchio, cominciando a stuzzicarlo,
mordicchiandogli
un lobo. «Non avrai mica davvero
intenzione di dormire?» continuai, con tutto
l’intento di svegliarlo. Mi allontanai
un poco, facendo scendere la mano destra lungo la sua felpa, per poi
risalire
all’interno di essa, sfiorando con l’indice i suoi
addominali scolpiti. Lo
osservai in viso, avvicinandomi quel tanto che bastava per dargli un
bacio,
casto, sulle labbra, che ebbe il potere di svegliarlo quanto una
secchiata di
acqua gelida. «Finalmente» mormorai infine portando
la mano sinistra ad
intrecciarsi tra i suoi capelli, avvicinando il suo corpo al mio,
necessitando
del contatto fisico, stringendo le gambe intorno alle sue. Lo baciai
con
passione, e lui rispose con altrettanto vigore. La sua mano scese ad
accarezzarmi i fianchi, per scendere fino alla cosce, addentrandosi in
mezzo ad
esse. La mia mano destra, esperta, scese fino all’attaccatura
dei pantaloni,
slacciando quel bottone che mi separava dalla sua eccitazione. Allentai
la
cintura, poi aprii la zip.
Quando
sentii il suo membro entrare in me, strinsi le mani contro la sua
schiena,
quasi graffiando la sua pelle, e inspirai profondamente, lasciandomi
andare al
piacere.
Arrivammo
a New York con un leggero ritardo. Mi aggiustai la camicetta bianca e
la gonna
nera, lucida, con il gilet dello stesso tessuto. L’estate
volgeva al termine,
ma il caldo afoso della Grande Mela mi travolse, a contrasto con
l’aria condizionale
dell’aereo. Sospirai, sventolandomi il ventaglio
all’altezza del viso. Avevo
appena sceso le scalette, e mi guardai intorno, fino ad individuare una
limousine nera, lucida, a pochi passi da me. Jack, il mio autista
personale, mi
aspettava con un sorriso stampato in faccia. Gli feci un cenno di
attesa, poi
mi volsi verso Jean, che si aggiustava la camicia con un sorriso
soddisfatto.
«Bhè..
Grazie per la splendida giornata!» esclamai con un sorriso
seducente,
avvicinandomi per regalargli un ultimo, passionale bacio.
«Grazie
a te del passaggio, bellezza» mi rispose posandomi una ciocca
di capelli che mi
ricadevano sulle spalle in boccoli leggeri, dietro
l’orecchio, per poi
allontanarsi, dirigendosi verso un taxi.
Mi
allontanai a mia volta, dirigendomi verso la limousine.
«Signorina
Edwards, prego. Spero che la notizia del ritorno di suo padre sia di
suo
gradimento» sbuffai, facendo una smorfia che non mi
preoccupai di nascondere.
Mio padre, non avevo minimamente voglia di vederlo. Mi avrebbe chiesto
come
sarebbe andata con mia madre, ed io non sapevo cos inventarmi, visto
che, in
due mesi a Parigi, l’avevo vista sì e no due volte.
«Parti
e stai zitto.» replicai con voce fredda, alzando il tettino
che mi separava
dall’autista, per bearmi della tranquillità dei
vetri oscurati, dello champagne
che si trovava nel frigo-bar davanti a me. Mangiai delle tortine, prima
di
arrivare a casa. Avrei dovuto evitare mio padre soltanto per un giorno,
poi
sarei ripartita per la mia adorata Yale.
Farlo
fu più facile del previsto. Mio padre viveva per me. Mi
aveva viziata fino alla
nausea, con la sua ricchezza, ed ora ne pagava le conseguenze. Mi
chiusi in un
silenzio assoluto fino all’ora di salire in camera, e mi
chiusi la porta a
chiave, incurante delle minacce che, dietro il muro di legno, mi urlava
con
voce rotta dal pianto. Sperava anche che mi commovessi con le sue
lamentele?!
Mi addormentai pochi minuti dopo, esausta, sperando che ci fosse un
Jean
qualunque, accanto a me, con il quale sfogare la rabbia, e magari anche
qualcos’altro.
***
Yale
era il sogno di una vita. Per una ragazza come me che voleva diventare
una
scrittrice di successo, nessuna università poteva pareggiare
i conti con Yale.
Ero troppo poco… ligia alle regole per riuscire ad entrare
alla Harvard, e avevo
reclinato con questa università. Non che non mi piacesse,
eh. Innanzitutto, il
clima caldo del New Haven, Connecticut, era il clima che faceva
esattamente per
me. Inverni caldi, estati torride. Ecco perché avevo deciso
che l’estate
prossima sarei rimasta lì, anche se mia madre mi avesse
pregato in ginocchio di
tornare a Parigi. Figuriamoci, poi, se mi facevo pregare da lei, che
non vedevo dall’età
di circa cinque anni. Inoltre, a Yale avevo subito trovato il mio
posto.
Durante il primo anno di università – stavo per
cominciare il secondo – ero
diventata popolare. Ero considerata una delle più belle
ragazze di Yale – se
non la più bella -, la più sensuale e anche la
più… facile. Ma non mi interessava. Non
badavo assolutamente a quello
che gli altri pensavano di me. Solo io sapevo realmente
com’ero, come mi ponevo
con gli altri, perché mi ponevo in quel modo. Solo io, e
poche altre. E questo
mi porta al mio amato, amatissimo FBY.
FBY.
Fuck Boys Yeah!
Lo
so, il nome sembrerà inappropriato, femminista. Era nato
quando, l’anno scorso,
avevo avuto la mia prima vero delusione d’amore. Ci ero
rimasta malissimo, ero
rimasta una straccio per settimane e settimane. Ero diventata cattiva,
più
cattiva del solito. Ma le mie amiche mi erano rimaste vicino. Mi ero
aggrappata
a questo nome, avevo ideato il club, che, con il passare del tempo, era
diventato uno stile di vita. Non ci importava che ormai nessuna di noi
badava
più al significato della sigla, non importava che ormai il
club non fosse più
un fatto ufficiale, come lo era stato durante il primo anno a Yale.
Avevamo le
nostre personali serate film.
Quanto
tempo avevamo pensato di poter davvero fare delle serate film con le
mie
amiche, senza mai riuscirci. No, non le avevo conosciute al college. Il
nostro
legame era cominciato molto, molto tempo prima.
Avevamo
circa quindici anni. Abitavamo in parti diverse dall’America.
Io
abitavo a New York.
Juliet a
Eppure, quattro schermi ci univano.
Quattro
schermi diversi, schermi di computer. Parlando per me, ero
un’asociale di prima
categoria. Ritenevo assolutamente inutile parlare e parlare con delle
ragazze
attraverso uno schermo. E all’inizio mi divertito a prenderle
in giro. Ma con
il passare del tempo, mese dopo mese, anno dopo anno, mi ero accorta
che ogni
giorno, tornata a casa, accendevo il computer, e rimanevo lì
per ore, solo per
parlare con una delle tre. Se c’eravamo tutte e quattro, come
spesso capitava,
era anche meglio. Mi ricordo le chattate con i progetti sul futuro, i
nostri sogni,
le nostre paure. Sono state le prime amiche vere che ho avuto, io che
non avrei
mai creduto di poter avere un’amica.
Quel
giorno che non dimenticherò mai era il primo settembre
dell’anno precedente.
Ero in fibrillazione. Il mio primo giorno a Yale! Ovviamente, avevo
già
visitato l’università, gli alloggi. Ma non sapevo
con chi sarei capitata in
camera, e tanto bastava per rassicurarmi. Sarei sicuramente diventata
la leader
di quel gruppo di svitate, e anche la leader di tutta Yale. Ero nata,
per esserlo.
Quando
andai nella camera che avevo scelto, mi trovai davanti altre due
ragazze. Non
sapevo chi fossero. Una era castana, vestita malamente, con una mano
fasciata,
probabilmente reduce di qualche caduta. L’altra era mora,
occhi cerulei,
abbastanza carina. Capii che il vero ostacolo da abbattere era la mora
dagli
occhi cerulei.
«Ciao!
Io sono Juliet Lucky!» appena la ragazza mal vestita si
presentò, aprii la
bocca varie volte. Dovevo sembrare come minimo idiota, quindi mi
affrettai a
richiuderla. Non era possibile che fosse lei, potevano esserci migliaia
di
Juliet Lucky. Ma, siccome non riuscivo a mentire bene soprattutto a me
stessa,
non in quella situazione, mi presentai a mia volta. Non feci in tempo a
finire
la frase, che Juliet mi saltò in braccio, troppo contenta
per contenersi.
«Sei
tu! Sei tu! Lo sapevo che ci saremmo incontrate a Yale, un
giorno!» e allora
capii che la ragazza che avevo davanti era proprio quella ragazza con
la quale,
per due anni, avevo parlato attraverso il computer, e l’altra
che le era
accanto – solo adesso la riconoscevo da una vecchia foto
– era proprio Sharon
Peterson. Abbracciai anche lei, sincera, per poi staccarmi, e guardarmi
intorno.
«Alice?»
domandi con apprensione.
«Arriverà
qui il prossimo anno!»
Avevamo
urlato tutte e tre in contemporanea, poi ci eravamo gettati sui letti
che
volevamo prendere. Io, il rosa. Ju l’azzurro e Shar, che
doveva andare in una
camera separata dalla nostra, il rosso. Ad Alice, che speravamo sarebbe
stata
in camera con Sharon, avevamo lasciato quello verde.
In
quel momento, osservando l’alta torre di Yale, la biblioteca
più grande del
Connecticut, gli alloggi degli studenti e il grande, grandissimo parco,
andai
di nuovo in fibrillazione: quell’anno ci sarebbe stato anche
Alice e quell’anno
avrebbe portato numerose novità, sognai, intanto che
salutavo coloro che,
adulanti, cercavano il mio sguardo – o il mio fondoschiena
– e di cui
palesemente ignoravo le identità.