Tra
Erica e Peonie
Come
al solito fu un incubo, e come in ogni incubo che si rispetti pioveva talmente
tanto che i contorni delle cose erano confusi, sfocati. Naturalmente, questo
non era per niente rilevante agli occhi di sua madre, che si riparava sotto un
ombrellino di pizzo con tale grazia da ricordare un balletto classico. Rosnake
si copriva la testa con la Gazzetta del Profeta, sussultando ogni volta che un
rivolo d’inchiostro sciolto le si infilava nel colletto. Sperò almeno che a
bagnarle il reggiseno fosse un articolo di politica estera e non la pagina
degli annunci.
“Il mio cuore è nelle Highlands!”
dichiarò drammaticamente Rodolphus, scostandosi dal viso i riccioli bagnati. “Il
mio cuore non è qui. Il mio cuore è nelle Highlands, a inseguire il cervo…”
Mano sul cuore, occhi scintillanti. Come naturale, sua madre se la bevve tutta.
“Che Merlino mi fulmini!” miagolò
“Mio figlio è diventato un poeta!”
-Che Merlino mi fulmini!- pensò
Rosnake, senza stupore. -Mio fratello è diventato un idiota!-
“Possiamo andare” decretò a quel
punto Rabastan e, lottando contro la voglia di scoppiare a ridere e contro la
sorella maggiore, che aveva optato per la resistenza passiva, scaraventò il
proprio gufo e la stessa Rosnake nella carrozza.
Un morso. Morsichino piccolo,
piccolo al polso, che soddisfazione enorme… così avrebbe capito che era sempre
e comunque il più giovane…
“Animale! Mi hai morso!” Rosnake
sfuggì alla presa di Rabastan buttandosi sotto il sedile imbottito. Rodolphus
si sedette a cassetta e la Reverendissima Madre, composta come una regina in
trono, occupò il proprio posto ordinando a Jean-Jacques, per l’occasione
riciclato cocchiere, di partire. Erano in marcia, rivolti verso la tenuta. Il
nome della tenuta era Scarburough Fields, e il termine “tenuta”, pomposamente usato
dai genitori dei ragazzi, stava ad indicare un vasto appezzamento di terreno
con al centro un imponente castello, che molti secoli prima era stato la
residenza del signore del clan La Sange, uno dei più influenti nella Scozia
medievale magica. Negli anni, quel cognome era stato storpiato fino a diventare
Lestrange, altrettanto esotico e altrettanto influente nella buona società di
Londra. I tre fratelli erano i più giovani discendenti diretti del signore La
Sange, il che significava che, alla morte del padre, la tenuta sarebbe stata
legalmente proprietà di Rodolphus, il più vecchio di loro. E, pensò Ros, con un
po’ di fortuna lui se la sarebbe tenuta tutta per sé. Dal momento, comunque,
che per fortuna suo padre era vivo e vegeto (più che vegeto vegetante,
considerato lo stato di mutismo in cui si chiudeva per reazione ai continui
sproloqui della moglie), Scarburough Fields era affidata a lui, e questo
significava che i rampolli della casata erano costretti a trascorrere le
vacanze persi nelle Highlands.
A Rosnake la Scozia piaceva.
Adorava la natura indomita e selvaggia, la commuovevano i laghi che cambiavano
colore a seconda di quello del cielo, si riempiva ferocemente i polmoni di aria
marina appena arrivavano in vista della riva e simpatizzava con le pecore, non
foss’altro perché sua madre le detestava. Amava molto il parco della tenuta,
con il sapore amarognolo con cui si ama ciò che ci ricorda felici tempi
passati. Anche se lei non aveva l’abitudine di delirare per la strada, il suo
cuore viveva davvero tra l’erica inseguendo i cervi.
La madre dei tre fratelli era una
donna per molti aspetti ammirevole, bellissima, intelligente e mite, ma per
qualche oscuro motivo le Highlands avevano su di lei l’effetto che ha la
pozione sul dottor Jekill: la trasformavano completamente. Forse per il suo
sangue greco che prendeva il sopravvento, le manie di grandezza, di solito non
poi così gravi che la caratterizzavano, tendevano ad esplodere il giorno della
partenza, nel preciso istante in cui il povero Jean-Jacques, maggiordomo,
tuttofare e, all’occorrenza, cocchiere, (“una perla rara”, salvo l’abitudine
piuttosto spiazzante che aveva di parlare di sé in terza persona) tirava fuori
la ridicola carrozza nera e argento su cui si spostava l’intera famiglia:
scomoda, vistosa e “così romantica”.
In quel momento, Ariadne
Lestrange imboccava una tortuosa scala che la portava a compiere bassezze quali
far mangiare tre adolescenti piuttosto selvatici con le posate d’argento.
All’improvviso, la cosa più importante diventava la purezza della stirpe, il
fine ultimo lo sfarzo, la qualità più apprezzabile la buona educazione,
osservata con scrupolo, tranne che per la clausola “non fare troppo sfoggio di
quello che hai”. In pratica, nel castello di Scarburough si viveva come in “Orgoglio
e Pregiudizio”, il che non era un problema per Rodolphus, chiaramente
predisposto a recitare la parte del nobile neanche poi tanto decaduto, né per
Rabastan, abbastanza ieratico da lasciarsi scivolare tutto addosso come
pioggia. Arrivati al terzo giorno, Rosnake cominciava ad avere qualche crisi di
panico per il timore di impazzire.
Finché la secondogenita dei
coniugi Lestrange era stata una bambina, la sua diversità da qualunque altro
membro della famiglia era passata in gran parte sotto silenzio. Nessuno parve
notare che quella ragazzina gracile, incapace di alzare la voce, passava molto
tempo da sola, mangiava quasi solo porridge e parlava con le piante. In fondo,
non dava fastidio, mentre c’erano due maschietti molto vivaci a cui badare.
Quando, a undici anni, Rosnake partì per iniziare gli studi in campo magico, fu
subito chiaro che la sua infanzia trascorsa in gran parte in compagnia di gatti
e peonie aveva lasciato qualche segno. Apriva bocca di rado, e quasi sempre per
pronunciare brevi frasi contorte che sembrava aver ponderato per molto tempo. Si
nutriva di succo di zucca, caramelle al rabarbaro e burro. E, cosa più
sconvolgente di tutte, non faceva minimamente caso a cosa indossava, come si
comportava e che impressione dava. Con gli anni, tutte queste bizzarrie si
erano molto stemperate, anche grazie agli amici che la ragazza si era fatta:
l’essere strana non bastava a distogliere l’attenzione dal suo cervello vivace
e dal temperamento affettuoso e gentile. Quello che non era cambiato per nulla,
a parte la passione per il rabarbaro, era l’assoluto disinteresse che Rosnake
ostentava nei confronti dei numerosi privilegi impliciti nella sua condizione
di figlia di una grande stirpe della nobiltà magica. Soldi, potere; nah, non
era roba per lei. A Ros piaceva andare in giro in jeans, montare a cavallo,
camminare per ore e stare a guardare gli insetti tra l’erba. E appena
arrivavano alla tenuta la sua cara mammina, che di solito accettava senza
fiatare qualunque stravaganza, di colpo pretendeva di far diventare “la sua
ragazza” una sorta di damina uscita dalla penna di Jane Austen.
Assorta in cupi pensieri, Ros si
trovò spiazzata quando la carrozza si fermò con uno scossone.
“Eccovi nelle terre che vi
appartengono da cinquecento anni!” esclamò orgogliosa Ariadne. Eccoli nelle
terre che erano il suo terrore da sedici anni.
Si massaggiò la fronte con le
dita, e ricevette uno scappellotto dal suo adorabile fratello minore. “Muoviti,
Snake, scendi!” Rabastan aveva l’aria decisamente provata; chiaramente non
vedeva l’ora di rimettere i piedi sulla solida terra. Poverino, aveva sempre
sofferto di malesseri legati al movimento. Dal canto suo, Rodolphus aveva
aperto la portiera alla madre con un piccolo inchino, e sorrideva, perso nella
nube del proprio non trascurabile fascino. Che figlio perfetto. Passando, la
ragazza gli allungò una bella gomitata nelle costole. La signora Lestrange, già
del tutto immedesimata nel suo ruolo di nobildonna delle Highlands, si volse
composta verso il castello che, splendido nella sua severità, li osservava,
abbarbicato al promontorio roccioso. Ros, girata nella direzione opposta,
fissava il ponte di pietra che avevano appena attraversato, unico collegamento
tra il mondo e l’isola petrosa su cui si trovava Scarburough Castle. In quel
momento, i signori McPherson, secolari domestici dei Lestrange, vennero ad
accoglierli tra mille sorrisi. Il signor McPherson, un uomo massiccio, dal viso
nodoso come un tronco d’albero, si fece aiutare da un Jean-Jaques
dignitosamente contrariato a trasportare i numerosi bauli nelle camere da
letto. Rab si vuotò lo stomaco dietro una siepe, sua madre andò a massaggiargli
la fronte con piccole pacche di conforto, l’anziana cameriera corse dentro
insieme a Rodolphus, a cercare pezzuole imbevute d’acqua di colonia e simili.
Era il momento. Nessuno poteva notarla. Nessuno badava a lei.
Con il cuore che pulsava nelle
orecchie, Rosnake si sfilò le scomodissime scarpe e corse tra i cespugli,
controllando di non essere vista. Aggirò il castello senza rallentare e si
gettò dentro da un ingresso posteriore, che dava su una ripida scalinata di
pietra. La salì a due a due, il fiato corto, e finalmente si trovò nel
corridoio su cui si affacciava la sua camera. Entrò, silenziosa e tesa, e si
chiuse la porta alle spalle. Era al sicuro.
Sospirando di sollievo, si
strappò di dosso con autentica furia l’abito di broccato color sabbia che aveva
rinvenuto con orrore sul letto quella mattina, contenta di veder saltare due
bottoni. “Completo da viaggio”, l’aveva definito sua madre, con un enfatico
sorriso. Orrenda costrizione che le impediva di rilassarsi, divertirsi e, nel
peggiore dei casi, fuggire agli stupratori. Per fortuna, i domestici di
famiglia erano selezionati in base alla loro efficienza, e il suo baule, peraltro
un po’ ammaccato, era già lì, insieme al cesto di Midnight. La ragazza liberò
il gatto, che si stiracchiò con voluttà prima di acciambellarsi sul grande
letto a baldacchino. Almeno lui era di buon umore. Sul fondo del bagaglio, ben
nascosti agli occhi di sua madre, Ros aveva sistemato un paio di vecchi jeans
sdruciti, camicia a quadri appartenuta a Rodolphus e scarpe da ginnastica così
distrutte da aver perso parte dell’imbottitura. Meravigliosi abiti. Ti
trafiggono il cuore. Si cambiò, afferrò Middy sotto il braccio e uscì di nuovo,
silenziosa come ombra.
Le scuderie del castello erano
poco lontane dall’edificio principale, oltre un pezzo di prato. Le raggiunse in
pochi attimi e, lottando per prendere il respiro, si gettò verso l’ultimo box,
che conteneva una delle sue migliori amiche al mondo.
“Artemis!” gridò, ma molto piano,
per non farsi sentire. La giovane femmina di mustang nitrì di gioia, il muso
marrone scuro levato al soffitto. La sua padrona era tornata! Non vedeva l’ora
di galoppare, di galoppare lontano, verso l’orizzonte. Rosnake non la deluse.
Le mise i finimenti con pazienza, le diede una mela, sistemò il gatto nella
bisaccia della sella. Stava per prendere le redini e portare fuori la
cavallina, ma la porta della scuderia si aprì.
“Sapevo che eri qui!” Rabastan,
ancora un po’ pallido, le sorrise. Non sembrava armato di cattive intenzioni,
ma sua sorella gli rivolse lo stesso uno sguardo truce.
“Io non torno!” sibilò. “Non puoi
obbligarmi, non voglio rientrare fino
all’ora di cena, possibilmente anche oltre, chiaro? Se vuoi acciuffarmi,
okay, ma dovrai farlo con la forza!”
“Veramente” rispose il ragazzo,
amabile “Ti ho portato dei biscotti.”
Con una traccia di strisciante
senso di colpa, Rosnake notò la scatola di latta che suo fratello teneva in
mano, ma decise di non abbandonare del tutto la linea del sospetto.
“Bene” borbottò, brusca,
sfilandoglieli di mano. “Sparisci.”
“Neanche un grazie?”
“Non dire a nessuno che mi hai
vista!” gli ordinò, mandandogli un bacio veloce.
Cavalcò per miglia e miglia, la
schiena a pezzi, sorretta solo dalla smania di allontanarsi il più velocemente
possibile da tutto ciò che riguardava Scarburough Castle. La voglia di fuga le
bruciava nei polmoni come acido, la spingeva avanti, miglio dopo miglio. Lontano.
Lontano da quei vestiti odiosi, dai cerimoniali avvolti nella polvere, lontano
dalla propria vita. Era così che Rosnake sopravviveva, in Scozia: scappando.
Passava le giornate persa nella brughiera, stordendosi di fatica per non
pensare a nulla, o contemplando il mondo, appollaiata sul glicine.
Il glicine era un ricordo del
tempo che fu, piantato, a quanto si diceva, dalla trisavola dei tre ragazzi, e
cresciuto forte e rigoglioso, nonostante il rigore del clima. A maggio, nella
stagione della fioritura, si ricopriva di fiori viola dall’odore stradolce,
gravidi di nettare, ma ora, in pieno agosto, altro non era che un tronco
ritorto, coronato di rami spogli. Arrampicarsi era facile. Ros tolse le scarpe,
e dopo aver liberato Middy e Artemis (non si allontanavano mai troppo, proprio
lì vicino c’era una sorgente d’acqua fresca che li attirava entrambi) si issò
sui rami più alti, comoda come in una poltrona. Sarebbe riuscita a sopravvivere
lassù fino all’arrivo dei Malfoy?