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Autore: Kagome    11/10/2003    10 recensioni
Qualcuno ha ricevuto il Bacio del Dissennatore. Qualcun altro non vuole lasciarlo andare.
Genere: Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lascialo andare


Scritto da: Giulia “Kagome”

Beta-letto da: Rikky-chan e ChaDo

Riassunto: Qualcuno ha ricevuto il Bacio del Dissennatore. Qualcun altro non vuole lasciarlo andare.

Bollino censura: Genitori (PG), per l'argomento triste.

Liberatoria: Questa storia è basata su personaggi e situazioni create da Joanne Katleen Rowling, che ne detiene i diritti assieme a vari editori, inclusi e non limitati a Bloomsbury, Scholastic, Raincoast, Salani e Warner Bros Inc. Nessun profitto è stato ottenuto da questo brano, e nessuna violazione del copyright è pertanto intesa.


~~**~~


Aveva ricevuto il Bacio del Dissennatore. Non riuscivi a crederci. Ancora non riesci a crederci, nemmeno adesso, dopo che è rimasto steso su quel letto per tutti questi anni, respirando appena e tenuto in vita da quella... “macchina”.

Assieme ai tuoi compagni, stavi combattendo contro i Dissennatori e i Mangiamorte; l’Oscuro Signore era stato sconfitto, ma i suoi seguaci cercavano ancora di lottare, per trovare una via di scampo.

Pochi secondi prima era vivo, stava lottando contro un Dissennatore e ti stava dicendo che “Tutto sarebbe finito bene”. Pochi secondi dopo, era solo un guscio, era “andato”, come qualcuno ti aveva detto. I suoi bellissimi occhi, che tante volte ti avevano guardato con collera, con amore, con amicizia, con divertimento... erano vuoti, fissi... come se all’improvviso fosse diventato cieco. Il suo corpo, che fino a pochi secondi prima aveva combattuto e cercato di difenderti, il suo corpo che era stato così vivo, così forte... era fermo, capace solo di respirare e deglutire. La sua voce, che tanto spesso ti aveva dato conforto, o ti aveva inveito contro... non avrebbe più pronunciato una sola parola.

Piangesti, implorasti, cominciasti a scuotere quel corpo che un tempo apparteneva a un essere vivente, ma che in quel momento sembrava solo un fantoccio; lo pregasti di ritornare, di guardarti ancora, di sorriderti ancora...

Qualcuno ti prese per le spalle; non riconoscesti chi fosse, al momento, e anche adesso non riesci a ricordarlo con esattezza. La tua mente era troppo sconvolta per avere ricordi chiari.

«Lascialo andare! Non capisci? Se n’è andato, non puoi farci niente, non puoi riportarlo indietro!» ti disse, stringendoti in un abbraccio. Ma tu lottasti con tutta la tua forza per districartene.

«NO! Non se n’è andato, vedi? E’ ancora vivo... respira... non se n’è andato! Non se n’è andato... » iniziasti a ripetere, come in una specie di cantilena. Cominciasti a piangere, a urlare, a gridare tutto il tuo dolore. Il tuo viso divenne paonazzo, le tue mani lottarono contro quelle di chi ti voleva calmare.

L’ultimo Dissennatore, quello che aveva rubato l’anima della persona che ti era più cara al mondo, era stato catturato. Tutti i Mangiamorte erano stati imprigionati. C’erano cadaveri dappertutto, sangue, gente che piangeva sui corpi morti dei loro cari, proprio come tu piangevi sul suo... con l’unica differenza che egli non era un cadavere. Era ancora vivo... respirava, batteva le palpebre, deglutiva... il sangue gli scorreva nelle vene, il cuore gli batteva ancora. Ma se n’era andato. Se n’era fottutamente andato... Perché? Non era giusto...

Ti divincolasti, con forza, dall’abbraccio di colui che cercava di consolarti (come se fosse mai stato possibile, consolarti) e cadesti in ginocchio, abbracciando quel corpo che ancora viveva, e respirava. Non volevi lasciarlo andare...

Lo portasti a casa. Si alzò in piedi e camminò dritto davanti a sé, seguendo te, la persona che gli teneva la mano e gli indicava dove andare. Si sedette sulla poltrona dove lo volevi far sedere, in soggiorno, bevve l’acqua che gli portasti da bere e mangiò il cibo che gli portasti da mangiare. Le sue pupille erano fisse, ma le sue palpebre battevano ancora, il suo petto continuava a muoversi, per respirare.

Sapevi che era solo una bambola vivente, che la sua anima... stava ora ricevendo la peggiore delle punizioni, intrappolata per sempre in quell’essere disgustoso, sopportando un dolore che non si meritava. Egli, che aveva già sofferto così tanto nella sua breve esistenza... era condannato a soffrire ancora, per sempre. Era giusto?

No, gridava una voce nella tua testa, non è affatto giusto.

Sapevi che non era giusto; sapevi anche che non potevi farci niente. Ma non te ne importava... finché avresti visto il suo petto muoversi per respirare, le sue palpebre battere ancora... avresti fatto tutto quello che ti era possibile per mantenerlo in vita. Non aveva più un’anima... ma era vivo.

Poi, qualche giorno dopo l’ultima battaglia, iniziò a urlare. Stavi cercando di sistemare un maglione che volevi fargli indossare, ma lasciasti che il tuo lavoro ti cadesse di mano e corresti verso di lui. Urlava, aveva le convulsioni... tremava dalla testa ai piedi. Pensasti che fosse la fine. Iniziasti a pregare quel Dio che non sapevi, né ti era mai importato prima di allora, se esistesse o no; iniziasti a urlare, a chiedere aiuto, a implorare qualcuno, chiunque di darti una mano. Hermione ti corse accanto, venendo chissà da dove. Cercò di separarti da quel corpo tremante:

«Sta morendo. Non puoi fare niente per salvarlo... ho visto che oggi respirava sempre più lentamente. Non puoi fare niente per lui, lascialo andare!»

«NO! Io lo so che è ancora vivo! Dev’esserci un modo per tenerlo ancora in vita, Hermione... non voglio che muoia. Ti prego... ti prego, aiutami!» urlasti, cercando di separarti da Hermione e di tornare a prenderti cura di quel corpo scosso dalle convulsioni. Ma lei non te lo consentì, continuò, testarda, ad abbracciarti. Alla fine dovesti arrenderti e ricambiasti la stretta; iniziasti a piangere. Non volevi farlo, ma le lacrime avevano iniziato a cadere dai tuoi occhi e non eri capace di fermarle. «Non voglio che mi lasci so...» mormorasti nell’orecchio di Hermione.

«Ma non lo sei... ci siamo noi con te, lo sai», ti interruppe lei. Ma tu non volevi ascoltare le sue parole; non era la stessa cosa... certo, li amavi tantissimo e loro amavano te, ma non era la stessa cosa, dannazione!

Hermione cercò di convincerti per un momento che ti sembrò infinito, poi si sciolse dall’abbraccio e ti fissò, diritto negli occhi:

«Se davvero non vuoi che muoia, conosco un modo per tenerlo in vita. Ma... non è giusto», disse. Il tuo cuore batté più forte a quelle parole: c’era davvero un modo per non farlo smettere di respirare? E perché diavolo non l’aveva detto prima?

«Non importa. Dimmi, che devo fare?» chiedesti. Lo sguardo di Hermione divenne vuoto, distaccato.

«Aspettami, torno subito», disse e si Smaterializzò, lasciandoti con lui. Dov’era andata? Rimanesti accanto a quel corpo tremante, sentendolo urlare; pregando che continuasse a urlare e a tremare... perché finché avesse urlato e tremato, sarebbe stato vivo. Rimanesti con lui in quella stanza solitaria per un momento che ti sembrò lunghissimo... ma in realtà le lancette dell’orologio nel soggiorno dicevano che erano passati solo pochi minuti.

Hermione si Materializzò di nuovo.

«Sono andata a una cabina telefonica Babbana. Ho chiamato l’ambulanza, dovrebbero arrivare tra poco», ti disse. In qualche modo, questo ti calmò. Tornasti ad abbracciare quel corpo tremante e provasti a cullarlo, cercando di fargli sentire che gli eri accanto. «Ma c’è qualcosa che devi sapere. I Babbani penseranno che sia in coma. Lo attaccheranno a una macchina... qualcosa che lo terrà in vita controllando le sue funzioni vitali e dandogli il necessario per sopravvivere. Ma non sarà mai la stessa cosa... starà sdraiato in un letto d’ospedale Babbano, respirerà, i suoi occhi saranno aperti... ma non sarà vivo. Se n’è andato, devi accettarlo. Se n’è andato...» disse.

In una piccola parte del tuo cervello, sapevi che Hermione aveva ragione. Sapevi che avresti dovuto lasciarlo andare... ma... non ne eri capace.

«Lo so, Hermione. Ti ringrazio per quello che hai fatto per me», mormorasti mentre il suono di una sirena si avvicinava e una strana macchina si fermava davanti al giardino di casa tua.

Hermione ti sfiorò la guancia con la mano, in una tenue carezza, e si alzò. Tre uomini vestiti di bianco entrarono in casa e corsero nel soggiorno. Si avvicinarono al corpo tremante, che ancora urlava; iniziarono a lavorarci sopra, frenetici. Pochi attimi dopo avevano finito, il corpo era steso su una cosa simile a un lettino ed era stato portato dentro la strana macchina.

Tu sedevi alla destra di quel piccolo letto, con Hermione al tuo fianco. Gli uomini in bianco continuavano a parlare tra di loro, dicendo cose che non riuscivi a capire. Gli misero una cosa in faccia e gli punsero il braccio con uno strano ago, collegandolo a una specie di bottiglia rivolta all’ingiù. Gli attaccarono addosso anche altri strani cavi, collegandolo a una macchina che stava dalla parte opposta di quella cosa che Hermione aveva chiamato “ambulanza”, e che iniziò a produrre uno strano e regolare bip. Qualcuno ti disse che era il battito del suo cuore.

Dopo un viaggio che ti parve eterno (tutto ti sembrava eterno, quel giorno) la macchina si fermò. Gli uomini in bianco si alzarono e tu li imitasti, come anche Hermione. Aprirono la portiera posteriore della vettura e spostarono lo strano letto sul quale l’avevano disteso, trasportandolo all’interno dell’ospedale. Tu seguisti il letto e i dottori, finché potesti: Hermione continuava cingerti la vita con un braccio e cercava di darti qualche carezza di conforto dietro la schiena.

Aspettasti che i dottori tornassero, in un corridoio bianco, camminando avanti e indietro sul pavimento lucido e splendente. Non avevi bisogno che loro ti dicessero nulla, in realtà, sapevi benissimo quello che ti avrebbero detto.

Dopo un po’ di tempo, vedesti un dottore uscire dalla stanza dove erano entrati tutti qualche minuto prima, assieme a lui. Ti alzasti dalla sedia, Hermione si avvicinò, allontanandosi dalla finestra dove stava guardando fuori; ti cinse di nuovo la vita con un braccio.

«Siete suoi parenti?» chiese il dottore. Tu facesti cenno di sì; non lo eravate per davvero, ma a voi non importava. «Purtroppo... devo darvi una brutta notizia... il ragazzo... è in coma. Abbiamo fatto di tutto per farlo riprendere, ma sembra che siamo arrivati troppo tardi, che sia irreversibile. Il suo cervello non funziona più...» Non sapevi che cosa questo significasse. Ma sapevi benissimo che cosa il dottore stesse cercando di dirti: era meglio che tu lo lasciassi andare. Lo osservasti, con gli occhi sbarrati.

«No, la prego, non lo faccia morire», lo implorasti.



Tre anni sono passati da allora. Anni che hai passato qui, tutti i giorni, Materializzandoti poco distante dall’ospedale e entrandovi come facevano i Babbani, per stare con lui tutto il giorno. Anni nei quali hai chiesto che ti fosse installato un telefono Babbano in casa, perché potessero sempre informarti sulle sue condizioni... anche se sapevi benissimo che non ci sarebbe mai stata alcuna novità. Anni nei quali hai continuato a sederti su questa sedia, accanto al suo letto, tenendo la sua mano nelle tue e strusciandovi continuamente il pollice sul dorso.

Anche adesso, il suo corpo è ancora caldo, la macchina a cui è legato continua a produrre lo stesso, regolare bip. L’infermiera arriva ogni due ore a controllare la maschera che lo fa respirare e a cambiare quella bottiglia messa all’ingiù... la flebo come la chiama Hermione. Ma tu lo sai... lo sai che è solo un guscio, vuoto.

Il dottore entra nella stanza, come ogni giorno, salutandoti e controllando le sue condizioni. Come ogni giorno, ti si avvicina e ti bisbiglia nell’orecchio:

«Che dobbiamo fare con lui?»

«Non spegnete quella macchina di merda», gli sibili tu di rimando, mentre i tuoi pugni tremano per la rabbia che non riesci a contenere.

L’uomo ti guarda, nel suo sguardo accigliato leggi tutta la pietà che prova nei tuoi confronti; ma non osa dirti nulla e ti fa cenno di si. Si allontana ed esce dalla stanza, chiudendo la porta. Pochi attimi dopo, quella stessa porta si apre di nuovo e qualcuno entra nella stanza, ti si avvicina e si siede accanto a te. I tuoi occhi sono pieni di lacrime e non riesci a vedere subito chi sia. Ti pulisci gli occhi, con la mano libera, e torni a guardare quella persona. E’ Hermione.

«Come sta?» ti domanda. Tu muovi la testa verso il letto e le fai segno di guardarlo. Sa benissimo, come lo sai anche tu, che egli è sempre lì, nelle stesse condizioni, respirando e mantenendosi in vita grazie a quella macchina. Hermione sospira e lo osserva per un lungo istante, malinconica. Poi i suoi occhi tornano a fissarti e la sua espressione triste si trasforma in un cipiglio preoccupato. «Non pensi di averlo tenuto qui abbastanza?» ti domanda.

Tu scuoti il capo, incapace di parlare; c’era bisogno di chiamare Hermione? Ripeti ogni giorno a quel dottore che non vuoi che lui sia ucciso. Ripeti tutti i giorni che vuoi che continui a respirare... anche se il coma è irreversibile, come lui continua a dirti. Il dottore ha sempre accettato le tue parole... per anni. Perché oggi ha dovuto chiamare Hermione?

La ragazza sospira di nuovo e si alza, lasciando la stanza. Pochi minuti dopo, mentre tu stai lottando disperatamente per non metterti a piangere, il dottore ritorna e ti si avvicina.

«So quello che prova», ti dice.

No, pensi, non può sapere quello che provo. Nessuno può sapere quello che provo...

«So che è difficile, ma è tempo di lasciarlo andare. Non può fare nulla per lui... in realtà era clinicamente morto fin dal giorno in cui è arrivato qui, e lei lo sa benissimo. Solo questa macchina lo tiene in vita... non pensa che si meriti di riposare?» ti chiede.

No, pensi tu. Non può capire. Anche se si fermasse quella macchina, anche se il suo cuore smettesse di battere... non potrebbe riposarsi. La sua anima non riposerà mai... è intrappolata in quell’essere maledetto, condannata a soffrire per sempre. Nessuno può farlo riposare... anche se è “clinicamente morto”, finché il suo cuore batte, è con me. «Non voglio che mi lasci...» gli dici.

«Sa, non dovrei essere io a dirglielo. Ma... finché non lo lascia andare, la sua memoria la legherà, come una catena. E’ lei che sta costringendosi in gabbia, intrappolandosi con lui. Lo lasci andare, lo lasci riposare...» Si siete vicino a te, e ti mette una mano sulla spalla. Tu la scuoti via e gli lanci uno sguardo irato.

«Sì, lei non è la persona che deve dirmelo. Lei non sa che cosa è successo... come potrebbe, in ogni caso. Quindi se ne stia zitto, e se ne vada!» gli gridi in faccia. Il dottore sospira e si alza in piedi.

«Come desidera, signorina. Ma... c’è una bambina che è arrivata poco fa in ospedale. Non abbiamo macchine libere e il suo cervello è ancora vivo. E’ in coma... e non possiamo aiutarla perché non ci sono macchine disponibili», ti dice, e se ne va.

Hai il cuore in gola mentre fissi la porta, gli occhi spalancati, il viso pallido e smunto, come quello di un cadavere. Ti alzi in piedi e dai un’occhiata al suo corpo, nel letto d’ospedale. Ti avvicini alla porta ed esci dalla stanza, per andare in bagno. Hai mal di stomaco e non vuoi vomitare nella sua stanza.

Ti avvicini al bagno e vedi una coppia di Babbani, che piangono. Il dottore che ha parlato con te un attimo fa si è appena allontanato da loro... li incroci mentre cammini e li senti mormorare:

«E’ la fine!»

Il tuo cuore batte ancora più rapidamente mentre raggiungi la porta del bagno delle signore. Ti avvicini al lavandino e osservi il tuo riflesso, nello specchio. Il mondo attorno a te sta girando vorticosamente, hai un fortissimo mal di testa e la donna che ti guarda dallo specchio ti sta accusando... ti fai schifo da sola.

Esci dal bagno, il mondo continua ancora a turbinare attorno a te; cammini barcollando finché non raggiungi la stanza davanti alla quale i due Babbani sono ancora fermi, intenti a osservarne l’interno. Il tuo sguardo segue il loro e la vedi... una bimbetta che avrà quattro, o cinque anni. Il suo viso è coperto con una maschera simile a quella che contempli ogni giorno, il suo braccio è legato a una bottiglia all’ingiù come quella che tiene in vita lui. Ma nessuna macchina produce un bip regolare, nessuno strano strumento con buffe lucette segnala le sue funzioni vitali. Ti senti sprofondare...

«E’ mia figlia», dice la donna che l’uomo abbracciava un attimo prima. «E’ caduta da un albero mentre cercava di far scendere il suo gatto. I dottori...» La voce della donna si incrina e tu ti senti sprofondare ancora più in basso. «I dottori hanno detto che non ci sono macchine disponibili. Stanno cercando un altro ospedale che abbia posti liberi, ma temono che sarebbe troppo tardi...»

La donna inizia a piangere, e tu piangi con lei. Il marito l’abbraccia e tu te ne vai, continuando il tuo tragitto fino alla camera dove hai quasi vissuto per tre lunghi anni. Torni a fissare il suo volto, ancora una volta. E’ fermo come sempre, la maschera copre il suo viso, il suo respiro è regolare, come anche il bip della macchina, che ti fa sapere che il suo cuore continua a battere.

Che cosa avresti fatto, tu? lo interroghi, nella tua mente. In una situazione come questa... che cosa avresti voluto che io facessi?

Osservi il suo volto rilassato, sotto la maschera. Passi la mano tra i suoi capelli scarmigliati e continui la carezza sfiorandogli il viso; i suoi occhi, le cui palpebre continuano a battere regolarmente, fissano il soffitto dal giorno in cui l’hai portato in questa stanza. Le tue dita raggiungono la sua guancia, poi scendono sulla sua mascella...

Lo sai. Sai benissimo che cosa avrebbe fatto. Sai che non avrebbe mai voluto che...

Esci dalla stanza e ti dirigi, risoluta, verso il dottore con cui hai parlato un attimo fa. Lo guardi negli occhi, un fiume di lacrime bagna le tue guance. Lui ricambia lo sguardo e tu annuisci, decisa. Il suo volto si rischiara e il modo in cui ti guarda ti fa capire più di quanto egli abbia osato dirti poco fa. Sai che è la scelta migliore che avresti potuto fare.

Il dottore si avvicina alla coppia che continua a guardare attraverso il vetro, la donna emette un piccolo grido; il dottore ti indica con la mano, la coppia ti osserva, in qualche modo sorpresa che sia proprio tu la persona che devono ringraziare. La donna ti sorride, ancora in lacrime per la gioia; tu le sorridi a tua volta e le fai cenno di sì; cerchi di non farlo notare, ma il cuore ti fa male.

Poi, il dottore si avvicina alla sua stanza ed entra. Tu entri dietro di lui.

«E’ sicura che sia proprio quello che vuole, signorina Weasley?» chiede il dottore. Tu annuisci, incapace di pronunciare una sola parola. Il dottore prende dalla propria tasca dei fogli e ti chiede di firmarli. Non riesci a leggere bene, troppe lacrime ti annebbiano la vista, ma sai di che cosa si tratta: stai sottoscrivendo la sua condanna a morte. Ti senti una persona orribile mentre firmi quei fogli ma, allo stesso tempo, lo sai. Sai che anche lui li avrebbe firmati.

Il dottore prende i fogli dalle tue mani e ti guarda, grato. «Ha fatto la scelta migliore», ti dice e ordina agli infermieri che sono entrati dietro di te di spegnere la macchina. Pochi secondi, poi più nessun suono rimbomba nella stanza; più nessuna luce illumina i vari indicatori sul muro: solo quel bip regolare ti fa capire che il suo cuore batte ancora, anche se sta rallentando, sempre di più.

Osservi il suo corpo, che ancora respira, ma lo sai che, tra qualche attimo, non lo farà più. Avvicini il tuo viso alla sua fronte e gli dai un bacio sui capelli, più neri e scompigliati del solito.

«Addio, Harry», gli mormori nell’orecchio, mentre il suono del suo respiro si affievolisce e il suo petto smette di muoversi. Il bip della macchina diventa lungo e fisso. Il dottore dà una rapida occhiata all’orologio e scrive sulla cartella: “Ora del decesso: 11:35 di mattina”.

Osservi per un ultima volta il suo corpo, ormai senza vita; i tuoi occhi si riempiono di lacrime di dolore e frustrazione quando lo vedi. Non è giusto... non riesci più a trattenerti: ti giri, ti incammini verso la porta ed esci, chiudendola alle tue spalle. Ron e Hermione sono di fuori e tu sprofondi nel loro abbraccio. Non è giusto, pensi. E’ maledettamente ingiusto...

I dottori gli avevano tolto la maschera dal volto e, nel farlo, ti avevano mostrato qualcosa, un dettaglio che ti faceva ancora più male di tutto il resto. Sulla sua fronte, ora che era morto, non c’era più traccia della sua cicatrice.




Nota dell’Autrice:

*Sniff*... Beh, lo so, lo so. Non lo sopporto, e voi lo sapete benissimo. Ma scrivendolo non sono riuscita a evitare di diventare una fontanella pubblica... non posso farci niente. Spero che questa storia sia riuscita a trasmettervi qualcosa, e soprattutto a farvi pensare.

Come mi è venuto in mente tutto ciò, chiedete? Come può una persona sana di mente farsi venire un’idea così sadica? Beh... stavo leggendo una discussione su Fictionalley.org, e all’improvviso ho avuto un lampo. Non ho potuto evitare di scriverla. E soprattutto... di chiuderla in quel modo...

Fatemi sapere che ve n’è sembrato :)
   
 
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