Capitolo
1:
Bluesman
Capelli argento davanti
agli occhi, mani nelle tasche di un cappotto di lana blu, faccia quasi
coperta
da una sciarpa grigia.
Un occhio nero e vigile,
l’altro, opaco, non vede quasi più, se non qualche
ombra e qualche colore di
tanto in tanto. Qualcosa a cui sono abituato.
La leggera brezza
invernale fruscia, leggera, facendosi beffe dei miei abiti pesanti, del
mio
umore cupo, troppo cupo, e della mia noncuranza supposta.
Le mani
giocano con i ninnoli di cui sono sempre
piene le mie tasche: la sinistra indugia al tatto del metallo caldo
delle
chiavi di casa mia, la destra stringe la chiavetta delle macchinette
dell’ospedale.
Alzo lo sguardo, sapendo
di essere arrivato a destinazione: una villetta a schiera immersa nella
pace di
Salisman street, una piccola via privata di Seattle.
E, come tutte le volte
che guardo questa dannata villetta, mi chiedo che diavolo sia venuto a
fare,
forse solo a farmi del male.
Istintivamente porto la
mano destra all’occhio sinistro, l’occhio ferito,
l’occhio che mi da una scusa per non vedere, per non far
vedere, l’occhio
cieco, l’occhio che, alla fine, è solo una delle
mie facce.
Che
diavolo sono venuto a fare qui?
Solo a farmi male,
rispondo.
Cosa troverò? La donna
infranta del mio migliore amico, anzi, la donna infranta del mio ex- migliore amico. Ex, perché
il mio
migliore amico è… morto.
Morto, lasciandola da
sola a questo mondo, da sola con un bimbo da partorire e crescere.
Solo a
farti male?
Provo un malsano piacere
a farmi male, rispondo. A farmi male… a vederla affrontare
il mondo a muso
duro, mentre io non so fare altro che rifugiarmi nei problemi altrui,
nei corpi
altrui, nelle malattie altrui, senza capire la mia.
Un medico abilissimo nel
far tacere cancri altrui e letteralmente incapace di capire il proprio
morbo.
Avanzo, passo dopo
passo, entro per quel cancello sempre aperto,
busso a quella porta che sa troppo di usuale.
Rumore di passi, il
pianto di un bimbo, sorrido, sotto la sciarpa.
La porta si apre,
rivelando una donna bellissima.
Cristo…
Come al solito il cuore
perde un battito o due nel vedere quegli occhi carmini e quel sorriso
che si
stampa a forza in faccia. Come se non vedessi il disagio sotto quel
volto di
cera costruito di fretta e furia per non fare capire quanto sia
difficile. Come
se non capissi quanto male fa ritrovarsi sola.
E, per l’ennesima volta,
mi chiedo cosa sia venuto
a fare qui.
- Yo!- La mia voce viene
fuori, attutita dalla sciarpa di lana e dal vento. Falsamente allegra,
si
staglia parallela alla tua maschera cerata e costruita.
- Ciao Kakashi!- pieghi
la testa di lato, a sinistra, come fai di solito quando sei contenta e
curiosa.
Gli occhi rilucono, le labbra si arcuano in un sorriso vero.
Le piccole rughe attorno
ai tuoi occhi si fanno presenti, invadenti nei tuoi perfetti quasi
trent’anni. Piccole
rughe che odi, che
cerchi di sterminare con costosissime creme che sono costretto ad
accompagnarti
a comprare. Non ti rendi conto di quanto tu sia bella e umana con quei
piccoli
segni del tempo?
- Cosa sei venuto a fare
da queste parti?- mi chiedi dolcemente, le mani infilate nelle tasche
dei
jeans, hai freddo, coperta solo da un maglione rosso. – Non
dovresti essere in
ospedale a salvare vite?-
Sorrido dolcemente, è la
stessa domanda che mi sto ponendo io in questo momento. –
Sono in pausa e ho
pensato di venire a trovarti, dopotutto Genma mi deve un turno.- mento,
perché
la vera ragione per cui ho attraversato mezza città
affrontando il gelido
inverno non è nota neppure a me.
- Entra.-
la tua voce è allegra, dopotutto ti fa
piacere che mi ricordi di te.
La porta si apre, mi
lascia entrare, prendo il pomello della maniglia e chiudo
quell’entrata sul tuo
mondo privato.
Pavimento di parquet di
noce, casa arredata in un sobrio stile quasi orientale. Hai sempre
adorato
questo genere di cose.
Un grande salotto con un
divano e due poltrone, in tavolo di legno color naturale su un tappeto
probabilmente persiano, probabilmente regalo della madre del tuo
vecchio
compagno. E poi... poi quella culla in legno chiaro, con le sbarre poco
distanti l’una dall’altra che lasciano intravedere
il tuo pargolo. Un fagottino
piangente e che sa ancora del tuo profumo di mamma.
Mi siedo su di una
poltrona, quella rossa, quella che avevate comprato pensando a me. Chiudo gli occhi per un
secondo,
abbandonandomi a quel profumo fantastico e precluso.
Oh,
dannazione.
Il cercapersone inizia a
ronzare nelle mie tasche, faccio finta di nulla, lo spengo.
Tu non te ne accorgi
neppure, eri andata in cucina a prendere... cosa esattamente?
Ah, ora ricordo.
Del caffè.
Improvvisamente un
pianto rompe la mia quiete.
Apro gli occhi,
sorridendo.
Il tuo cucciolo, figlio
di suo padre.
Mi alzo, mi avvicino a
quella culla, una culla che ti ho aiutata a scegliere. Le mie mani
affondano
nelle copertine che ti ho regalato, coperte che sono costate tanto. Non
economicamente quanto umanamente.
Perché
sono venuto?
Afferro con pretesa
dolcezza quel corpicino tremante, con i capelli morbidi come i tuoi e
gli occhi
di suo padre. E’ un corpo tanto piccolo da farmi sentire a
disagio.
Appoggio la
testa del pargolo nell’incavo della mia
spalla, comincio a passeggiare quasi dondolandomi sui talloni. Questo
bimbo sa
troppo di te. Troppo poco di Asuma.
Il piccolo mi guarda
fisso con quegli occhioni marroni ed enormi, mi afferra i capelli con
curiosità. Hanno un colore strano, effettivamente. Comincia
a tirarli, prima
con dolcezza e poi con foga, quasi volesse scoprire la parrucca e
svelare
chissà quale segreto.
- Ehi, guarda che sono
veri.-
Sorrido, mentre l’ennesima
zaffata del tuo profumo passa da quella pelle al mio naso.
Preferirei…
Non poter percepire
questo odore per l’ennesima volta. Mi fa sentire colpevole,
mi fa sentire in
difetto.
E, credo già di esserlo
a sufficienza.
Torni in salotto, con in
mano due bicchieri colmi di quel caffè americano che sembra
una triste parodia
di quello italiano. Lo odio, ma lo berrò lo stesso.
Avanzi leggera, poi
realizzi l’immagine che ti si para davanti.
Tuo figlio e il migliore
amico di tuo marito.
Tuo figlio che gioca con
il migliore amico di tuo marito.
Giurerei di vedere un
sorriso fare capolino sul tuo volto perfetto. Giurerei di aver visto
per un
secondo quel sorriso illuminarti gli occhi e scaldare il mio cuore
meglio del
liquore.
Giurerei.
O, forse, voglio solo
fare finta di aver intravisto qualcosa di positivo nel tuo volto.
Volto che si trasfigura
da maschera di cera a maschera d’orrore, gli occhi carmini da
calmi che
diventano lucidi, le labbra che perdono quella
posa soddisfatta e si piegano in una smorfia amara.
Le tazze di ceramica che
si infrangono sul parquet, vanno in mille pezzi, il caffè
bollente che schizza
ovunque, come sangue.
Come sangue imbratta il
pavimento, il tuo volto, i miei vestiti.
- Lascialo!-
Between
where we were standing
And your voice was all I
heard
Come echeggia quel
grido.
Come ferisce.
Ti avventi su di me come
una menade, lo scintillio della pazzia nei tuoi occhi.
E
ti lascio la tua creatura, la creatura a cui
mi sono indebitamente legato, come ricordo di ciò che ero,
dell’innocenza che
ho perduto troppo tempo fa.
Di colpo qualcosa dentro
di me si incrina, i miei occhi si fanno gelidi. Pensi non sappia che
sia
difficile? Lo è anche per me.
Ti vedo stringere quel
bimbo come se fosse la cosa più importante,
l’unica che ti resta. I tuoi occhi
non sono quelli di una donna, sono quelli di una fiera che difende i
propri
cuccioli, furiosa, selvaggia, implacabile.
I tuoi occhi sono… i
tuoi occhi ardono di una scintilla che ho visto troppe volte, una
scintilla che
voglio far finta di non vedere.
-Vattene.- sussurri, la
voce roca.
Mi volto, in silenzio,
recupero la sciarpa appoggiata sulla poltrona, chiedendomi se sia
giusto
lasciarti così. Se
non sia piuttosto un
fuggire da qualcosa di cui ho paura, da una responsabilità
che non ho il cuore
e forse nemmeno la forza di prendermi.
Torno ad essere l’essere
gelido che sono quando opero, quando lascio che il mondo non sia per me
che una
futile forma di distrazione.
O, almeno, ci provo.
Ma come posso voltarti
le spalle?
Ti sento singhiozzare,
mi volto. Non posso restare impassibile a tutto questo.
Gli occhi carmini sono
resi lucidi dalle lacrime, il tuo giovane corpo imperfetto scosso dai
sussulti.
Stringi tuo figlio come
se potesse scappare da un minuto all’altro, come se potesse
svanire come suo
padre, in un momento di furiosa e crudele vita.
Ti accasci a terra,
crolli sulle ginocchia, atona e singhiozzante.
Il mio corpo si muove
senza che possa o voglia fare altro, ti stringo tra le mie braccia
forti e
quasi fragili allo stesso tempo. Il tuo corpo si abbassa ritmicamente,
scosso,
bagnato, seducente.
Ed io non posso fare che
chiudere gli occhi.
Solo stringerti e
chiudere gli occhi.
E, invece, vorrei fare
molte altre cose.
Ma non posso.
Chiudo gli occhi, il tuo
respiro torna regolare, le lacrime cessano, mi stringi, come se avessi
bisogno
di calore umano, per supplire qualcosa che manca. Stringi le mie
braccia e tuo
figlio come se fossimo ciò che ti è rimasto.
O, forse, in questo
momento ti ricordo semplicemente lui.
Il cercapersone vibra,
mi chiedo come sia possibile, ero convinto di averlo spento...
Vorrei ignorarlo, ma il
dovere mi chiama, onnipresente, onnipotente.
Con uno sbuffo porto una
mano alla tasca del giaccone estraendo quel piccolo oggetto.
- Dannazione…-
Mi guardi con quegli
occhi rossi che ormai hanno ripreso il controllo della propria maschera
perfetta.
Ma ormai è troppo tardi,
ti ho vista lì sotto, tra il dolore e
qualcos’altro.
- Vai, Kakashi. Hanno
bisogno di te.-
Vorrei rimanere, parlare
con te. Vorrei capire cosa è successo esattamente. Ma forse non
c’è bisogno di parlare, lo
capisco da come serri tuo figlio in una morsa d’ acciaio, da
come i tuoi occhi
paiono adamantini nei miei confronti. Forse davvero non è
bisogno di me quello
che hai dentro.
Ti guardo per l’ennesima
volta, ti scorgo, mi riparo a mia volta dietro la solita maschera
gelida.
- Yo, ci vediamo. Kure…-
Per l’ennesima volta mi
trapassi con lo sguardo, allontani la tua creatura da me, la proteggi,
quasi te
la volessi portare via.
- Se hai bisogno di
qualcosa, qualsiasi cosa … il numero dell’ospedale
lo hai.-
- Grazie. Ora va’.-
Praticamente mi scacci
di casa, e io mi ritiro.
Ti saluto indifferente
mentre chiudi il portone.
Infondo non siamo che
due marionettisti che credono di ingannarsi l’un
l’altro.
Infondo non facciamo che
recitare una parte imperfetta senza ingannare che noi stessi ed il
nostro cieco
pubblico.
Forse.
Infilo le mani in tasca,
affronto la brezza invernale, giocando con le chiavi di casa e la
chiavetta del
caffè dell’ospedale.
Le scarpe, di pelle
nera, affondano nelle pozzanghere, le calze si inzaccherano. Non ho
né la
voglia né la volontà di tornare in ospedale a
piedi.
Vedo un taxi passare e
lo chiamo, tanto il viaggio lo paga l’amministrazione. Chiudo
il portellone
giallo del taxi e
con voce gelida
sussurro – St Paul Hospital.-. L’autista mette in
moto, non ho voglia di
attaccare bottone. Chiudo
gli occhi,
lasciandomi alle spalle Kakashi e diventando il medico chirurgo Kakashi
Hatake,
primario di traumatologia, brillante medico, sciupa femmine, uomo
glaciale e
perennemente in ritardo.
E, comunque, quegli
occhi rossi ballano davanti ai miei. Finisco per chiedermi se davvero
io possa
qualcosa per lei, o se, semplicemente non sarebbe meglio lasciarla
andare.
Il medico prende il
sopravvento sull’essere umano e mi ritrovo a pensare se magari non possa esserci
qualche ragione
patologica a quel comportamento assurdo, ma scaccio l’idea.
Sono ancora troppo
essere umano per poter pensare a lei in questi termini.
Apro gli occhi,
scostandomi dal volto un ciuffo ribelle di capelli argentati.
L’autista ferma la
macchina, si volta, straordinariamente è una bella ragazza
dai capelli rossi e
gli occhi azzurri. – Siamo arrivati, signore.-
Scendo dalla macchina
con grazia, caccio una mano nel portafogli e le do una sostanziosa
mancia.
La ragazza mi guarda
stupita, poi mi ringrazia e socchiude le labbra in un sorriso aperto e
cordiale. – Grazie, dottor… Kakashi Hatake -
conclude, leggendo il cartellino
che mi sono apposto sulla tasca del cappotto. -avesse bisogno faccia un
fischio!-
Le sorrido di rimando,
chiudo il portellone della macchina, mi preparo ad un nuovo tour in
ospedale.
Apro il portone
trasparente dell’edificio, tento di lasciare gli occhi rossi
fuori.
Per diventare perfetto.
Per fare del mio meglio
per i miei pazienti.
Per non annichilirmi.
Per respirare.
Chiudo gli occhi ed
erigo le mie barriere, invisibili e pseudo impassibili.
Al ritmo del mio respiro
mi trasformo.
Il ritmo di un di un
dolce e malinconico Blues.
Perché, alla fine, sono a mio modo un Bluesman.
Un bluesman perfetto e
maledetto.
Perché il blues
è
maledizione e improvvisazione.
E io lo sono in modo quasi... Maledetto.
Ed eccoci al primo capitolo ^^ grazie x i commenti, spero che possapiacere^______^.
Ditemi che ne pensate... ( anke
se vi fa schifo, please)