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Autore: bravesoul    06/01/2010    4 recensioni
Risorgere. Difficile. Ammettere di avere un problema, impossibile. Accettare che la donna che ami abbia un problema, è assurdo.
E quando non puoi rinascere e non puoi andare avanti, puoi solo sprofondare.
E mai più riemergere. Kakashi, Yugao e Kurenai.
fic classificata prima al contest "Mental" indetto da Globulo rosso e da Bimba_Chic_Aiko.
Genere: Dark, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Kakashi Hatake, Kurenai Yuhi
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo 1:

Bluesman

 

Capelli argento davanti agli occhi, mani nelle tasche di un cappotto di lana blu, faccia quasi coperta da una sciarpa grigia.

Un occhio nero e vigile, l’altro, opaco, non vede quasi più, se non qualche ombra e qualche colore di tanto in tanto. Qualcosa a cui sono abituato.

La leggera brezza invernale fruscia, leggera, facendosi beffe dei miei abiti pesanti, del mio umore cupo, troppo cupo, e della mia noncuranza supposta.

Le  mani giocano con i ninnoli di cui sono sempre piene le mie tasche: la sinistra indugia al tatto del metallo caldo delle chiavi di casa mia, la destra stringe la chiavetta delle macchinette dell’ospedale.

Alzo lo sguardo, sapendo di essere arrivato a destinazione: una villetta a schiera immersa nella pace di Salisman street, una piccola via privata di Seattle.

E, come tutte le volte che guardo questa dannata villetta, mi chiedo che diavolo sia venuto a fare, forse solo a farmi del male.

Istintivamente porto la mano destra all’occhio sinistro, l’occhio ferito, l’occhio che mi da una scusa per non vedere, per non far vedere, l’occhio cieco, l’occhio che, alla fine, è solo una delle mie facce.

Che diavolo sono venuto a fare qui?

Solo a farmi male, rispondo.

Cosa troverò? La donna infranta del mio migliore amico, anzi, la donna infranta del mio ex- migliore amico. Ex, perché il mio migliore amico è… morto.

Morto, lasciandola da sola a questo mondo, da sola con un bimbo da partorire e crescere.

Solo a farti male?

Provo un malsano piacere a farmi male, rispondo. A farmi male… a vederla affrontare il mondo a muso duro, mentre io non so fare altro che rifugiarmi nei problemi altrui, nei corpi altrui, nelle malattie altrui, senza capire la mia.

Un medico abilissimo nel far tacere cancri altrui e letteralmente incapace di capire il proprio morbo.

Avanzo, passo dopo passo, entro per quel cancello sempre aperto,  busso a quella porta che sa troppo di usuale.

Rumore di passi, il pianto di un bimbo, sorrido, sotto la sciarpa.

La porta si apre, rivelando una donna bellissima.

Cristo…

Come al solito il cuore perde un battito o due nel vedere quegli occhi carmini e quel sorriso che si stampa a forza in faccia. Come se non vedessi il disagio sotto quel volto di cera costruito di fretta e furia per non fare capire quanto sia difficile. Come se non capissi quanto male fa ritrovarsi sola.

E, per l’ennesima volta, mi chiedo cosa sia  venuto a fare qui.

- Yo!- La mia voce viene fuori, attutita dalla sciarpa di lana e dal vento. Falsamente allegra, si staglia parallela alla tua maschera cerata e costruita.

- Ciao Kakashi!- pieghi la testa di lato, a sinistra, come fai di solito quando sei contenta e curiosa. Gli occhi rilucono, le labbra si arcuano in un sorriso vero.

Le piccole rughe attorno ai tuoi occhi si fanno presenti, invadenti nei tuoi perfetti quasi trent’anni.  Piccole rughe che odi, che cerchi di sterminare con costosissime creme che sono costretto ad accompagnarti a comprare. Non ti rendi conto di quanto tu sia bella e umana con quei piccoli segni del tempo?

- Cosa sei venuto a fare da queste parti?- mi chiedi dolcemente, le mani infilate nelle tasche dei jeans, hai freddo, coperta solo da un maglione rosso. – Non dovresti essere in ospedale a salvare vite?-

Sorrido dolcemente, è la stessa domanda che mi sto ponendo io in questo momento. – Sono in pausa e ho pensato di venire a trovarti, dopotutto Genma mi deve un turno.- mento, perché la vera ragione per cui ho attraversato mezza città affrontando il gelido inverno non è nota neppure a me.

- Entra.-  la tua voce è allegra, dopotutto ti fa piacere che mi ricordi di te.

La porta si apre, mi lascia entrare, prendo il pomello della maniglia e chiudo quell’entrata sul tuo mondo privato.

Pavimento di parquet di noce, casa arredata in un sobrio stile quasi orientale. Hai sempre adorato questo genere di cose.

Un grande salotto con un divano e due poltrone, in tavolo di legno color naturale su un tappeto probabilmente persiano, probabilmente regalo della madre del tuo vecchio compagno. E poi... poi quella culla in legno chiaro, con le sbarre poco distanti l’una dall’altra che lasciano intravedere il tuo pargolo. Un fagottino piangente e che sa ancora del tuo profumo di mamma.

Mi siedo su di una poltrona, quella rossa, quella che avevate comprato pensando a me.  Chiudo gli occhi per un secondo, abbandonandomi a quel profumo fantastico e precluso.

Oh, dannazione.

Il cercapersone inizia a ronzare nelle mie tasche, faccio finta di nulla, lo spengo.

Tu non te ne accorgi neppure, eri andata in cucina a prendere... cosa esattamente?

Ah, ora ricordo.

Del caffè.

Improvvisamente un pianto rompe la mia quiete.

Apro gli occhi, sorridendo.

Il tuo cucciolo, figlio di suo padre.

Mi alzo, mi avvicino a quella culla, una culla che ti ho aiutata a scegliere. Le mie mani affondano nelle copertine che ti ho regalato, coperte che sono costate tanto. Non economicamente quanto umanamente.

Perché sono venuto?

Afferro con pretesa dolcezza quel corpicino tremante, con i capelli morbidi come i tuoi e gli occhi di suo padre. E’ un corpo tanto piccolo da farmi sentire a disagio.

Appoggio la  testa del pargolo nell’incavo della mia spalla, comincio a passeggiare quasi dondolandomi sui talloni. Questo bimbo sa troppo di te. Troppo poco di Asuma.

Il piccolo mi guarda fisso con quegli occhioni marroni ed enormi, mi afferra i capelli con curiosità. Hanno un colore strano, effettivamente. Comincia a tirarli, prima con dolcezza e poi con foga, quasi volesse scoprire la parrucca e svelare chissà quale segreto.

- Ehi, guarda che sono veri.-

Sorrido, mentre l’ennesima zaffata del tuo profumo passa da quella pelle al mio naso.

Preferirei…

Non poter percepire questo odore per l’ennesima volta. Mi fa sentire colpevole, mi fa sentire in difetto.

E, credo già di esserlo a sufficienza.

Torni in salotto, con in mano due bicchieri colmi di quel caffè americano che sembra una triste parodia di quello italiano. Lo odio, ma lo berrò lo stesso.

Avanzi leggera, poi realizzi l’immagine che ti si para davanti.

Tuo figlio e il migliore amico di tuo marito.

Tuo figlio che gioca con il migliore amico di tuo marito.

Giurerei di vedere un sorriso fare capolino sul tuo volto perfetto. Giurerei di aver visto per un secondo quel sorriso illuminarti gli occhi e scaldare il mio cuore meglio del liquore.

Giurerei.

O, forse, voglio solo fare finta di aver intravisto qualcosa di positivo nel tuo volto.

Volto che si trasfigura da maschera di cera a maschera d’orrore, gli occhi carmini da calmi che diventano lucidi, le labbra che perdono quella  posa soddisfatta e si piegano in una smorfia amara.

Le tazze di ceramica che si infrangono sul parquet, vanno in mille pezzi, il caffè bollente che schizza ovunque, come sangue.

Come sangue imbratta il pavimento, il tuo volto, i miei vestiti.

- Lascialo!-

Between where we were standing
And your voice was all I heard

Come echeggia quel grido.

Come ferisce.

Ti avventi su di me come una menade, lo scintillio della pazzia nei tuoi occhi.

E  ti lascio la tua creatura, la creatura a cui mi sono indebitamente legato, come ricordo di ciò che ero, dell’innocenza che ho perduto troppo tempo fa. 

Di colpo qualcosa dentro di me si incrina, i miei occhi si fanno gelidi. Pensi non sappia che sia difficile? Lo è anche per me.

Ti vedo stringere quel bimbo come se fosse la cosa più importante, l’unica che ti resta. I tuoi occhi non sono quelli di una donna, sono quelli di una fiera che difende i propri cuccioli, furiosa, selvaggia, implacabile.

I tuoi occhi sono… i tuoi occhi ardono di una scintilla che ho visto troppe volte, una scintilla che voglio far finta di non vedere.

-Vattene.- sussurri, la voce roca.

Mi volto, in silenzio, recupero la sciarpa appoggiata sulla poltrona, chiedendomi se sia giusto lasciarti così.  Se non sia piuttosto un fuggire da qualcosa di cui ho paura, da una responsabilità che non ho il cuore e forse nemmeno la forza di prendermi.

Torno ad essere l’essere gelido che sono quando opero, quando lascio che il mondo non sia per me che una futile forma di distrazione.

O, almeno, ci provo.

Ma come posso voltarti le spalle?

Ti sento singhiozzare, mi volto. Non posso restare impassibile a tutto questo.

Gli occhi carmini sono resi lucidi dalle lacrime, il tuo giovane corpo imperfetto scosso dai sussulti.

Stringi tuo figlio come se potesse scappare da un minuto all’altro, come se potesse svanire come suo padre, in un momento di furiosa e crudele vita.

Ti accasci a terra, crolli sulle ginocchia, atona e singhiozzante.

Il mio corpo si muove senza che possa o voglia fare altro, ti stringo tra le mie braccia forti e quasi fragili allo stesso tempo. Il tuo corpo si abbassa ritmicamente, scosso, bagnato, seducente.

Ed io non posso fare che chiudere gli occhi.

Solo stringerti e chiudere gli occhi.

E, invece, vorrei fare molte altre cose.

Ma non posso.

Chiudo gli occhi, il tuo respiro torna regolare, le lacrime cessano, mi stringi, come se avessi bisogno di calore umano, per supplire qualcosa che manca. Stringi le mie braccia e tuo figlio come se fossimo ciò che ti è rimasto.

O, forse, in questo momento ti ricordo semplicemente lui.

Il cercapersone vibra, mi chiedo come sia possibile, ero convinto di averlo spento...

Vorrei ignorarlo, ma il dovere mi chiama, onnipresente, onnipotente.

Con uno sbuffo porto una mano alla tasca del giaccone estraendo quel piccolo oggetto.

- Dannazione…-

Mi guardi con quegli occhi rossi che ormai hanno ripreso il controllo della propria maschera perfetta.

Ma ormai è troppo tardi, ti ho vista lì sotto, tra il dolore e qualcos’altro.

- Vai, Kakashi. Hanno bisogno di te.-

Vorrei rimanere, parlare con te. Vorrei capire cosa è successo esattamente.  Ma forse non c’è bisogno di parlare, lo capisco da come serri tuo figlio in una morsa d’ acciaio, da come i tuoi occhi paiono adamantini nei miei confronti. Forse davvero non è bisogno di me quello che hai dentro.

Ti guardo per l’ennesima volta, ti scorgo, mi riparo a mia volta dietro la solita maschera gelida.

- Yo, ci vediamo. Kure…-

Per l’ennesima volta mi trapassi con lo sguardo, allontani la tua creatura da me, la proteggi, quasi te la volessi portare via.

- Se hai bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa … il numero dell’ospedale lo hai.-

- Grazie. Ora va’.-

Praticamente mi scacci di casa, e io mi ritiro.

Ti saluto indifferente mentre chiudi il portone.

Infondo non siamo che due marionettisti che credono di ingannarsi l’un l’altro.

Infondo non facciamo che recitare una parte imperfetta senza ingannare che noi stessi ed il nostro cieco pubblico.

Forse.

Infilo le mani in tasca, affronto la brezza invernale, giocando con le chiavi di casa e la chiavetta del caffè dell’ospedale.

Le scarpe, di pelle nera, affondano nelle pozzanghere, le calze si inzaccherano. Non ho né la voglia né la volontà di tornare in ospedale a piedi.

Vedo un taxi passare e lo chiamo, tanto il viaggio lo paga l’amministrazione. Chiudo il portellone giallo del taxi  e con voce gelida sussurro – St Paul Hospital.-. L’autista mette in moto, non ho voglia di attaccare bottone.  Chiudo gli occhi, lasciandomi alle spalle Kakashi e diventando il medico chirurgo Kakashi Hatake, primario di traumatologia, brillante medico, sciupa femmine, uomo glaciale e perennemente in ritardo.

E, comunque, quegli occhi rossi ballano davanti ai miei. Finisco per chiedermi se davvero io possa qualcosa per lei, o se, semplicemente non sarebbe meglio lasciarla andare.

Il medico prende il sopravvento sull’essere umano e mi ritrovo a pensare  se magari non possa esserci qualche ragione patologica a quel comportamento assurdo, ma scaccio l’idea. Sono ancora troppo essere umano per poter pensare a lei in questi termini.

Apro gli occhi, scostandomi dal volto un ciuffo ribelle di capelli argentati.

L’autista ferma la macchina, si volta, straordinariamente è una bella ragazza dai capelli rossi e gli occhi azzurri. – Siamo arrivati, signore.-

Scendo dalla macchina con grazia, caccio una mano nel portafogli e le do una sostanziosa mancia.

La ragazza mi guarda stupita, poi mi ringrazia e socchiude le labbra in un sorriso aperto e cordiale. – Grazie, dottor… Kakashi Hatake - conclude, leggendo il cartellino che mi sono apposto sulla tasca del cappotto. -avesse bisogno faccia un fischio!-

Le sorrido di rimando, chiudo il portellone della macchina, mi preparo ad un nuovo tour in ospedale.

Apro il portone trasparente dell’edificio, tento di lasciare gli occhi rossi fuori.

Per diventare perfetto.

Per fare del mio meglio per i miei pazienti.

Per non annichilirmi.

Per respirare.

Chiudo gli occhi ed erigo le mie barriere, invisibili e pseudo impassibili.

Al ritmo del mio respiro mi trasformo.

Il ritmo di un di un dolce e malinconico Blues.

Perché, alla  fine, sono a mio modo un Bluesman.

Un bluesman perfetto e maledetto.

Perché il blues è maledizione e improvvisazione.

E io lo sono in modo quasi... Maledetto.

Ed eccoci al primo capitolo ^^ grazie x i commenti, spero che possapiacere^______^.

Ditemi che ne pensate... ( anke se vi fa schifo, please)

  
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