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Autore: Mrs C    08/01/2010    4 recensioni
Ai non aveva mai avuto paura della morte... eppure quella fu la prima volta che temé seriamente di non sopravviverle. Scappare da qualcosa o qualcuno è inutile. Prima o poi ti raggiungerà, ovunque tu sia...
Genere: Romantico, Triste, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Shinichi Kudo/Conan Edogawa | Coppie: Shiho Miyano/Ai Haibara
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La prima volta

Spazio autrice


Ho iniziato questo racconto verso le quattro di notte e l'ho finalmente completato.
Io sono una fan della coppia ShinichixRan, da sempre, eppure ho sentito il bisogno di scrivere qualcosa su Ai e su ciò che prova per Shin. Ovviamente la coppia non è formata, sarà una specie di racconto post-organizzazione in nero. Mi è piaciuto calarmi nel suoi panni, è stato divertente “vedere” il rapporto AixShinichi da un punto di vista diverso e non solo come fan della coppia RxS. Detto questo, ringrazio chi ha commentato il mio precedente racconto su Ryou e Retasu
non avevo intenzione di sconvolgerti, spero tutto bene XD e anche chi legge ciò che scrivo.


Desclaimer: questa fic non è scritta assolutamente a scopro di lucro, tant'è vero che non ci guadagno niente dalla sua pubblicazione. I diritti di copyright non sono violati poiché i personaggi qui citati, meno che Juliette, non sono miei ma di Gōshō Aoyama e di chi ne detiene il copyright.

Detto questo, vi auguro una buona lettura e se volete lasciate una piccola recensione.
*S'inchina* Thanks.



La prima volta





Ai non aveva mai avuto paura di morire, aveva sfidato la morte troppe volte per potercela avere ancora: era scappata dagli “uomini in nero” ed era ancora viva, dopo varie avventure rocambolesche e sanguinolente— era riuscita a sopravvivere, s'era infiltrata nei laboratori, dove un tempo era stata tenuta prigioniera e aveva rubato tutti i dati sull'Apotoxin4869 in modo da creare un antidoto definitivo, dopo mesi di prova e tornare finalmente al suo aspetto originario... ed era ancora viva.
Aveva incontrato tante volte la morte ma era sempre riuscita a sconfiggerla, tornando ad avere una vita relativamente normale, proprio come aveva promesso a sua sorella prima che morisse. «Haibara? Ti vuoi muovere o no? Siamo in ritardo per il congresso!»
La dottoranda ventunenne sbuffò, togliendosi gli occhiali e poggiandoli —o per meglio dire lanciandoli— sopra la scrivania davanti a lei. Si massaggiò gli occhi, cercando di riprendere uso delle sue facoltà intellettive, ormai perse fra le mille pagine del libro di medicina generale. L'ultimo esame la stava mandano letteralmente al manicomio, in più i professori dell'Università che frequentava in America, avevano avuto l'idea —geniale secondo il loro punto di vista— di mandarli in Giappone in cui si sarebbe tenuto un congresso sulle nuove bio-tecnologie industriali, utilizzate a scopo medico in alcuni ospedali militari ma mai industrializzate per diversi motivi che sarebbero stati durante lo stesso congresso. La prima reazione della dottoranda fu d'imprecare in cinese, giapponese ed aramaico —cosa che in effetti avrebbe fatto ma solo dopo e specialmente quando sarebbe stata da sola— invece si limitò ad alzare gli occhi al cielo e a mugugnare un sarcastico “splendido”.
«Haibara! Sbrigati, sono stanca di chiamarti!»
La ragazza guardò n cagnesco la sua compagna d'Università. Pregò ogni Dio esistente che le conferisse la pazienza di cui aveva bisogno per non tramortirla con un bastone, caricarla sul primo volo —sezione animali, s'intende— per le Hawaii e tornarsene tranquilla in America a farsi gli affari suoi, come per esempio prepararsi per l'ultimo esame di medicina. Sospirò. Non aveva voglia di correre il rischio di riveder
lo.
Erano passati ormai due anni e mezzo dall'ultima volta che l'avevo visto, e d'allora aveva fatto di tutto pur di non tornare in Giappone eppure era stata costretta dai suoi professori perché lei “avrebbe portato onore e gloria all'Università”.
Avevano mandato a quel paese i suoi sforzi lunghi tre anni.
«Haibara!»
La ragazza si alzò dalla sedia, con un brontolio di disapprovazione. Recuperò gli occhiali dalla scrivania, il cappotto dalla sedia e la cartellina in pelle nera con fogli, fogliettini e post-it attaccati nella superficie interna. Le sarebbe servita durante il congresso, per prendere appunti et similia.

Dieci minuti più tardi, Ai e Juliette correvano per le vie affollate del centro di Tokyo, per poter arrivare il più velocemente possibile al palazzo dei convegni poco lontano dall'hotel in cui alloggiavano —per la precisione Juliette correva e Ai veniva trascinata, ma questi sono dettagli—. Juliette cinguettava tre parole in un secondo, aggiungendo qualche imprecazione ogni tanto che Ai riusciva a cogliere perfettamente rispetto al resto del discorso. Rallentato il passo, finalmente, la dottoranda riprese fiato per qualche secondo e fu in grado di riconoscere quella ridente cittadina che l'aveva ospitata per diversi anni prima che partisse nuovamente per l'America. Ecco, quello era il baretto dove lei e i ragazzi si riunivano per fare merenda. Appena usciti da scuola litigavano per quale dolcetto prendere mentre lei alzava gli occhi al cielo e borbottava parole che solo lui riusciva a sentire. Lì in fondo c'era la fumetteria-libreria in cui facevano capatina tutte le volte che potevano. I ragazzi si rintanavano nell'area manga mentre lui andava sempre nella sezione thriller e lei lo accompagnava. Si fermò in mezzo alla strada, scuotendo la testa. Ecco perché non voleva tornare in Giappone, ogni cosa le faceva ricordare quel maledetto ragazzino dagli occhi azzurri. Doveva smettere di pensarci, sarebbe stato meglio per tutti. Alzò gli occhi, giusto in tempo per vedere il palazzo dei convegni davanti a lei. Sbuffò, meno male ch'erano arrivate, da quel momento si sarebbe rintanata lì dentro e non ne sarebbe uscita se non dopo tre o quattro ore giusto in tempo per prendere l'aereo delle 19 per l'America e non mettere più piede in Giappone. Per non pensare più a lui...
«Shiho...»
Per un secondo, la dottoranda ebbe la malsana idea di lasciar correre ed entrare nel palazzo facendo finta di niente... in fondo quella voce poteva essere di chiunque, no? E per di più, di “Shiho” in Giappone c'è n'erano un'infinità, poteva benissimo star rivolgendosi a qualcun'altro, così imperterrita avanzò di qualche altro passo, sperando vivamente di non sentire più quella voce...
«Shiho?»
Ma no, la sua non poteva essere quella di qualcun'altro. L'avrebbe riconosciuta fra mille e forse era per quello che non voleva voltarsi. Rivederlo dopo tre anni sarebbe stato mandare al vento tutto il tempo passato per dimenticare.
«Shiho!»
La ragazza sospirò. Era ora di affrontare la realtà. Si voltò indietro, non potendolo più ignorare e per mezzo secondo le mancò il fiato. Eccolo lì... bello come l'aveva lasciato tre anni prima, i capelli arruffati, gli occhi da cerbiatto e il fisico asciutto e longilineo.
«Haibara? Andiamo?»
La voce di Juliette le arrivò improvvisamente molto lontana. Alzò una mano verso di lei, facendole un rapido cenno in modo da farle capire di andare avanti senza di lei. Juliette lanciò un'occhiata al ragazzo storcendo le labbra in una smorfia per poi proseguire verso l'interno del palazzo. Shinichi sorrise, avvicinandosi ad Ai che, invee, non mosse un solo muscolo. Fra tutti gli abitanti di Tokyo, proprio lui doveva incontrare?
«Hai mantenuto il nome che usavi qui...»
Disse, sorridendo divertito. Che aveva da ridere, pensava Ai. Per rispondere alla sua domanda annuì lievemente, cercando di essere più tranquilla possibile. Come al solito, insomma...
«Sarebbe stato più facile ricominciare da capo con un nome non collegato alla mafia giapponese, non pensi anche tu?»
Chiese, sarcastica, incrociando le braccia al petto e socchiudendo gli occhi. Era felice di risultare ancora la stessa ragazza cinica di sempre. Almeno evitava di fare la figura della fessa. Non poteva certo dirgli che aveva deciso di tenere quel nome per lui... quante volte l'aveva chiamata “Haibara”, sfottendola per quel suo atteggiamento scostante e perennemente ironico. Lui rise, allentando la tensione.
«Te ne sei andata senza salutare nessuno, l'ultima volta.»
Disse, buttandola lì come se fosse normale. Ai s'irrigidì, assottigliando gli occhi e fulminandolo con lo sguardo.
«In mezzo alle coppiette mi sentivo anche abbastanza fuori posto.»
Disse, schietta. Ai ricordava bene il momento in cui se n'era andata dal Giappone. Era riuscita a mettere le mani sui dati dell'APTX e a creare un antidoto definitivo dopo mesi di prove e, una volta riuscitasi e averlo somministrato e aver fatto tornare se stessa e Shinichi allo stato “normale” del suo corpo, aveva assistito alla dichiarazione di Shinichi e Ran, senza contare l'ormai affermata coppia del detective di Osaka e dell'amica d'infanzia... come si chiamavano? Hattori e Toyama o qualcosa del genere. Subito dopo era sparita dalla circolazione, dando un ultimo salito solo al professor Agasa. Sbuffò, spostando lo sguardo alla sua sinistra. Sentiva il rumore delle campane non molto lontane da dov'era lei... le quattro del pomeriggio, il congresso era iniziato da circa un'ora.
«Shiho... perché non hai salutato nessuno?»
Spostò lo sguardo su di lui. Si aspettava quella domanda ma, nonostante ciò, batté le palpebre più volte prima di articolare una frase. Si chiese cosa sarebbe successo se avesse detto quello che pensava davvero...
No, sai non sopportavo di vederti insieme ad un'altra ragazza così ho preso il primo aereo per New York e sono sparita. Sì, bella figura ci avrebbe fatto. Guardò Shinichi negli occhi, poi accennò ad un sorriso sarcastico.
«Sono tornata a casa, Kudo. Tutto qui.»
Bugiarda
, si disse. New York non era mai stata la sua casa, anzi, aveva sempre detestato quella città. Ma se si vuole scappare, quale miglior posto se non una vecchia abitazione a centinaia chilometri lontana dal posto da cui vuoi allontanarti? Stupidate, pensò storcendo le labbra.
«La settimana prossima io e Ran ci sposiamo.»
Per un secondo, Ai seriamente di aver sentito male ma, quando voltandosi vide il suo sorriso sghembo e il rossore che gli imporporava le guance, beh, Ai non poté più far finta di aver capito male. Shinichi si sarebbe sposato con Ran... magari in una bella chiesa, lei vestita di bianco con un lungo strascico di almeno tre metri... e lui, stupendo nel suo abito nero con una rosa bianca al posto del fazzoletto nella tasca sinistra dell'abito, proprio come quelle del bouquet di Ran. Le salì un forte groppo all'altezza della gola pensando che da quel momento in poi, anche volendo non sarebbe più potuta tornare indietro a riprenderselo. Scuoté la testa, insultandosi mentalmente.
Stupida, stupida, stupida non devi pensare a certe cose. Alzò gli occhi sul ragazzo, inarcando le sopracciglia... sembrava pensieroso su chissà quale questione, come se stessi pensando se agire o meno. Improvvisamente si avvicinò alla ragazza, posandole lievemente una mano sulla spalla. Bastò quel contatto per farle salire i brividi lungo la schiena. Proprio come tre anni fa... non era possibile. Non era possibile che dopo tre anni le suscitasse ancora quelle emozioni semplicemente sfiorandole la spalla con una mano.
«Io lo so.»
Gli occhi di Ai scattarono immediatamente su quelli di lui. Era imbarazzato, sorrideva ma era imbarazzato, come se tutto quel parlare fosse un gioco per lui.
Ai si sentì travolgere da una rabbia cieca. Sorrideva... ma che diavolo aveva da sorridere? Si stava per sposare! Si stava per sposare e gliel'aveva comunicato, pur sapendo che cosa? Tirò un colpo secco alla sua mano, facendogli sgranare gli occhi dallo stupore. Era stanca di mentire, l'aveva già fatto per troppo tempo. Voleva la verità? Voleva che glielo dicesse chiaramente? Bene, gliel'avrebbe detto, almeno forse si sarebbe tolto quel sorrisino idiota dalla faccia.
«Cosa pretendi di sapere tu? Non sai un bel niente.» 
Disse in tono astioso, prendendo gli occhiali dalla borsa e infilandoseli. Erano sempre stati una specie di protezione, anche in America. Lo scudo magnetico dei suoi occhi, che impediva alle lacrime di cadere e alle emozioni di allontanarsi troppo dal suo corpo. Shinichi sgranò gli occhi, allontanando la mano come scottato, come se avesse oltrepassato una barriera che non doveva oltrepassare.
Aprì la bocca per dire qualcosa ma non ne uscì nemmeno un suono. Rimasero fermi a guardarsi per dei secondi interminabili... secondi che parvero ore... ore che parvero giorni. Shinichi abbassò lo sguardo e Ai pregò con tutta se stessa che non dicesse più niente di quello che stava per dire. Non sapeva se avrebbe retto ancora...
«Ti va di venire al matrimonio? Ran sarebbe felice di vederti.»
Un altro colpo allo stomaco. In quel momento avrebbe volentieri tirato un cacio in testa a Shinichi, per farlo riprendere. Non sapeva se lo stava facendo apposta oppure non riusciva davvero a capire quanto la stava facendo soffrire in quel momento.
La storia del matrimonio l'aveva sconvolta e in più ora le chiedeva anche di parteciparvi. Nonostante tutto le veniva da ridere. Shinichi non era cambiato per niente: era una vera frana con le donne.
Shinichi accennò ad un sorriso, vedendola un po' più serena e lei non poté fare a meno di ricambiare con un ghigno serafico. Guardò l'orologio da polso e imprecò. Erano le quattro e mezza, la conferenza stava entrando nel vivo. Lanciò un'occhiata a Shinichi e poi al palazzo alle sue spalle.
«Vai, so che ti ho trattenuta fin troppo. Di certo non sei tornata in Giappone per me.»
Ai annuì lievemente. In realtà non aveva la minima voglia di andarsene. Voleva parlare ancora un po' con lui, dopo tre anni di separazione ma non poteva: altri stupidi impegni la trattenevano altrove. Lo guardò per un altro secondo, poi gli voltò le spalle e si avviò velocemente al palazzo.
«Ai!»
La dottoranda si fermò, di spalle senza voltarsi. Se l'avesse fatto molto probabilmente non sarebbe più entrata... e non poteva permetterselo.
«Ai, ti aspetto! Mi piacerebbe davvero che tu venissi al nostro matrimonio...»
La ragazza, prima di entrare alzò una mano, in segno di risposta poi oltrepassò il portone in legno e lo richiuse alle sue spalle.
Forse sarebbe andata, o forse no... sicuramente no.
Ai non aveva mai avuto paura della morte... eppure quella fu la prima volta che temé seriamente di non sopravviverle.

   
 
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