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Autore: Niglia    08/01/2010    2 recensioni
L'ennesimo racconto breve sulla solitudine, questa volta con tinte decisamente più fosche. Edgar Allan Poe è il mio musO, ma temo di non poter ambire ad essere paragonata a lui; per chi ama le dark novel con un briciolo di romanticismo, ecco a voi la triste storia di Beatrice...
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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copertina

***

 

 

 

L’altalena andava su e giù, su e giù, spinta dolcemente dal vento.

La catena cigolava sinistra, ma era uno di quei rumori fastidiosi all’inizio, a cui poi ci si abitua e di cui alla fine non si può fare a meno. Il gelo seccava la pelle delle mani e delle dita affusolate aggrappate alla catena, ma la giovane non se ne curava. Sussurrava a bassa voce e ad occhi chiusi una vecchia ninna nanna, di cui non rammentava le parole e di cui pertanto si limitava a canticchiare la melodia.

Il camposanto era deserto e silenzioso.

Beatrice, questo il nome della giovane, aveva sempre trovato bizzarra l’idea di un’altalena appesa ad un grosso ramo della quercia secolare del cimitero, ma essa esisteva sin da quando aveva memoria, e aveva finito per abituarcisi, come tutti del resto. Dopotutto, dubitava che potesse essere di disturbo ai defunti.

Non era la prima volta che andava a trascorrere pomeriggi interi nel camposanto. Era un luogo che non l’aveva mai turbata, al contrario, si era sempre sentita a suo agio, e la sensazione di quiete e pace che le trasmetteva quel luogo consacrato non l’aveva mai provata da nessun’altra parte. D’altronde, sapeva che i morti non le avrebbero mai torto un capello, a meno che, certo, lei non avesse fatto qualcosa per meritarlo. Ma era sempre stata rispettosa nei loro confronti, ogni volta che entrava nell’antico cimitero recitava una preghiera per tutti loro, e solo dopo si dirigeva tranquilla verso la sua altalena.

Non aveva mai incontrato nessuno prima di allora. Doveva forse essere l’unica ragazza che preferiva trascorrere il suo tempo libero nel cimitero dei Santi Innocenti, e non aveva mai avuto l’occasione di vedere anima viva. Forse perché i visitatori frequentavano solo la parte nuova e tralasciavano di andare in quella vecchia, dove ormai non veniva seppellito più nessuno da quasi un secolo.

Ad ogni modo, era quella la parte più bella e affascinante, a suo avviso. Qui si trovavano immensi mausolei come non ne venivano più costruiti, eretti fino a due secoli prima e con incisi i nomi facoltosi di antiche famiglie nobiliari che ormai si erano del tutto estinte. Sopra la maggior parte delle tombe si ergevano statue di angeli e madonne in lacrime, il cui sguardo era rivolto verso il cielo, eternamente in attesa della discesa dell’Angelo che li avrebbe accompagnati in un mondo migliore.

A onor del vero, Beatrice non trascorreva tutti i suoi pomeriggi a farsi dondolare dall’altalena. Aveva percorso in lungo e in largo il camposanto tante di quelle volte che ormai aveva imparato a memoria i nomi di tutti i defunti, e aveva scoperto che il primo ad essere stato seppellito in quella terra era stato un soldato francese del XVII secolo. Ultimamente aveva preso l’abitudine di portare con sé una piccola agendina nel quale segnava i nomi che leggeva sulle lapidi, e con questo sistema era riuscita a mettere insieme dei veri e propri alberi genealogici. Certo, era pur sempre possibile che due persone con il medesimo cognome non fossero necessariamente imparentate, ma era ad ogni modo interessante vedere come si evolvevano le varie famiglie.

Beatrice non aveva nessuno con cui condividere questi suoi passatempi. I suoi genitori erano morti in un incidente d’auto quando lei aveva solo quattro anni, e ormai rammentava a stento i loro visi. Era cresciuta da allora in un orfanotrofio, e aveva preso l’abitudine di sgattaiolare dal controllo delle suore sin da piccola, correndo a rifugiarsi al riparo dei cipressi che sovrastavano l’ultima dimora dei suoi genitori. Col tempo, aveva allargato il suo campo d’azione fino ad arrivare a stabilirsi definitivamente nella parte dell’altalena, e dato che ormai aveva diciassette anni, non era più necessario andarci di nascosto.

La sera di cui abbiamo parlato all’inizio era una sera di ottobre inoltrato, in cui il gelo riusciva a penetrare attraverso il pesante cappotto della ragazza e il vento scompigliava i suoi lunghi capelli biondi, che usava tenere sciolti sulle spalle. Non era ancora buio, ma i lampioni del camposanto erano già stati accesi da molto. L’altalena cigolava, sospinta dal vento, e tutto era tranquillo come al solito.

Ma poi qualcosa cambiò.

Il vento sembrò cessare bruscamente, e con esso anche l’altalena si fermò, rimanendo immobile. Da lontano provenne il verso acuto di una civetta e poi più nulla; il silenzio più totale.

Beatrice non si scompose, malgrado trovasse strano – curioso, in realtà – l’avvenimento. Si guardò intorno, incuriosita, portandosi dietro l’orecchio un ciuffo ribelle che non stava mai al suo posto, e rimanendo in attesa di qualcosa. Anche se neppure lei sapeva cosa aspettarsi. Dopo un po’ riprese a canticchiare, certa che non sarebbe accaduto nulla di eccezionale.

Quando, improvvisamente, ebbe la netta sensazione di non essere più sola.

Poggiato al tronco della quercia, come apparso dal nulla, si trovava infatti un ragazzo più grande di lei, ancora giovane d’età ma col volto segnato come se si fosse trattato di un adulto che aveva vissuto esperienze troppo grandi per lui. Tuttavia non era questo ad aver colpito Beatrice, quanto piuttosto il suo curioso abbigliamento: era vestito infatti come certi quadri del secolo scorso che aveva visto appesi all’orfanotrofio, i ritratti dei fondatori e così via. Indossava una giacca nera e un pantalone del medesimo colore, e attraverso la giacca aperta poteva vedere il panciotto color blu oltremare che portava sopra una camicia bianca. A completare il tutto era una sciarpa rossa che il ragazzo portava a mò di cravattino.

Beatrice lo osservò incuriosita, notando la carnagione pallida del ragazzo e la pupilla color porpora dei suoi occhi. Sembrava stare male, ma il sorriso che le stava rivolgendo sembrava solo essere stanco.

«Ciao,» esordì lei, senza scendere dall’altalena.

Il sorriso dello sconosciuto divenne appena più largo. «Buona sera,» rispose formale, con una voce profonda e gentile. «Disturbo?»

«Certo che no,» rispose lei, continuando a studiarlo. Era certa di non averlo mai visto prima di quel momento, ma decise di non fare domande che si sarebbero potute rivelare imbarazzati: forse il giovane aveva perso di recente qualche parente, altrimenti la sua presenza in quel luogo non si spiegava. E farglielo presente sarebbe stato poco cortese.

«Allora ne approfitto per presentarmi.» Si avvicinò piano a lei come se non volesse spaventarla e le porse la mano, che Beatrice strinse con un accenno di timidezza. «Il mio nome è Bartholomew Barker.»

«Beatrice Cecil.» Replicò lei, con un mezzo sorriso; le faceva sempre uno strano effetto presentarsi con il cognome dei suoi defunti genitori, ma dirlo ad alta voce sembrava avere il potere di spolverare la loro memoria. E il nome di quel ragazzo… Perché aveva l’impressione di averlo già sentito?

Lui non le diede il tempo di riflettere. «È un vero piacere fare la tua conoscenza, Beatrice.»

«La stessa cosa vale per me.» Tacquero, limitandosi ad osservarsi in silenzio con un accenno di sorriso sui loro volti; stranamente, la situazione non aveva nulla di imbarazzante. Al contrario, in cuor suo Beatrice era felice del fatto di non essere l’unica a preferire la quiete di quel luogo consacrato al resto del mondo là fuori.

«Ti ho vista spesso passeggiare da queste parti.» Riprese lui un po’ all’improvviso, infilando mollemente le mani nelle tasche dei pantaloni. «Non stai bene con i tuoi amici?»

Beatrice scrollò leggermente le spalle, non mostrandosi infastidita dalla domanda forse troppo personale: quel ragazzo le ispirava fiducia, e forse potevano essere più simili di quanto lei credesse.

«In realtà non ho mai avuto dei veri amici.» Replicò schietta, con un tono di voce piatto. «Preferisco venire qui tutte le sere, sai… È l’unico modo che ho per sentirmi ancora vicina ai miei genitori…»

«Sono certo che un giorno li rincontrerai.» Sussurrò con dolcezza, dopo averla osservata ancora a lungo.

Ella sospirò. «Forse…»

«Credo che per te sia davvero molto tardi, Beatrice…» Disse, dopo un ennesimo silenzio.

La ragazza annuì, sovrappensiero, dopodiché scivolò con grazia giù dall’altalena e si spolverò i pantaloni neri che indossava. «Si, lo penso anch’io. Suor Elena sarà preoccupata.»

Bartholomew sorrise debolmente. «Ti vuole molto bene, è normale.» Le si avvicinò, porgendole poi il braccio con un gesto di antiquata cavalleria. «Permetti che ti accompagni?»

«Ti ringrazio, si.» Portò la mano sotto il suo braccio, trovando un po’ di tepore e di riparo dal freddo pungente che aveva iniziato a farsi più gelido con l’avanzare della serata. Come suo solito aveva scordato di portarsi i guanti, che preferiva non avere perché la disturbavano quando sistemava i fiori nelle tombe dei suoi genitori, ma la prossima volta avrebbe dovuto ricordarsene.

Una volta che furono arrivati al cancello del camposanto, il ragazzo si fermò pochi metri prima. «Scusa, ma io… Non posso andare oltre.» Mormorò, osservando il lungo viale che si dipartiva dall’ingresso del cimitero.

Beatrice aggrottò le sopracciglia, voltandosi verso di lui. «Non puoi?»

Egli scosse ancora la testa, prima di abbassare lo sguardo e rivolgerlo su di lei. «No,» sorrise. «Non ho finito il mio giro… Non sono ancora andato a trovare i miei genitori, ed è stata una mancanza imperdonabile da parte mia. Lo farò adesso…»

«Ma non è tardi anche per te?» Domandò Beatrice, infilandosi le mani gelide nelle tasche del pesante cappottino che indossava. «E poi… Non ti da fastidio rimanere qui anche col buio?»

Ma Bartholomew scosse ancora la testa, senza riuscire a smettere di sorridere per un solo istante. «Oh, Beatrice… Non è dei morti che bisogna avere paura. Ricordatelo, loro non possono fare nulla contro di te…»

Un brivido le corse lungo la schiena, ma non sapeva se attribuirlo al freddo o ad altro. «Lo so… Lo dicevo solo per te.»

«Sei preoccupata per me?» Fece un passo avanti e le fu talmente vicino che avrebbe potuto abbracciarla semplicemente allargando le braccia, ma  non osò fare nulla di simile. «Ti ringrazio, davvero, ma non è il caso.» La sua voce si era ridotta ad un semplice sussurro.

Lei si limitò ad annuire, stringendosi ancora di più nel cappotto. Tremava di freddo, eppure ancora non voleva andarsene. Non voleva lasciarlo lì, da solo… E soprattutto, non voleva allontanarsi da lui. Un comportamento piuttosto strano e sconsiderato, dato che lo conosceva da pochi minuti.

«Allora vado…» Mormorò, osservando lo strano pallore della carnagione del ragazzo.

Fece per voltarsi e andare via, ma lui la trattenne per una mano. «Aspetta un attimo.» Le sorrise, avvicinandola a sé e lasciandola per trafficare con la sciarpa rossa che portava attorno al collo. «Stai tremando dal freddo… Tieni.»

Ma, invece di limitarsi a porgerle la sciarpa, gliela avvolse attorno al collo, indugiando deliberatamente a sfiorarle la pelle con un tenero sorriso. «Ecco, così va meglio… Vero?»

Beatrice annuì, leggermente sorpresa. «Si… Grazie,» rispose. «Allora… Ci vediamo?»

«Certo,» acconsentì lui, facendo un passo indietro. «Coraggio, vai ora. È molto tardi per te.»

La ragazza annuì ancora una volta e si voltò, raggiungendo l’immenso cancello in ferro del cimitero ed uscendo sulla strada, avvertendo improvvisamente, come tutte le altre volte, il pesante disagio che la assaliva quando si trovava fuori dal camposanto o dall’orfanotrofio. Poi si ricordò, come un lampo a ciel sereno, che non aveva salutato quel caro ragazzo! Così si voltò, aspettandosi di vederlo nello stesso punto dove lo aveva lasciato.

Ma di lui non c’era più nessuna traccia. Sparito.

Mortificata e delusa, Beatrice si incamminò verso l’orfanotrofio, accelerando il passo per non percorrere nel buio pesto quelle stradine disabitate. Chissà chi era quel ragazzo, e se l’avrebbe più rivisto… Un violento attacco di tosse le squassò l’esile petto, facendola bloccare in mezzo alla strada. Vi era abituata, ormai, ma la cosa non cessava di farle più male di una sola tortura. Era certa che sarebbe passata anche quella.

 

 

Da quel giorno, trascorsero numerosi giorni, settimane e mesi. Non era importante, in realtà, il tempo trascorso, quanto il fatto che da allora, ogni volta che andava a trovare i suoi genitori al cimitero, ella incontrava il ragazzo che le aveva regalato la sciarpa rossa, Bartholomew.

Egli si dimostrò essere ancora più dolce e gentile di quanto Beatrice avesse anche solo immaginato all’epoca del loro primo incontro. Nessuno dei due aveva mai saltato uno solo dei loro quotidiani appuntamenti, e anche se le origini di Bartholomew e la sua vita restassero ancora avvolte in un mistero che non aveva mai voluto chiarire, il ragazzo era diventato per Beatrice quanto di più vicino ci fosse ad un amico e un fratello. D’altra parte, non era importante chi fosse davvero o da dove venisse, per far si che la ragazza gli volesse bene.

Un giorno, tuttavia, Beatrice fu costretta a saltare l’incontro. Quella notte aveva avuto una delle sue solite crisi, ma era stata addirittura peggiore del solito; suor Elena e le sue compagne avevano davvero temuto potesse esserle fatale, ma fortunatamente la fece semplicemente svenire. Il dottore era stato chiamato in tutta fretta, e dopo averle somministrato una forte dose di tranquillanti e analgesici per far si che trascorresse il resto della notte in pace, se ne era andato. Era poi tornato di pomeriggio per vedere come stava la ragazza e per parlare con sorella Elena degli esiti degli esami del sangue che le aveva fatto fare. Sconsideratamente rimasero nella camera di Beatrice a discuterne, convinti che ella dormisse e che, pertanto, non potesse sentirli.

«Allora, dottore, ditemi… Che cosa dobbiamo fare?» Sussurrò la donna, in piedi accanto alla finestra con il dottore al suo fianco.

L’uomo sospirò, tristemente. «Vedete, sorella… Beatrice sta molto male… È sempre stata delicata di salute, e tutto questo suo aggirarsi fino a tardi nel cimitero non le ha sicuramente giovato… Fa molto freddo lassù, lo sapete…»

«Dottore, se dobbiamo spendere dei soldi per le sue cure, le assicuro che non sussiste alcun problema.» Lo interruppe suor Elena, decisa. «L’orfanotrofio non sarà una banca, ma grazie al Cielo il Signore fa si che non ci manchi mai nulla.»

Il dottore non ebbe quasi il coraggio di guardarla in volto quando le rispose. «Sorella, temo che le cure siano ormai del tutto inutili per lei…» Sospirò, poi la osservò mestamente. «La ragazza sta morendo. Ha la tisi.»

Suor Elena sussultò sconvolta, portandosi le mani alla bocca per soffocare un nascente grido disperato. La sua piccola bambina, la sua Beatrice… Stava morendo? Com’era mai possibile? E come poteva il Signore permettere che cose simili accadessero ad una povera creatura che non aveva nessun peccato a gravarle sulle spalle, se non quello di amare a tal punto i suoi genitori da rinunciare alla sua stessa salute pur di star loro vicino? Era inconcepibile, la povera donna non riusciva a crederci… Rivolse lo sguardo alla ragazza addormentata, pregando che non venisse mai a sapere una cosa simile, anche se sarebbe stato inevitabile dirglielo.

Ma Beatrice aveva sentito tutto, e non sapeva se piangere o esserne felice. D’altronde lei, al contrario delle sue compagne, non aveva mai fatto grandi progetti sul suo futuro, come se già sapesse – o intuisse – in cuor suo che non avrebbe mai avuto abbastanza tempo per poterli portare a termine. Inoltre, ciò avrebbe significato non dover attendere una vita intera per poter finalmente ricongiungersi con i suoi genitori: era stata cresciuta come cattolica praticante, infatti, e non nutriva alcun dubbio sul fatto di ritrovarli in un posto migliore.

Tuttavia… Un altro volto si sovrapponeva a quelli dei suoi genitori, ed era Bartholomew.

Se la malattia l’avesse uccisa, che ne sarebbe stato di lui? Il ragazzo era solo, infatti, sembrava non avere nessun altro – all’infuori di lei – con cui condividere i suoi sentimenti e i suoi pensieri, e l’idea di lasciarlo solo la riempiva di tristezza… E combattere non sarebbe servito a niente, come aveva ribadito il dottore, era solo una questione di tempo prima che lasciasse definitivamente questo mondo.

Le lacrime iniziarono a scorrerle copiose sulle guance, annebbiandole la vista e costringendola a mordersi le labbra per impedirsi di singhiozzare. Quando era con lui il tempo perdeva significato, era sufficiente che Bartholomew le prendesse una mano tra le sue, gelide, per farla sorridere e dimenticare tutte le sue pene… Non credeva di essere pronta a dire addio a tutto ciò che era stato, e tuttavia non poteva andarsene senza salutarlo un’ultima volta: chi poteva assicurarle che l’indomani mattina avrebbe fatto ancora parte del numero dei viventi? Decise tutto molto rapidamente: non appena suor Elena si addormentò sulla poltrona accanto al suo letto, Beatrice si alzò e si rivestì cercando di non produrre il più minimo rumore. Non prese i guanti, né il cappotto, malgrado fuori dalla finestra poteva vedere con chiarezza, grazie soprattutto alla luce della luna che illuminava tutto il paesaggio circostante, la neve che ricopriva la terra come un manto.

Prese invece la sciarpa rossa che le aveva dato Bartholomew al loro primo incontro, e dalla quale non si era mai più separata, serbandola con cura come se si fosse trattato di un portafortuna.

Quindi, dopo aver posato un leggero bacio sulla guancia di suor Elena, raggiunse la finestra e la aprì, tremando di fronte al gelo che entrò nella stanza. Come aveva sempre fatto da piccola quando voleva uscire di nascosto, si arrampicò sul davanzale e saltò sull’albero che si trovava esattamente in corrispondenza della sua camera, scivolando poi a terra con la destrezza dell’abitudine. Il cappotto le sarebbe stato solo d’impiccio per ciò che aveva appena fatto. Poi iniziò a correre, più veloce del vento, ignorando il gelo che la circondava e le ghiacciava le mani e il volto, con il solo pensiero di Bartholomew a darle la forza di continuare a correre.

E finalmente arrivò a destinazione.

La maestosa inferriata del camposanto si stagliava orgogliosa contro il cielo illuminato da una luna piena più splendente di quanto avesse mai visto, e solo allora rallentò, riprendendo fiato. Tossì, portandosi le mani alla bocca come di consueto, ma osservando inorridita il sangue che aveva macchiato la sua candida pelle. Con una smorfia le strofinò sui jeans e si avvicinò al cancello, iniziando a pensare a come scavalcarlo. Ma non appena lo sfiorò con una mano esso si spalancò davanti ai suoi occhi, aprendosi con un debole cigolio, e richiudendosi alle sue spalle quando lei fu ormai all’interno del camposanto.

Non aveva paura; nulla poteva mai essere peggio di quello che le riservava invece il destino.

Iniziò ad avanzare, ma non aveva fatto che pochi passi quando sentì una voce, una voce molto ben conosciuta, che proveniva da dietro di lei e che la stava chiamando. Si voltò e lo vide. Era lui, Bartholomew, come aveva sperato e pregato. Come poteva dubitarne? Ogni volta che aveva bisogno di lui, ecco che egli appariva, come per incanto, pronto ad alleviare il suo dolore… Ma questa volta sarebbe stato diverso.

Quando lui pronunciò il suo nome, in un tenero sussurro, Beatrice non resistette. Gli corse incontro, con le lacrime che diventavano ghiaccio sulla sua pelle, e si gettò tra le sue braccia aperte, riuscendo a farlo barcollare dalla foga che aveva messo nell’abbraccio. Singhiozzò da spezzare il cuore mentre lui le accarezzava i capelli, cercando di tranquillizzarla.

«Cos’è successo?» Mormorò, senza smettere di accarezzarla.

Lei sollevò la testa dal suo petto, fissandolo con lo sguardo colmo di lacrime. La voce le tremava quando gli rispose. «Sto morendo, Barholomew… Sto… Sto morendo…»

Egli aggrottò le sopracciglia, con un’espressione devastata che lei non aveva immaginato. «Non pensavo che sarebbe stato così presto…» Lo sentì sussurrare, mestamente.

«Cosa vuoi dire?» Replicò la ragazza senza capire, allontanandosi da lui. «Che significa?»

Ma Bartholomew si limitò a scuotere la testa, avvicinandosi nuovamente a lei e prendendole la mano. «Vieni con me, Beatrice…» Rispose. «Non avere paura… Vieni con me.»

Come poteva opporsi? Non era forse andata per vedere lui? Malgrado la sua reazione non fosse quella che si era immaginata – e che aveva temuto – lo seguì, mano nella mano, cessando improvvisamente di piangere. Aveva compreso dove lui la stesse portando, anche se non aveva capito il perché.

Fu quando arrivarono al luogo in cui erano sepolti i suoi genitori che si voltò verso di lui e gli chiese spiegazioni. «Cosa c’entra tutto questo? Perché mi hai portato qui?»

Stranamente, lui le rivolse uno strano e mesto sorriso. «Chiudi gli occhi, Beatrice…»

Lei scosse ancora la testa. «Non capisco…!» Insisté.

Bartholomew sospirò e le posò una mano sugli occhi, stupendola quando lei sentì che anche la pelle del ragazzo era calda, malgrado solo qualche attimo prima fosse più gelida della neve che li circondava.

«Chiudi gli occhi,» ripetè. «Non avere paura…»

Rimasero in attesa, silenziosi, per una buona manciata di minuti, durante i quali Beatrice ebbe l’impressione di sentire che il vento aveva cessato di soffiare e che le civette, che aveva udito fino a poco prima, adesso tacevano rispettosamente. Poi, Bartholomew le tolse la mano dagli occhi, rivolgendole un sorriso talmente tanto triste che le lacrime tornarono a pungerle gli occhi.

«Cosa…?» Mormorò, avvicinandosi a lui. Ma egli scosse piano la testa e le indicò un punto alle sue spalle, invitandola a voltarsi verso la tomba dei suoi genitori.

Non poteva certamente farle male e, incuriosita, diede le spalle al ragazzo. E allora tacque, come impietrita, quando si ritrovò ad osservare due paia di occhi identici ai suoi, i suoi stessi boccoli, le sue labbra, il suo stesso sorriso, sui volti di due persone che ormai non vedeva da tempo.

I suoi genitori.

Questa volta, impedire alle lacrime di scendere fu impossibile.

Stava sognando? E se davvero tutto questo era un sogno, perché il calore del corpo di sua madre che stava abbracciando le sembrava così vivido e reale, e il sorriso che le stava rivolgendo suo padre era il più dolce che avesse mai visto, o che si potesse ricordare, sul suo volto? Sua madre era vestita allo stesso modo di quando avevano avuto quel terribile incidente, e così pure suo padre: ma la loro espressione e lo splendore che sembravano emanare era troppo surreale e tangibile per far si che si trattasse di un mero sogno notturno.

Ad un certo punto, sentì suo padre rivolgersi a Bartholomew. «Ti ringrazio per come ti sei occupato di lei nel frattempo, giovanotto.» Perché la sua voce era così profonda e ultraterrena, come se non appartenesse a questo mondo? E che significato avevano le sue parole?

«Si, Bartholomew. A noi non era permesso farlo, e ti ringrazio con tutto il mio cuore per esserti preso cura della mia bambina.» Aggiunse la madre, stringendo al petto Beatrice che spostava il suo sguardo dal suo amico ai genitori e viceversa. Continuava a non comprendere…

«Mamma, io sto morendo…» Le confidò piano, avvolta nel suo abbraccio. «Vorrei tanto venire con voi, ma non voglio lasciare solo Bartholomew… Non c’è nulla che possiate impedire perché ciò non accada?»

La donna la osservò mestamente eppure con uno strano sorriso sulle labbra. «Non spetta a noi prendere simili decisioni, bambina mia.»

«Noi siamo solo venuti per portarti via.» Terminò il padre, allungando una mano per sfiorarle i capelli. «Oh, vedere la donna che sei diventata mi riempie di gioia… Il tuo tempo non sarebbe dovuto giungere così presto, ma hai sofferto abbastanza.»

Beatrice scosse lentamente la testa, voltandosi poi verso il ragazzo. «Il mio tempo? Ma di cosa stanno parlando, Bartholomew?»

Il ragazzo la guardava disperato, senza sapere cosa risponderle. Spostò il suo sguardo sui genitori di Beatrice, chiedendo loro aiuto con una muta preghiera.

Fu la madre a venire in suo soccorso. «Sapevamo che un giorno saremmo stati ancora insieme, tesoro. Durante tutto questo tempo ti siamo stati vicini, ma non potevamo intervenire in alcun modo nella tua vita… Non ci è mai stato permesso. Mentre Bartholomew, vedi Beatrice… Anche lui è un’anima, come noi, ma purtroppo non ha mai visto la Luce, ed è per questo che ha potuto aggirarsi nel tuo mondo indisturbato, e prendersi così cura di te in quest’ultimo periodo.»

La ragazza aggrottò le sopracciglia, ancora più confusa. Si rese vagamente conto di non provare freddo malgrado fosse circondata dalla neve e non indossasse pressochè nulla, come se la vicinanza dei suoi genitori la riscaldasse. Ma non lo trovava molto importante: ciò che davvero le premeva era sapere se avesse dovuto dire addio per sempre a Bartholomew, il suo caro Bartholomew, o se egli fosse andato insieme a lei, in qualunque luogo lei sarebbe dovuta finire.

Come se avesse intuito i pensieri che le passavano per la mente, il giovane sorrise con mestizia, scuotendo piano la testa. «Beatrice, mi dispiace così tanto… Forse non avresti dovuto affezionarti a me, visto che non potremo mai più vederci…»

Si avvicinò a lei, posandole poi un dito sulle labbra per impedirle di ribattere in alcun modo. «Ascolta bene quello che sto per dirti, Beatrice, perché purtroppo potrò dirlo una volta sola…» Sussurrò, con una dolcezza avvelenata da un dolore che la ragazza ancora non comprendeva. «Io sono un’anima dannata… No, aspetta, lasciami spiegare.» Aggiunse, vedendo la sua espressione sconvolta. Poi proseguì. «Non riesci a vedere la differenza tra me e i tuoi genitori? Loro possono riposare finalmente in eterno adesso che ti hanno ritrovato, mentre io… Oh, probabilmente questa sarà la mia peggiore punizione, sapere di dover trascorrere il resto dell’eternità senza te al mio fianco…!»

Beatrice non potè trattenere le lacrime, mentre iniziava lentamente a comprendere la situazione. Aveva letto qualcosa in proposito, anche se non ricordava il dove né il quando, sull’esistenza di spiriti condannati a vagare sulla terra fino alla fine dei tempi, per saldare una pena che risaliva a chissà quanto tempo prima. E se davvero era quella la verità, allora era forse meglio non averla mai scoperta! Perdere Bartholomew avrebbe significato trasformare i Campi Elisi nel più terribile degli inferni, malgrado la dolce e rassicurante presenza dei suoi genitori al suo fianco…

Improvvisamente sentì l’aria mancarle dai polmoni, e nell’ardente sforzo di respirare crollò in ginocchio, sputando sangue dalle labbra immacolate. Ecco, lo sapeva, la sua fine era vicina… E non poteva fare nulla per evitarlo, per prolungare la sua permanenza al fianco del giovane spirito che sembrava amarla almeno la metà di quanto lo amava lei!

Le lacrime si mischiarono al sangue mentre sollevava il capo per rivolgere uno sguardo disperato al ragazzo, che si era precipitato al suo fianco per stringersela al petto in un ultimo abbraccio.

«Vieni con me…» Balbettò lei, aggrappandosi alla giacca di antica foggia di Bartholomew. «Non andare via… Non lasciarmi…»

«Non… Non posso…» La sua voce tremava, straziante, ma potevano gli spiriti piangere?

Uno strano calore sulla spalla la fece voltare, e Beatrice incontrò così lo sguardo comprensivo ma risoluto del padre. «È tempo di andare…» Sussurrò.

Lei scosse con forza la testa, stringendosi ancora di più al ragazzo. «No!» Gridò debolmente, tra le lacrime. Ma sentiva di non poter più opporsi a quel richiamo, ormai avvertiva le forze abbandonare il suo corpo, mentre il respiro si faceva più lento e difficoltoso.

Bartholomew le fece voltare il capo verso di sé, sorridendole tra quelle che sembravano lacrime. «Non voglio che tu soffra…» Mormorò, piano.

Poi posò dolcemente le labbra gelide su quelle di Beatrice, assorbendo il suo dolore e riuscendo a farla sospirare di piacere nell’attimo subito precedente alla morte.

L’istante dopo la vita defluì dal suo giovane corpo.

 

 

Quando la mattina dopo l’anziano custode del camposanto andò a fare il suo consueto giro tra le tombe, per controllare che durante la notte non fosse entrato nessun delinquente a profanare quel luogo sacro, trovò il corpo di una ragazza accasciato sull’erba, accanto ad una tomba. Non osò toccarlo, e corse a chiamare aiuto.

Fu suor Elena, più tardi, a riconoscere tra le lacrime la sua cara Beatrice. Se il medico non si fosse accertato della mancanza del battito cardiaco, la donna avrebbe potuto giurare che la giovane stava semplicemente dormendo, tanto era serena l’espressione del suo viso. Come se l’avessero portata via gli angeli. Notò, senza nessun particolare interesse, che la piccola non indossava la sua amata sciarpa rossa, e quando si fu rammentata dell’importanza che essa aveva per lei, si affannò a cercarla, certa che l’oggetto si dovesse per forza trovare nei dintorni.

Si allontanò dalle due tombe e, prima che se ne rendesse conto, fu nei pressi della grande quercia alla quale era ancora appesa l’altalena. Non osò avvicinarsi per chissà quale sorta di sacro timore, e rimase lontana, ad osservarla.

Suor Elena giurò per il resto della sua vita di aver visto, quel giorno, due angeli apparire e giocare sull’altalena, silenziosi, ma con delle espressioni talmente felici da farle credere che i due stavano sicuramente comunicando tra loro. Ribadì più volte, facendosi il segno della croce, che l’angelo seduto sull’altalena era la sua adorata Beatrice, i capelli sciolti sulle spalle come l’ultima volta che l’aveva vista, e una sciarpa rossa ad avvolgerle il collo. L’altro, indubbiamente un essere maschile, la spingeva da dietro, ma la donna non lo riconobbe. Addirittura era certa di aver visto la fanciulla voltarsi verso di lei e sorriderle, prima di svanire entrambi come un sogno nell’illusione che non fossero mai esistiti.

Nessuno le credette mai.

 

 

Note dell'Autrice:

Una storia alquanto triste... Sinceramente non so cosa pensarne, ma l'ho pubblicata per sapere se è il caso di appendere la penna al chiodo e dedicarmi al giardinaggio. ;) Spero che vi sia piaciuta, ad ogni modo! Avvertenze? Da non leggere prima di andare a dormire! Un abbraccio :*

   
 
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