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Autore: _Nimpha_    08/01/2010    2 recensioni
Ora, seduto su quest’erba, non so se ridere o se piangere. Non so se ridere di me, o piangere per te. Non so se dovrei ridere della mia stupidità. La stupidità di un innamorato, un innamorato che ti paragona all’oceano dopo due secondi che t’ha conosciuto e che dopo quasi vent’anni non ha ancora cambiato idea. O se dovrei piangere per la mancanza di coraggio, la mancanza che m’ha accompagnato per tutta la vita, la mancanza che m’impedisce di raggiungerti, la mancanza che m’ha impedito in quei pomeriggi di chiedertelo. Chiederti cosa provasti in quel momento. Per paura di dover leggere nei tuoi occhi pietà e compassione. Paura che mi volessi bene ma non abbastanza. Ma nemmeno ora, dopo anni, sapendo che non mi risponderesti te lo chiederei… per me questo è l'amore. dolore. frustrazione e pazzia. la mia storia d'amore. perfetta nel dolore. buona lettura. lasciate qualche commento...:)
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Stuck by this River.

 

Con te mi sembrava di giocare un'infinita partita a poker con le carte scoperte. Tu sapevi tutto di me, ma io non ti conoscevo; non sapevo cosa dovevo leggere in quei tuoi occhi, non sapevo chi eri, da dove venivi per quale strana ragione, non avevi mai parlato o per quale motivo avevi smesso di farlo, non sapevo il tuo nome, non sapevo nulla di te, questo mi confondeva, mi faceva male e mi faceva paura.

Sai, oggi come allora ho paura, forse è una paura diversa, ma ho paura. Ho paura di scoprire che la donna che ho incontrato tanti anni fa non sia mai esistita, la donna di cui mi sono innamorato sia stata tutta un’invenzione, una mia invenzione per sentirmi meno solo, meno di come mi sento ora.

 

Mi chiedo se ora mi guarderesti in quel modo strano, quello che non ho mai capito, non l'ho mai capito perché in quello sguardo non sapevo proprio cosa leggere, mi chiedevo se quegli occhi chiedevano di smetterla di parlare o se in questo caso avrebbero avuto paura, paura del fatto che ho paura, in fondo speravo che in quegli occhi si nascondesse la paura di perdermi, ma non c’ho mai sperato troppo.

 

In ogni caso, non me ne andrò, anche se ci provassi, non ci riuscirei,non ci riuscivo allora a staccarmi da te e non ci riuscirei nemmeno oggi; anche se non mi parlavi e a volte sembrava che nemmeno mi ascoltassi mi saresti mancata.

 

Mi sarebbero mancati i tuoi cambiamenti di umore. Lo scintillio nei tuoi occhi quando me ne andavo,il tuo respiro regolare,il battito veloce del tuo cuore,le tue mani fredde e un’pò arrossate. Mi sarebbero mancati i tuoi accenni di sorriso quando dicevo una cosa sciocca, mi sarebbero mancati i tuoi occhi infiammati quando dicevo qualcosa che non ti piaceva, mi sarebbe mancato l’arrossarsi leggero e quasi remoto delle tue guance quando anche per caso ti sfioravo, mi sarebbero mancati questi pozzi grigi che ogni volta mi investivano con la loro potenza e mi costringevano a raccontarti quant’era inutile e frustrante la mia vita di studente.

 

Forse non te ne sei nemmeno accorta di quanto fossi importante per me. Tu e i tuoi occhi eravate l’unica finestra su un mondo nuovo e sconosciuto che mi faceva sentire ancora vivo.

 

Oggi, come allora, quando arrivo a casa, mi distendo sul divano e chiudo gli occhi. Ti sembrerò un pazzo, ma ti sento ancora, vicino a me, sento quell’odore di more che ho imparato ad amare standoti vicino. Lo sento sempre quel tuo profumo, lo porto con me tutti i giorni. M'immagino anche i tuoi lunghi capelli, anzi dire che li immagino è sbagliato,io li sento su di me.

Come quel giorno, lo ricordo ancora nitido nonostante siano passati tanti anni, eravamo seduti sulla nostra panchina e io parlavo, parlavo senza mai prendere fiato, e ti raccontavo la mia giornata, le mie storie e le mie avventure, con un ardore che trovavo solo con te. Quando, poi, come per zittirmi ti sei avvicinata e hai appoggiato il tuo viso scarno esattamente al centro del mio petto, all’inizio stupidamente pensai che volessi sentire se il mio cuore batteva e se respirassi normalmente,ma poi capii, sentii che volevi starmi vicino. Sentii che ne avevi bisogno.

Quella fu l’unica volta che non ebbi il bisogno di guardarti negli occhi per capire ciò che volevi, ti strinsi come non avevo mai fatto, ti strinsi cosi tanto da aver paura di farti male.

Ed è così, in quella posizione che ti immagino quando mi manchi. Vedo quei fini capelli dorati. Dorati ma spenti, belli ma spenti, come te. Forse un tempo erano stati di un biondo dorato ma in quei giorni erano spenti, come spenta eri tu d'altronde…

 

Mi capita spesso di sognarti sai? E spesso li vedo i tuoi capelli, ne sento l’odore, li sento su di me,ma non appena provo ad accarezzarli la magia si rompe svanisce  e mi rendo conto che non ci sei più, che mi hai abbandonato.

Mi hai abbandonato. Come si abbandona un cane in autostrada, stavi scappando, scappando dalla tua vita e non mi hai voluto con te.

Fa male. Fa male sentirsi soli. Fa male pensare a quanto mi manca il tuo silenzio e quanto vuota mi sembra la vita da quel giorno.

Sai, ci sono tornato spesso su quella panchina, su quel marciapiede ti ho cercato, ti ho aspettato per ore, giorni.

Non sei più tornata.

 

 

Una volta, anzi l’ultima volta che ci sono andato, mi è sembrato quasi di sentirti, ho sentito il tuo passo un’pò strisciato passare due o tre volte davanti alla nostra panchina. Come facevi prima di incontrarmi. Non solo ti sentivo, ti percepivo e forse in qualche modo ti vedevo camminare con il tuo sguardo perso.

C’era il sole, un sole caldo, il sole che ti piaceva tanto e quel giorno illuminava e scaldava me.

Mi scaldava e mi svegliava come si sveglia la natura a marzo.

Quel sole mi ha svegliato. Avevo bisogno che qualcuno lo facesse.

A quel punto era vero.

Non c’eri e non saresti più tornata.

Ad un tratto, non so in che modo, quel sole smise di scaldare, smise di illuminare e la nostra panchina sparì. Non l’ho più voluta vedere.

 

L’altra notte ti ho sognata. Anzi t’ho rivista. Ho rivisto il nostro primo incontro. Ed ho avuto la sensazione che volessi dirmi qualcosa, ma proprio non sono riuscito a capire cosa.

Forse non lo sai ma quello era il mio primo giorno all’università, ma il mio senso dell’orientamento mi aveva portato dalla parte sbagliata o almeno quella che pensavo fosse la parte sbagliata, erano le nove quando ho messo piede sul tuo marciapiede. Ti guardai ma non ti vidi.

Su quella strada, sembravi l’unica a non avere fretta, te ne stavi lì con gli occhi bassi a camminare lentamente mettendo accuratamente un piede di fronte all’altro,fu per quello che ti notai, quando ti vidi provai una strana sensazione come d’inadeguatezza,ma attirato da una forza superiore, mi avvicinai e ti chiesi qualcosa, probabilmente qualcosa di futile,e tu mi guardasti, quasi stupita.

Quando ti fermai però, non ti guardai, ti stavo accanto guardandomi in giro sperando in una risposta rapida, che però non arrivava.

Ora, mi fa ridere, ma ero terribilmente timido.

E mentre tu tacevi, sentivo il tuo sguardo curioso su di me, ma non riuscivo a guardarti.

Mi sentivo come in trappola, è strano da dire, avevo paura di guardarti, come quando di notte, da bambino, avevo paura del buio, ma allo stesso tempo avevo paura di non farlo, paura di perdermi un opportunità, di girare le spalle al destino. La curiosità e il destino, quel giorno, vinsero il buio e alzai lo sguardo e tu mi guardasti.

In quell’istante un brivido, non so come definirlo, mi attraversò la schiena. Non avevo mai provato una cosa simile, non so dirti se fu piacevole, ma allo stesso tempo, in qualche modo fu doloroso, un dolore mentale, una dolorosa consapevolezza mi attraversò la mente nello stesso istante in cui quel brivido mi percorse la schiena.

Strano è l’unico aggettivo che so dare a quel momento. Fu strano tuffarmi nei tuoi occhi, fu come annegare. Annegare. E annegando persi una parte di me che non ho più trovato. Forse è assurdo dirlo ma in quel momento la persi, la sentii staccarsi con uno strappo sordo. Diventai adulto in quel momento, vidi com’è il mondo davvero, nei tuoi occhi. Vidi la sofferenza e il dolore. Vidi sgretolarsi i sogni e le avventure dei bambini. Vidi le nuvole e il cielo. Vidi solitudine e disperazione. Annegai. Tra il semplice incontrarti e il mio sbattere di ciglia, annegai in quel turbinio di emozioni ed ebbi paura.

 

L’oceano mi fa lo stesso effetto. Mi fa sentire... impotente. Piccolo. Insignificante. Frustrato. Ho sempre la sensazione che ci sia qualcosa che mi sfugge, un segreto lontano, una tragedia nascosta, una leggenda da scoprire, creature mai viste, sogni e regni lontani.

 

Ora, seduto su quest’erba, non so se ridere o se piangere. Non so se ridere di me, o piangere per te. Non so se dovrei ridere della mia stupidità. La stupidità di un innamorato, un innamorato che ti paragona all’oceano dopo due secondi che t’ha conosciuto e che dopo quasi vent’anni non ha ancora cambiato idea. O se dovrei piangere per la mancanza di coraggio, la mancanza che m’ha accompagnato per tutta la vita, la mancanza che m’impedisce di raggiungerti, la mancanza che m’ha impedito in quei pomeriggi di chiedertelo. Chiederti cosa provasti in quel momento. Per paura di dover leggere nei tuoi occhi pietà e compassione. Paura che mi volessi bene ma non abbastanza. Ma nemmeno ora, dopo anni, sapendo che non mi risponderesti te lo chiederei…

 

Non ricordo cosa accadde dopo, cosa feci per staccarmi dal tuo sguardo ed ad abbandonare quel marciapiede, non ricordo, ma indelebili nei miei ricordi ci sono il nostro secondo incontro, quello dopo e quello dopo ancora…è sconvolgente il fatto che di quegli anni di università i miei ricordi comprendano solo i pomeriggi che passavo con te, come se il mio cervello abbia voluto cancellare i ricordi irrilevanti.

Tutto ciò che ricordo sono i nostri pomeriggi, i miei racconti, i tuoi occhi, le tue espressioni, l’albero davanti alla nostra panchina , lo scorrere costante del fiume verso il mare e il cielo.

 

Ti ricordi quella notte sul ponte?  La prima notte che passammo insieme, pioveva, ma tu non volevi proprio andare a casa, da quando t’avevo raccontato delle “lacrime dalla luna” avevi uno sguardo strano, era così diverso dallo sguardo rassegnato e passivo che la maggior parte del tempo dominava sul tuo volto, era uno sguardo pieno di aspettative, così bello che ti faceva sembrare molto meno spenta del solito.

La prima volta che ti vidi ridere di gusto fu quando uscisti da sotto i portici e corresti sotto la pioggia e con il viso volto verso il cielo ridesti e forse piangesti.

Quella notte qualcosa si sciolse tra noi,cadde tra le stelle cadenti un grande muro.

Cadde dentro me e dentro te. Mi avvicinai e ti guardai e vidi la luna come non l’avevo vista mai, sembrava una perla nei tuoi occhi grigi.

In quel momento mi venne voglia di gridare, gridare al mondo che ero felice della mia vita con te e avrei voluto ringraziare Dio del dono che m’aveva fatto.

 

Ci credevo che sarebbe durata. Ci volevo credere, ci dovevo credere per vivere, dovevo sperare che saresti rimasta per sempre.

Devi capire che mentre ti guardavo bere quelle gocce d’agosto speravo che saresti rimasta così per sempre con il tuo viso magro illuminato da un sorriso vero, un sorriso pieno e felice. Un sorriso che sembrava liberarti in un momento di un peso di anni. Sembravi una bambina con i capelli tutti bagnati attaccati al viso, il tuo vestitino blu ormai sembrava nero e faceva un effetto così strano sulla tua pelle candida,assomigliavi ad un angelo ma in un modo diverso dal solito. Non più l’angelo rassegnato o l’angelo triste che aspettava;  No, eri un angelo felice. Non so come descriverti ma eri un angelo, i tuoi occhi in quel viso illuminato erano ancora più grandi ed erano più chiari del solito. La luce di quel lampione mi faceva vedere tutte le gocce, nitide, mentre ti cadevano addosso e ti scivolavano sulle spalle, sulla schiena, ad un certo punto ebbi paura che ti facessero male, e così mi avvicinai. Ti vidi tendermi la mano come ero solito fare io e nell’istante in cui io ti porsi la mia, tu la stringesti e mi tirasti vicino a te, sotto la luce. Vederti così bella e libera mi fece quasi sentire leggero,ti abbracciai dolcemente e ti sollevai da terra, arrossisti, davvero, e quel fatto involontario che tentasti di nascondere come una bambina mi fece sentire ancora più felice, risi, anzi probabilmente sogghignai e tu la prendesti come una sfida, ti avvicinasti e i nostri occhi si incatenarono,vedevo il blu dei miei occhi nel tuo grigio perla e mi si blocco il respiro, quella volta sogghignasti tu facendomi sentire un ragazzino e inaspettatamente togliesti tutte le distanze e in un attimo sentii le tue labbra sulle mie, erano calde come mai avrei osato immaginare,fu l’unico vero bacio della mia vita ,fu la prima e l’ultima volta che mi sentii percorrere la schiena da un fremito, fu come una doccia gelida ma poi sentii le tue braccia sul mio collo le tue mani tra i miei ricci e la tua vita tra le mie e mi sentii al sicuro da tutto, mi sentii a casa, in famiglia, quegli attimi sono stati i più lunghi e i più belli della mia vita, se ora ci penso sento ancora il tuo calore cosi umano, cosi dolce.

Li capii che anche tu mi amavi, dall’espressione beata che avevi, dal luccichio perenne nei tuoi occhi. Anch’io ti amavo sai. Più di ogni altra cosa. Ti amo. Più di ogni altra cosa.

 

Da quel giorno le cose cambiarono eravamo l’uno la famiglia dell’altro, tu eri tutto ciò che avevo d’ importante al mondo, e so che per te era lo stesso. Passare i pomeriggi con te era come vivere una favola, me ne stavo spesso disteso con il capo sulle tue gambe fragili e ti osservavo,forse è stupido ma dal basso eri ancora più bella, forse perché i tuoi occhi non mi incatenavano e io potevo guardarti tutta, la tua pelle,il tuo giovane viso. Fissavi dritto davanti a te senza mai dire una parola. Così ogni tanto seguivo i tuoi occhi e guardavo il vecchio albero davanti a noi.

Come te quel pesco, stava fermo e osservava il mondo e il suo muoversi frenetico, cercando di non cambiare mai, di non farsi coinvolgere. Allo stesso tempo nella sua immobilità c’erano dei piccoli cambiamenti, l’invecchiarsi della corteccia, o l’annidarsi dei passeri e delle rondini, il fiorire, il nascere dei frutti, il maturare, il marcire, l’appassire, il cadere delle foglie e poi il vuoto.

 

Era come se cambiasse inconsapevolmente, e involontariamente, come se fosse costretto da qualcun altro ad evolversi come se una forza superiore lo costringesse a vivere. Come te. Lo capisco solo ora.

 

C’erano giorni in cui adoravo guardarti dal basso, e vedere le tue espressioni mentre mi ascoltavi e rielaboravi consultandoti con quel tuo inconsapevole amico, mi piaceva perché spesso ci leggevo delle risposte e poi le ingrandivo, le inventavo e continuavo imperterrito a parlare da solo. Mentre parlavo però avevo la consapevolezza che tu mi stessi ascoltando che stessi assorbendo i miei sogni e le mie innumerevoli speranze.

In altri invece che osservarti guardavo il cielo, spesso lo guardavo ma non lo vedevo, in alcuni giorni l’osservavo con un’attenzione quasi maniacale con la paura di perdermi anche il minimo particolare come se quel cielo fosse la cosa più importante della mia esistenza, forse in quel momento era così. Mentre mi perdevo in quel mondo lontano mi sembrava davvero di essere su un astronave,sul la nostra astronave, e allora il mio cinismo spariva e ci credevo. Ci credevo alle leggende che imparavo ad esplorare all’università e in quei momenti solo nostri te le raccontavo interpretandole e sentendole davvero, vive e presenti tra noi, ti raccontavo di mostri e magia, di intrighi e guerre, di regni e tiranni, di draghi e di creature estinte, di maghi, di Dei innamorati di semplici umani e di Ulisse e le sue imprese, di Circe e Penelope, di Troia, delle chimere, dei ciclopi, delle sirene,del mare, dei venti e delle tempeste…

 

Da quando te ne sei andata questo è il mio mondo il mondo che mi permette di scappare dalla solitudine, che mi permette di vivere in un altro tempo in altre epoche. Mi permette di vivere le vite d’altri, mi permette di non pensare all’astronave , ma allo stresso tempo di esserci dentro ogni giorno e sai, quando lavoro su l’Odissea penso sempre al tuo sguardo intenso e avido di sapere. Il mio cinismo te lo sei portato via tu,grazie, perché se non l’avessi fatto ora non sarei qui… a inventarmi la mia di leggenda.

 

 

Ci sono giorni in cui è vero che non ci sei, giorni in cui è reale, è sopportabile il fatto che sei salita sul punto più alto del ponte, del nostro primo bacio, e ti sia lanciata giù.

Ti sei lasciata cadere, mentre il vento ti scompigliava i capelli. Come un’attrice. Ma quel giorno, quello che nei film hollywoodiani salva lo squilibrato che decide di buttare via tutta la sua vita con un salto, non c’era. Chissà dov’era o meglio chissà chi era, forse ero io, ma quel pomeriggio non c’ero.

Ero sulla nostra panchina, poco lontano dal ponte, ti aspettavo ma sentivo che c’era qualcosa di sbagliato nel vento di quel giorno, sentivo che il fiume mi chiamava, ma non m’importava, nulla m’importava se non c’eri tu a farci luce sopra…Dimmi, ti avrei salvato? Se fossi venuto ti avrei salvato? Se avessi aperto gli occhi in tempo saresti sopravvissuta a quel pomeriggio? Saresti invecchiata con me? Ma la risposta in quei giorni è sempre, no.

No,perché per quanto io fossi importante per te, non sarebbe bastato il mio amore per farti tornare la voglia di vivere. Probabilmente sarebbe stato più difficile, ma avresti saltato comunque.

E in quei giorni mi basta, il dolore si trasforma in rassegnazione e quest’ultima in tristezza e a qual punto solitamente prendo un sonnifero, prima che il tutto si trasformi in depressione per l’infinito senso d’impotenza e di statica e fastidiosa indifferenza.

 

Altri sono i giorni in cui il solo pensiero è intollerabile. In quei giorni, è insopportabile. Il solo pensiero dell’acqua che ti entra nei polmoni e ti soffoca e che ti prende, ti incatena e ti costringe al buio è inconcepibile, il dolore che provoca in me la tua immagine esanime nell’acqua sporca del fiume è incontrollabile. È dolorosa. Semplicemente e dannatamente dolorosa.

 

È stato in uno di quei giorni che la tua leggenda personale, la nostra storia e la mia verità hanno preso vita.

 

Oggi non so che tipo di giorno è. Il pensiero della tua morte è così reale da sfiorare il ridicolo, tanto da farmi sperare disperatamente che non sia vero, così reale da obbligarmi dopo diciassette anni a venirti a cercare, così reale da obbligarmi a sedermi su quest’erba ben tagliata davanti a quest’irreale lastra di marmo.

 

Pensare che l’unica ragione per cui oggi so il tuo nome,Olimpia, è questo pezzo di marmo, mi fa impazzire,ma oggi, in questo giorno diverso, di rabbia non di dolore.

Olimpia è un nome stupendo e ti devo confessare che è molto più originale di quello che io avevo scelto per te,ma forse, Luce ti si addiceva di più quando t’ho conosciuta io, perché nonostante fossi così triste la tua natura non la potevi proprio nascondere. 

Probabilmente mi sembra così adatto perché per me, sei stata la luce, ma questo purtroppo già lo sai.

Olimpia?

Mi fa ancora troppo male, non posso chiamarti cosi, sarebbe come prendermi gioco di te visto anche solo pensare a questo nome mi fa sentire un estraneo qui. Ma so, so per certo che qui un estraneo non lo sono, anche se sono passati vent’anni, so che non mi hai dimenticato.

 

Ricordi quando ti ho raccontato del nostro primo incontro? Quando ti dissi che guardarti per la prima volta fu come annegare?      

Ecco, ora mi chiedo se quello che ho provato io in quell’istante l’hai provato anche tu in quel fiume, mi chiedo se per te è stato come per me, se una parte di te s’è staccata e ti ha abbandonata senza troppe cicatrici. E se sei potuta scappare via, libera dalla tua condanna.

 

Dopo quel giorno, hanno perquisito il fiume per settimane, ma nulla…

 

E io in quegli stessi giorni ma ne stavo tranquillo sulla nostra panchina ad aspettare che tu tornassi. Ma non accadde.

E quando me ne resi conto, ti odiai, con tutta l’anima. Mi sentii così abbandonato e solo da non voler più vedere nessuno , mi rifugiai nei negli studi, per non averti sempre nei pensieri, ma in ogni pagina, di ogni libro, eri li, in ogni parola, in ogni frase, di ogni leggenda, eri presente e dolorosa.

Così dolorosa da far sembrare vivi quei libri. Talmente vivi da farmi credere che fossero meglio della vita stessa. Per questo iniziai a vivere di libri, a vivere di te. A vivere per te.

A vivere per conservare e scoprire il tuo segreto. A vivere per capire perché l’hai fatto.

A vivere per trovare una ragione. E sai dopo anni l’ho trovata.

Perché nel fondo del mio cuore ho sempre saputo che non mi avresti abbandonato di tua spontanea volontà. Almeno non senza un valido motivo.

Sapevo, che dovevi tornare nel tuo mondo. Lo sapevo mia piccola Sirena.

Sapevo che annegando hai dovuto abbandonare la parte di te che mi riguardava. Lo sapevo.

E oggi, io ti perdono, e finalmente ti lascio andare. Ti lascio vivere.

  
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