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Autore: Yoko Hogawa    11/01/2010    27 recensioni
Abrahel è un dio della morte particolare. Affetto da una feroce intolleranza agli umani e da un disprezzo spiccato della loro razza, nell'ambiente è conosciuto come lo Shinigami delle anime oscure, il messaggero di morte per gli esseri umani pregni di malvagità.
Eric è un ragazzo come tanti altri. Studente di letteratura e nuotatore agonistico, si trova molto spesso in situazioni non esattamente tranquille grazie ad amicizie non proprio giudizievoli.
Ma il destino ha deciso di giocare con loro una partita strana ed orrenda, dal significato nascosto ma dalla crudeltà evidente.
Entrambi si troveranno improvvisamente fra le mani un problema più grosso di loro.
Quel problema, si chiama Joshua Archer.
[Linguaggio colorito][Dedicata a Shichan]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Epilogo

Epilogo

 

Abrahel

The eternity of those who never die

 

 

Non possedeva la forza, di muoversi da lì.

Aveva a malapena dato credito a Remiel quando gli aveva tolto dalle mani l’anima di Eric, garbatamente, con rispetto. Quando l’aveva afferrata con gentilezza, sussurrando parole che non aveva capito nel tono melodioso degli angeli; forse promettendogli che l’avrebbe trattata bene, forse rassicurandolo, forse scusandosi...

Non lo sapeva. Ricordava solo il corpo freddo di Eric fra le braccia, i suoi occhi chiusi, le labbra ancora socchiuse per il bacio che si erano scambiati. Ricordava l’alba, le mani di Remiel sull’anima di Eric, quelle di Zerachiel sulle sue spalle... null’altro.

Sembrava non avere registrato nient’altro, nella mente.

Almeno fino a quel momento.

Il funerale non era nulla di speciale. Solo... doloroso.

Cosparso di un manto di disperazione talmente denso da sembrare tangibile.

Il cielo era punteggiato a tratti dalle nubi, e una luce grigia illuminava il cimitero. La lapide era stata posizionata sulla collinetta, poco distante dalla statua dell’angelo, nella parte vecchia del campo santo.

Marmo bianco venato di grigio perla, lettere d’oro. Poteva vederle brillare, nonostante la distanza. Nascosto tra gli alberi della parte di Heaven’s Park che sconfinava nel cimitero, all’ombra, come sempre.

Attorno alla fossa c’era un tappeto rosso, e sedie pieghevoli di legno. Sulle sedie persone vestite di nero, dietro di esse altre persone nere, in piedi, ammassate le une sulle altre.

Poi la bara. Legno dalle colorazioni rossastre, lucida, quasi importante. Un cuscino di fiori bianchi – gigli... sì, erano gigli e rose, quelli – spiccava in mezzo ai formali abiti scuri, sul coperchio della cassa chiusa.

Una cornice d’argento, con dentro una foto che non poteva vedere. Ma che sicuramente non rendeva giustizia alla persona racchiusa fra quelle quattro assi di legno finemente lavorate.

E la gente arrivava. E piangeva. E guardava fisso la bara senza potersi capacitare di nulla.

C’erano Robert e Douglas, i suoi amici del sabato sera. E McFarland con la compagnia di persone superficiali di cui si circondava solitamente.

Riconobbe Timoty Satler, composto nel suo abito elegante, i capelli rossi raccolti in una coda bassa sulla nuca. Chiuse gli occhi in una preghiera, posò sulla bara una medaglia d’oro.

Poi i suoi compagni della squadra di basket, tutti in gruppo, che in un manipolo di mani depositarono sul legno lucido la maglia rossa numero 23. Piangevano, stringendosi l’un l’altro, dandosi pacche sulle spalle.

Vide Alex, seduto con lo sguardo basso accanto a sua madre, in una delle sedie più vicine alla tomba. Stringeva le mani sui pantaloni, le nocche bianche dallo sforzo, e la sua schiena sobbalzava in singhiozzi malcelati.

La madre, con lo sguardo fisso sulla fotografia, sembrava faticasse persino a rendersi conto di dove fosse.

Vide Trent Everald, e provò pietà.

Per la prima volta nella sua esistenza; e ne fu disgustato.

Inginocchiato di fianco alla bara, le mani sopra di essa e il viso nascosto fra le braccia. Piangeva, disperato, ripetendo litanie inconcludenti di parole come “scusami” o “perché proprio lui”.

Dolore. Era tutto ciò che si poteva provare nel vederlo lì, inerme, devastato. Incredulo e, al contempo, lacerato dai sensi di colpa che sicuramente lo stavano dilaniando lentamente, corrodendolo dall’interno.

Un’eco di quel dolore lo raggiunse, e lo sommerse. Sentì nuovamente il senso di vuoto che lo aveva avvinghiato quella notte, e dovette trarre due grossi respiri per mantenersi quantomeno cosciente.

Per non ricadere in quell’apatia in cui non dava ragion d’essere a niente e a nessuno.

Riportò lo sguardo sulla folla, scorrendo i volti. Alcuni li conosceva, altri no, altri li aveva solamente visti di sfuggita... ma intravide Noah fra i tanti, stretto fra le braccia di quello che doveva sicuramente essere suo padre, che piangeva senza ritegno, lasciando scivolare le lacrime sulle gote dell’espressione addolorata dipinta in viso.

Per ovvi motivi, Marcus non era presente.

Si appoggiò con un sospiro al tronco dell’albero, puntando gli occhi sulla tonaca rossa e bianca del sacerdote che presiedeva il rito funebre. Stava parlando, probabilmente elogiando le qualità di Eric senza nemmeno conoscerlo – non veramente, non profondamente – ma lui non riusciva a cogliere le parole che diceva. Venivano coperte dal vento, che soffiava mite ma continuo, sferzando il parco e portando i primi freddi d’autunno.

Si posizionò con gli occhi sui fiori ma, in quel momento, sentì una presenza al suo fianco.

« Cazzo. Lo avevo sentito dire, ma non ci ho voluto credere » avvertì una voce. Conosciuta.

« Moloch » mormorò rauco, osservandolo di sbieco. « Cosa ci sei venuto a fare? » chiese, malevolo e diretto, assottigliando gli occhi in una minaccia convincente nonostante l’aspetto sicuramente irriconoscibile.

L’ultimo specchio a cui aveva avuto modo di specchiarsi, gli aveva rimandato l’immagine di un essere pallido, con le occhiaie e gli occhi rossi; e lo sguardo di chi non crede più in niente.

Aveva visto il dolore dell’umano negli occhi dello shinigami. Il tormento di Joshua nel cuore di Abrahel.

L’altro, sistemandosi la veste nera – uguale alla sua, che indossava anche lui, e che stava odiando con tutto se stesso – lo fissò con noncuranza. « Calma, calma collega » cercò di abbassare i toni, squadrandolo con sguardo critico da capo a piedi: « dall’altra parte girano voci strane, così sono venuto a vedere se sono vere. E vedo che lo sono » commentò, arricciando un po’ il naso al suo aspetto: « ma dico, ti sei visto? Fai quasi schifo » disse diretto, portando una mano fra le pieghe della veste nera ed estraendone un accendino seguito da un pacchetto di sigarette.

« Detto da te poi... » sussurrò Abrahel piano, rivolto per di più a se stesso nonostante la pungente ironia. Continuò poi, riportando lo sguardo sul manipolo di persone attorno alla bara: « smetti di raccontarmi balle e dimmi chi ti ha mandato. Enma? Pietro? Oppure quel ficcanaso di Zerachiel, sempre in vena di dare lezioni sulla vita e sulla morte? » sibilò amaramente, lasciando che i ciuffi corvini gli calassero sugli occhi senza che li spostasse.

Moloch sospirò, portandosi con calma una paglia fra le labbra e accendendola. Aspirò ed espirò il fumo, godendoselo in silenzio per qualche istante. « Non disprezzare Zerachiel, Abrahel » disse poi: « non vuole insegnare il mestiere a nessuno, è semplicemente preoccupato per te ».

« Sono commosso » sputò sarcastico, portando gli occhi candidi su quelli totalmente simili dell’altro. « Non ho bisogno delle sue belle parole, o della tue. Non ho bisogno di comprensione o di qualsiasi altra cazzata da angelo che Zerachiel ti abbia convinto a dirmi. Voglio solo stare per i cazzi miei, è abbastanza chiaro come concetto? » precisò iracondo, dovendo però schiarirsi la voce al termine della frase.

L’altro shinigami non rispose subito, traendo un’altra boccata di fumo. « Mi piacerebbe tanto sapere come hai fatto ad innamorarti. Solo l’amore può averti ridotto così » disse, soprapensiero nonostante si rivolgesse a lui, lo sguardo puntato sul funerale. « Era così importante per te quell’umano? » domandò poi, calmo.

Abrahel sospirò, chiudendo gli occhi e massaggiandoseli con una mano. « Anche se provassi a spiegartelo, probabilmente non lo capiresti » rispose.

« Non era altro che un essere umano come tanti altri » considerò Moloch con leggerezza.

« Per quello non capiresti » chiuse il discorso Abrahel, tornando a riaprire gli occhi.

Alcuni minuti di silenzio trascorsero, riempiti solo dai respiri di Moloch che espirava il fumo della sigaretta in nuvole grigie.

« Senti... » prese poi, rigirandosi quello che era ormai un mozzicone fra le dita: « io lo devo dire ad Enma, se tu non torni di là. E vorrei veramente che mi risparmiassi questa cosa. Lui non vede molto di buon occhio questa tua mania di fare quello che ti tira, anche se non lo dimostra ».

« Ad Enma non frega niente di quello che faccio, Moloch » ribatté l’altro, sfinito: « mi pare sia abbastanza palese ».

« Solo per te » insistette però il collega. « Questa storia gli sta parecchio sullo stomaco, ultimamente » rivelò, la voce profonda di chi parla sul serio.

Abrahel aggrottò le sopracciglia, fissando insistentemente il funerale davanti a lui. Nessuno sembrava fare caso a loro, così come nessuno aveva mai voltato lo sguardo in direzioni diverse dal prete.

Enma poteva anche tirare giù il mondo a parolacce, per quello che lo riguardava; poteva minacciare tutti i Santi e chiunque gli capitasse a tiro. Lui non si sarebbe mosso di lì, mai.

Perché di Eric rimaneva solo un ricordo, e quel ricordo era simboleggiato dal suo nome su quella lapide. E Abrahel ci sarebbe rimasto aggrappato come un naufrago ad un pezzo di legno; per tutti i secoli dei secoli, se necessario.

Almeno finché non sarebbe scomparso anche lui.

« No » rispose dunque, non aggiungendo nient’altro. Bastava così.

Sentì Moloch sospirare – scocciato, forse – e percepì con la coda nell’occhio il suo buttare il mozzicone a terra per poi pestarlo con il piede. « Senti » prese poi a dire, pronto per tornare nell’aldilà: « io sono uno stronzo, ok? Sono addetto alle anime dei bambini, devo esserlo. E non capisco un cazzo dell’amore, o di qualsiasi altra cagata spirituale che ti sta scombussolando il cervello in questo momento » una pausa, calcolata: « e riconosco che, per cambiare uno come te così radicalmente, quest’umano doveva essere qualcosa. Tuttavia devi guardare in faccia la realtà dei fatti: un umano e un dio della morte è contro natura » terminò, sollevando appena la mano in saluto e sparendo nell’ombra, diretto da Enma.

Abrahel si lasciò scivolare contro il tronco, improvvisamente esausto.

Davanti a sé, l’eternità di chi non può morire.

 

 

Tagliò il bocciolo di una rosa bianca, lasciandolo cadere vagamente a terra. Sull’erba soffice dell’aldilà, il bocciolo si trasformò prima in marcio, poi in nuovo nettare per la pianta.

Decomposizione. I morti che nutrono i vivi in un cerchio continuo, efficace, perfetto.

Madre Natura sapeva il fatto suo.

Enma sospirò arrabbiato, indugiando con le forbici d’argento cesellato sul sottile gambo di un altro bocciolo. La ragazza bionda poco dietro di lui, intenta a carezzare con le dita sottili i petali di una rosa in piena fioritura, smise di canticchiare la sua canzone melodiosa.

« Quanto tempo è passato? » domandò Enma, quasi ringhiando. Di chi parlassero era ormai evidente anche senza le specificazioni del caso.

Selene non l’aveva mai sentito parlare d’altro con lei, dopotutto.

« Due anni, credo » disse infatti, legandosi i boccoli biondo cenere con un nastro di seta rosa spento. « O forse tre. Ammetto che la concezione del tempo da questa parte è un tantino differente da quella del mondo dei vivi » disse tranquillamente, tornando all’ammirazione dei fiori.

Enma sospirò un ringhio. « Ripetimi ancora che bisogno c’era di mandare in brodo di giuggiole il cervello del mio unico Shinigami valido! » ruggì poi, lanciando rabbioso le forbici contro il terreno.

Si piantarono ai suoi piedi affondando fino all’impugnatura.

Selene sorrise serafica. « Era necessario » rispose semplicemente.

Enma storse il naso. In millenni mai, mai gli era capitato di perdere la sua infallibile calma. « E perché? » chiese allora, cercando di ritornare perfettamente cosciente di sé. Adocchiò le forbici e, al pensiero di chinarsi e raccoglierle, schifò se stesso. Mosse la mano in un mezzo circolo nell’aria, facendone semplicemente apparire dal nulla un altro paio.

« Lo sai già il perché » ribatté la santa con voce melodica.

« Lo voglio sentire di nuovo » rispose però il capo degli dei della morte, modulando la voce senza riuscire però a togliervi la nervatura di rabbia di cui era intrisa.

Selene sospirò, puntando finalmente lo sguardo sulla schiena dell’altro. « Doveva imparare ad amare, Enma. E’ una lezione che deve essere impartita, in un modo o nell’altro, per quanto brutale possa essere » rispiegò per l’ennesima volta, pacatamente.

« Agli shinigami non serve amare » fece notare Enma con un ghigno sul volto: « loro devono uccidere, non amare. Devono portare avanti e indietro le anime dal Mediano al mondo dei morti, se le amano non fanno il loro lavoro, è un controsenso! » esclamò, cercando inutilmente di dare un contegno alla propria agitazione.

Selene sospirò di nuovo, esausta di quel discorso che continuava ormai da anni. Potevano passare diversamente dal mondo mortale, quello era vero, ma erano pur sempre anni. « Ogni essere si merita l’amore, Enma. Che sia umano o meno » spiegò per l’ennesima volta.

Enma fece una smorfia. « Mi sembra di sentire il tuo superiore durante una delle Sue omelie sull’amore in Paradiso-visione » borbottò cupo, tagliando finalmente anche l’altro bocciolo di rosa.

Rimase in silenzio poi, contemplando il lavoro svolto. Abrahel era il più valido dei suoi shinigami solo perché non amava, non considerava niente al di fuori del lavoro, non si affezionava a nulla ed era formalmente disilluso su ogni cosa non fosse il suo desiderio intrinseco di porre fine alla sua esistenza. Era facilmente controllabile, anche se difficilmente sottomettibile, perché bastava lasciarlo in pace per qualche secolo a crogiolarsi nella sua stessa auto-commiserazione da quattro soldi... almeno fino a che non rischiava di annullarsi, allora mandarlo in missione sul Mediano e permettergli di continuare ad esistere.

Era un’esistenza antica, e proprio per questo non avrebbe mai creduto che si sarebbe infatuato di un semplice umano; un’esistenza breve e temporanea destinata a svanire in quello che per loro era la durata un soffio di vento.

Sospirò, affranto.

Forse... era il momento di lasciarlo andare.

« L’amore è una seccatura. Inutili umani... sempre a far danni » borbottò nuovamente, intascandosi le forbici e dirigendosi a passo lento verso l’uscita del giardino.

Selene, dall’alto della sua preveggenza, sorrise. « Dove stai andando? » domandò lieve, quasi scherzosa.

Enma si fermò in un fruscio di stoffa e seta. « A parlare con il Vecchio(*) » rispose semplicemente, sparendo in uno sbuffo di nebbia, silenzioso.

 

 

Quanti anni erano passati?

Novanta. Cento. O forse duecento.

Non lo sapeva.

Vedeva semplicemente le cose invecchiare, e pian piano marcire e morire. Sentiva il suo corpo perdere man mano forza e controllo.

Era passato molto tempo, prima che avvertisse i primi cambiamenti. Trent’anni, prima che le braccia smettessero di alzarsi oltre le spalle. Quaranta, prima che le gambe divenissero pesanti come pietra.

Dopo le prime settimane si era abituato al continuo senso di fame, che gli faceva percepire odori di anime anche a grandissima distanza. Col tempo, anche il richiamo del cibo era diventato sordo alle sue orecchie.

Rimaneva lì. Seduto con la schiena alla lapide di Eric, bianca e pulita finché della gente la visitava.

Poi, venne a sapere, la sua famiglia si era trasferita. Alex aveva vinto una borsa di studio per una qualche università famosa di cui si era dimenticato il nome in meno di un minuto, così avevano cambiato città per stare vicini al figlio minore – unico, ormai.

Trent Everald aveva continuato a visitare il cimitero ogni domenica per tutti e dieci gli anni. E anche in seguito, nell’anniversario della morte del figlio era presente.

Abrahel si nascondeva nell’ombra non appena vedeva arrivare qualcuno. Non era un bene per lui che lo vedessero lì, soprattutto perché risultava indagato per l’omicidio di Eric. Nessuno aveva creduto che fosse morto per cause naturali, anche perché l’autopsia non aveva rilevato tracce di malattie genetiche o problemi di altro tipo.

Si era ipotizzata la droga, o il veleno. L’omicidio, comunque, perché nessuno riusciva a credere che Eric potesse essersi suicidato.

Nemmeno Abrahel ci avrebbe creduto, sentendolo.

Poi, il giorno del trasloco, Trent aveva trovato il borsone nascosto nel garage. E tutti avevano cambiato idea.

Timoty Satler visitò saltuariamente la tomba, portando sempre poche ma essenziali notizie. Saluti, domande inutili del tipo “come stai?” anche se era ovvio che non potessero ricevere risposta, notizie sulle sue gare e sulle medaglie che vinceva. Era stato selezionato per la nazionale olimpica, ma per qualche motivo non accettò.

Poi, anche lui smise di andare a far visita.

Douglas e Robert, così come McFarland, passavano solo durante le feste natalizie. Loro rimasero in città, si sposarono ed ebbero diversi figli. Dopo una ventina d’anni non rivide più nemmeno loro.

Una notte, ricevette la visita di Marcus e Noah. Erano entrambi vestiti di nero, ed entrambi avevano gli occhi tendenti ad un rosso amaranto quasi fascinoso. Intuire il perché non fu difficile: Marcus lo aveva trasformato, alla fine.

Parlarono un poco. Gli dissero che ormai dovevano trasferirsi, perché non era più fattibile per loro rimanere in quella città. Nonostante uscissero solo di sera – obbligatoriamente - la gente cominciava a chiedere che fine avesse fatto Noah, ed era pericoloso per loro. Si sarebbero trasferiti più a nord.

Abrahel provò invidia, per Marcus. Almeno lui poteva scegliere una via che non prevedesse la perdita della persona amata.

Ma li salutò comunque con un sorriso, alzando la mano con molta fatica. Anche i muscoli delle braccia cominciavano ad essere rigidi, e pesanti come piombo.

Ad un certo punto, il cimitero venne chiuso. Le voci parlavano di un problema con la falda acquifera sottostante al camposanto, ma trasferire le tombe già presenti era impossibile. Inutile dire che, nonostante le misure di sicurezza, non successe nulla se non l’incremento del degrado.

Da quel momento, fu un semplice susseguirsi di estati afose ed inverni gelidi. La neve e la pioggia, unite alle altre intemperie, cancellarono pian piano il placcaggio dorato delle lettere in ottone, che pian piano ossidarono divenendo verdastre. Il marmo si sporcò di nero in più punti, e un rampicante d’edera vi si arrampicò sopra, ricoprendola quasi per metà.

Intanto lui esisteva. Continuava a vegliare.

Arrivò al punto in cui scomparvero le mezze stagioni, e le piogge acide distrussero la maggior parte della tomba di marmo a cui ancora faceva da guardiano. Il suo corpo non si muoveva nonostante non risentisse del freddo o del caldo, della pioggia o della neve; nonostante non invecchiasse, non si ammalasse, non... morisse.

Steso al fianco di quella lapide, sull’erba che ormai aveva perso ogni traccia di vita, alternava a momenti di coscienza piena altri di coscienza lieve.

Attendeva che il tempo passasse.

Finché l’udito si affievolì, e perse il gusto e l’olfatto. Non era sicuro di possedere ancora la facoltà di parola, dato che non parlava con nessuno da secoli forse; ma sicuramente aveva perso la cognizione del tempo.

Percepiva solo i piccoli cambiamenti che immancabilmente avevano luogo.

E sperava mancasse poco, alla fine. Alla sua fine, sottoforma di sparizione rapida, indolore, insapore.

Il non poter nemmeno dormire era un tormento.

Finché un giorno, al tramonto, dei passi lo distrassero dai ricordi con cui amava distruggersi.

Erano leggeri e lievi, conosciuti in un qualche angolo recondito della sua mente. Quando vide i lembi di un abito di seta pura nera, con ricami di fiori di camelia scarlatti, alzò lo sguardo.

Enma, dall’alto della sua tranquilla pacatezza, lo osservava.

Storse le labbra in quello che doveva essere un sorriso, ma non fu sicuro che risultò tale. Aprì la bocca per dirgli qualcosa, ma l’unica cosa che gli uscì fu un rantolio senza consonanti.

« Non credere di poter parlare dopo tutto questo tempo » gli sentì dire, e nonostante Enma avesse usato tono normale, Abrahel lo sentì come se glielo dicesse dal fondo di una galleria.

Lo vide chinarsi sulle ginocchia, attento a non sporcare i lembi della veste con le erbacce che erano cresciute e marcite tutte intorno. Si scostò una ciocca di lunghi capelli corvini dal volto pallido, scoprendo per la prima volta le sue iridi dorate dalla pupilla allungata.

Si diceva che Enma potesse trasformarsi in corvo, se voleva. Quegli occhi dimostravano che era vero.

« Sai quanto tempo è passato? » domandò poi il capo degli shinigami, osservandolo con un misto di noia e quella che sembrava seccatura.

O almeno, così sembrava ad Abrahel.

Cercò di muovere il capo in un cenno negativo, riuscendoci solo fino ad un certo punto.

« Trecentoquarantasette anni. Giorno più, giorno meno » continuò comunque l’altro, posando uno sguardo critico sul paesaggio circostante. « Questo posto fa schifo... » considerò a bassa voce, arricciando il naso in una smorfia disgustata. Tornò poi con lo sguardo su di lui, che ancora lo guardava con la risoluzione di chiedergli cosa volesse da lui. Stava cercando di articolarlo a parole, a dire il vero, ma proprio parlare non gli era più possibile.

« Smetti di fare quei versi, sono inquietanti » lo apostrofò Enma, senza però stamparsi il solito ghigno di scherno sul volto. Lanciò uno sguardo alla lapide e, senza scostare gli occhi da essa, continuò: « ammetto di aver passato degli anni, cercando di capire quale incantesimo ti avesse fatto questo umano per fotterti in quel modo il cervello. Perché non si conquista, non si sottomette uno come Abrahel, che il mondo lo distruggerebbe in un batter di ciglia se solo a me venisse voglia di ordinarglielo » fece un po’ di scena, prendendo una breve pausa: « ma ti sei fatto fregare comunque. Allora ho pensato a cosa potesse averti fatto provare di così bello da trattenerti ancorato qui per i secoli dei secoli, da solo, riducendoti ad una sorta di cadavere che respira... ma non sono riuscito a capirlo ».

Chiuse gli occhi, si massaggiò stancamente le tempie. Riaprendoli, poi, riprese il discorso: « Mi è impossibile comprendere l’amore, Abrahel. Io e te siamo nati così. Ma tu no, tu hai dovuto innamorarti, stravolgere le regole magari anche inconsciamente... e questo presuppone che ti lasci qui ad aspettare e che io, di riflesso, attenda che tu scompaia per farmene una ragione e cercarmi un altro demone da trasformare in shinigami » terminò, l’espressione contrita da qualcosa di interiore che probabilmente lo disturbava.

Accidenti. Non ditegli ora che Enma aveva pure una coscienza, da qualche parte.

Abrahel lo osservò di rimando, in grado praticamente di fare solo quello. Se era venuto fin lì non aveva semplicemente bisogno di gongolare, altrimenti non si sarebbe nemmeno disturbato. No... doveva esserci sotto qualcosa.

Enma prese fiato, guardandolo con piena serietà per la prima volta da quando si conoscevano. « Tu sai che non potrai rivederlo mai più, vero? » domandò, la voce profonda.

Anche dopo tutto quel tempo, Abrahel poté sentire l’ormai famigliare stretta a cuore. Quella domanda faceva male, di per sé, nel rendere concreto l’evidente.

Chiuse gli occhi, respirando profondamente.

Enma lo prese come un’affermazione. « Lo sapevi anche prima. Per la rinascita serve un’anima, per essere ammessi nell’aldilà serve un’anima. Per tutto ciò che riguarda la morte serve un’anima, e noi l’anima non ce l’abbiamo » rivelò scontatamente, osservandolo con cipiglio curioso riaprire gli occhi.

Sì, lo sapeva. Lo sapeva anche prima di baciarlo, di... ucciderlo. Gli aveva mentito dicendo di sì ma lo sapeva, che non lo avrebbe rivisto mai più.

Per lui era impossibile stare vicino ad Eric per più di quel breve periodo che avevano già trascorso insieme.

Perciò annuì, sospirando piano nel tentativo di non riaprire quelle famigliari ferite vecchie di secoli.

Enma arricciò il naso in una smorfia disgustata. « Spero veramente di aver fatto la scelta giusta, anche se ti trasformerà in un rimbecillito... » mormorò scocciato al suo fianco, infilando la mano dentro la veste per estrarne un cristallo.

Abrahel lo guardò, studiandolo attentamente, ma senza capire. Aveva la famigliare forma di un’anima, ma non risplendeva di nessuna luce. Sembrava semplicemente un involucro vuoto, inutile, tuttavia nuovo di zecca e senza nemmeno una piccola scheggiatura.

Stava per chiedere spiegazioni – o almeno provare ad articolarle – quando l’altro lo anticipò.

« Ho parlato con il Vecchio » rivelò, sbuffando come uno che ha dovuto cercare in sé tutta la pazienza di cui era capace: « noi non possiamo violare le regole del mondo, perciò non potevo fare qualcosa... per te » disse, frapponendo una pausa prima delle ultime parole, che pronunciò con un’espressione profondamente disgustata.

Enma che faceva qualcosa per qualcuno... il mondo sarebbe potuto finire anche subito, per quanto gli riguardava: da quel momento affermava con cognizione di causa di aver visto tutto.

Lo ascoltò continuare il suo discorso: « ho chiesto al Vecchio. Lui può tutto, il mondo l’ha creato lui e bla, bla, bla... » cantilenò con una smorfia, chiudendo gli occhi un istante e tornando a guardarlo: « non è stato facile, Abrahel. Lui è particolarmente affezionato alle sue regole e non era ben disposto... in tutti i sensi. Ma... » una pausa, ancora, calcolata. Un sorrisetto quasi incredulo a piegare le labbra sottili: « da qualche parte, un’anima in lista per la reincarnazione faceva i capricci. Il che è strano, dato che le anime non hanno coscienza; eppure questa non aveva intenzione di tornare sul Mediano. Sembrava che aspettasse, e che dovesse farlo per forza... » lasciò cadere, lanciandogli un’occhiata carica di significato.

Abrahel capì, e di nuovo gli si strinse il cuore.

Non era possibile. Come aveva appena fatto notare Enma, le anime distaccate dai loro corpi non hanno una coscienza, così come non hanno memorie e ricordi.

...di solito.

Provò ad alzare un braccio, spinto da quelle emozioni di cui si era drogato per tutto quel tempo tramite i suoi ricordi. Gemette quando ogni singola articolazione gli mandò una scarica di dolore lungo tutto il corpo, radicandosi persino nelle ossa, ma cercò comunque di portare la mano a sfiorare i lembi della veste di Enma.

Di raggiungerlo, in un qualche modo. Di chiedergli silenziosamente di smettere di mentirgli, perché non era uno scherzo divertente, quello.

L’altro, però, evitò facilmente quel contatto. « Non insozzarmi i vestiti » disse, lisciandosi con la mano una piega immaginaria sulla sua tunica di tessuto purissimo.

Abrahel lasciò ricadere il braccio a terra, senza più la forza di tenderlo. Guardava Enma con gli occhi di qualcuno che sta subendo una tortura psicologica non indifferente, e il capo degli Shinigami si espresse in un ghigno schifato a quella vista.

Sembrava una barzelletta che non faceva ridere, forse, vedere il proprio miglior Shinigami preda della speranza.

Scosse il capo, riprendendo da dove si era interrotto: « in ogni caso è stato deciso di prendere provvedimenti. Non possiamo rimanere bloccati con il ciclo di morte e resurrezione, i motivi mi sembrano ovvi. Perciò... » un altro sguardo, un sorrisetto che esprimeva profonda soddisfazione di sé stessi nonostante la situazione: « saluta il tuo nuovo futuro da comune mortale, Abrahel. Anzi no... Joshua » disse, tenendo fra due dita quel cristallo d’anima vuoto.

La sua chiave per rivederlo, capì.

Quella era...

« Questa è la struttura base di un’anima. Quando le anime vengono reincarnate, la loro luce viene trasferita dal cristallo precedente ad uno nuovo: questo » mosse appena l’oggetto, per poi continuare: « ne ho recuperato uno dal Vecchio. Non chiedermi come cavolo farà a farti reincarnare, non lo so nemmeno io. Credo sia una di quelle cose che sa fare solo Lui, sai no? Come si chiamano... “dogma”, ecco » spiegò per completezza, annoiato.

Ma Abrahel non lo stava più ascoltando. Non più, da quando aveva capito che una possibilità esisteva, alla fine.

Una. Una sola.

Ed era sua.

Il sorriso gli nacque spontaneo, sulle labbra. Non poté farne a meno.

Avrebbe riso, se solo avesse potuto farlo senza rimanere completamente senza fiato. Se solo i suoi polmoni non fossero quasi atrofizzati, a causa del tempo che era passato dall’ultima volta che aveva anche solo sorriso in quel modo così genuino.

Così... umano.

L’espressione schifata di Enma peggiorò nel momento in cui gli occhi candidi di Abrahel si posarono sui suoi, cercando di esprimere quello che la voce non poteva.

« Cos’è quella, gratitudine? » sputò: « per favore risparmiatela; queste dimostrazioni di umanità mi fanno venire bruciore di stomaco » si lamentò poi, rialzandosi in piedi e appoggiando il cristallo vuoto accanto allo Shinigami.

Si guardarono per l’ultima volta, questa volta seriamente.

« Sarai ciò che odi, lo sai? » domandò, la voce profonda.

Il dio della morte, chiudendo gli occhi, annuì.

« ...continua a non avere senso, per me » lo sentì sussurrare, prima di udire anche un lieve: « buona fortuna ».

E che Enma, così com’era arrivato, sparisse.

Ora, doveva solo aspettare… ancora un po’.

 

Infine, il momento arrivò.

Chiudendo gli occhi definitivamente, il nero sbiadì i colori. Il cuore non rallentò il battito, così come il suo corpo non incontrò la morte.

Semplicemente, la sua coscienza si spense. Semplicemente, si addormentò.

E pian piano, in un respiro un po’ più debole... scomparve.

 

Erano passati tre secoli, cinquantacinque anni, ottantadue giorni e tredici ore.

 

L’eternità di chi non muore mai.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Esosfera terrestre: anello orbitante geostazionario “Circle

Anno domini 2386

 

Puntando le sue iridi di ghiaccio sul proprio nome in graduatoria, comparsa da poco in quella specie di schermo olografico di dimensione aeroportuale, le sue labbra si storsero in un ghigno a metà fra lo schifato e l’orripilato.

« Ricerca e sviluppo » sussurrò, incredulo. « Ricerca e sviluppo! » sputò poi, calcando sulle uniche due parole che si era riservato di dire da quando aveva letto i risultati degli esami d’ammissione.

Il ragazzo al suo fianco alzò un sopracciglio. « E ti lamenti pure? » borbottò risentito, puntando a sua volta gli occhi sul nome dell’altro: « questo viene selezionato per il più importante gruppo lavorativo che la NASA abbia mai finanziato per la ricerca nello spazio... e si lamenta! » esclamò contrariato, sbattendosi sconcertato le mani lungo i fianchi: « Josh, mia madre ti prenderebbe a schiaffi ».

« Tua madre è un utero di plastica, Ethan » rimbeccò scorbutico l’altro, fissando il proprio nome come se dovesse prendere fuoco.

« Ok, allora tua madre ti prenderebbe a schiaffi » rispose il moro.

Joshua posò lo sguardo sul ragazzo al suo fianco, incontrandone gli occhi dorati: « ...e tuo padre un codice a barre » rincarò la dose, vendicativo, girando i tacchi ed incamminandosi lontano dalla folla.

« Anche noi umani artificialmente prodotti abbiamo un cuore, sai?! » sbottò Ethan, affrettandosi però a seguirlo. « Oh, avanti Josh! Da quanto ci conosciamo, da undici anni? » chiese poi retorico.

« Purtroppo » borbottò Joshua, camminando mani nelle tasche.

« E pensavi davvero che dopo esserti fatto il culo in Fisica Applicata ed Ingegneria Robotica Aerospaziale ti mettessero a pilotare uno Spaceshuttle? » domandò però ironico l’altro, ignorando la poco sottile frecciatina nei suoi confronti.

Joshua si fermò, fissandolo con astio: « sì, se è per un posto da pilota che ho fatto domanda! » palesò, tornando a camminare a passo di marcia lungo i corridoi. « Se sapevo che sarei finito chiuso in un laboratorio a riparare AI(*) mal funzionanti sarei rimasto in Illinois a coltivare pannocchie... » aggiunse mugugnando.

Al suo fianco, Sparrow sospirò rassegnato.

Joshua non se lo lasciò sfuggire. « Perché, tu sei contento? » soffiò: « “Armamenti” ti rende soddisfatto? » domandò pungente.

« Certo, e che cavolo! » esclamò però Ethan: « Ho studiato apposta per entrare in Armamenti, nel caso te lo fossi dimenticato » puntualizzò con scrupolo.

Archer, deluso nel profondo dalla poca empatia dell’amico, roteò gli occhi. « Contento tu... » sentenziò con sufficienza.

Ethan arricciò il naso, contrariato. « Si può sapere cosa ti ha fatto di male il mio settore? Ne parli come se dovessi andare a fare il benzinaio » argomentò con testardaggine, cominciando ad essere profondamente seccato dal comportamento dell’altro.

« Stare chiuso a sviluppare un nuovo cannone a particelle che ci permetta di distruggere ciò che rimane di Urano non mi sembra una prospettiva più rosea di una stazione di servizio » replicò Joshua, incontrando poi un silenzio stizzito da parte di Ethan.

In realtà non le pensava davvero, quelle cose. Credeva che Armamenti fosse un ottimo impiego, così come lo era anche Ricerca e Sviluppo, da un punto di vista oggettivo.

Ma non era ciò che voleva.

Per tutta la vita si era sentito come se stesse cercando qualcosa, là fuori. Da qualche parte.

Si sentiva ansioso, nervoso ogni volta che rimaneva in silenzio e ci pensava, prima di dormire.

Aspettava e al contempo cercava. Si sentiva poi, a sua volta, atteso e ricercato al contempo.

Era una sensazione che non lo aveva mai abbandonato da quando ne aveva preso coscienza.

Per quello voleva fare il pilota. Viaggiare nello spazio, magari, lo avrebbe portato a trovare quel qualcosa che, sapeva, doveva trovare.

Perché era... importante, farlo.

Perché significava qualcosa di fondamentale.

Voltò lo sguardo verso le vetrate alla sua destra, osservando rapito i loro riflessi in semi trasparenza. Dietro di essi, lo spazio profondo e la sua infinita oscurità.

La sua infinita tranquillità.

Sarebbe volentieri vissuto sempre là, se questo fosse servito a liberarlo da quel senso senza fine di ansia e aspettativa dell’ignoto. Di qualcosa che poteva anche non esistere, per quanto ne sapeva.

Forse fu per il suo viaggio nell’inconscio, che non si accorse della curva a sinistra. E, non accorgendosene, non la fece nemmeno.

Forse fu una coincidenza, oppure più probabilmente il destino. Il fato, per chi ci crede, o il caso, per chi non lo fa.

Fatto sta che nei corridoi non si corre, ma questa regola universalmente e storicamente nota puntualmente aveva la sua stupenda e turbolenta eccezione.

Eccezione che si schiantò contro di lui a testa bassa, gettandolo a terra con forza e facendogli compagnia con una caduta altrettanto rumorosa (e dolorosa, supponeva).

Joshua trattenne le imprecazioni per un suo profondo e radicato senso etico dell’educazione. O semplicemente perché non voleva sembrare troppo ciò che era: un contadinotto cresciuto nelle campagne dell’Illinois.

Ma la rabbia, oh... quella non gliela toglieva nessuno. Soprattutto con le premesse da cui partiva.

« Tua madre non te l’ha insegnato che nei corridoi non si corre?! » esclamò irritato – a dire il vero molto vicino ad una crisi di nervi.

Alzò lo sguardo e, nel farlo, sembrò che il mondo avesse improvvisamente smesso di girare.

Quelli che lo stavano guardando con sorpresa, erano un paio d’occhi dal caldo colore castano. Ciuffi di capelli dello stesso tono sfioravano appena le gote arrossate dalla corsa e il suo sguardo – gli occhi sgranati e la bocca aperta in respiri pesanti derivati dalla fatica – si poteva dire decisamente attonito.

Come, del resto, doveva esserlo il suo.

« Eric! » sentirono poi chiamare da lontano, lungo il corridoio di sinistra: « tutto ok, ti sei fatto male? » domandò un ragazzo in avvicinamento, a sua volta di corsa.
A sentire il nome, sembrò che una mano gli avesse stretto il cuore. Lo mimò con le labbra, senza un motivo, solo per assaporare la sensazione che dava farlo.

Quasi contemporaneamente, Ethan fu al suo fianco. « Ohi Josh, tutto al suo posto? » domandò, porgendogli la mano per aiutarlo a rialzarsi.

Mano che afferrò più per prontezza di riflessi che per vero volere. Gli occhi erano ancora incatenati in quelli castani dell’altro che, dal canto suo, sembrava non avere intenzione di staccare i propri dai suoi.

Lo vide trattenere il respiro al suono del suo nome, e muovere le labbra come se anche lui, silenziosamente, lo avesse ripetuto.

Solamente quando anche l’amico del castano gli fu al fianco, e lo aiutò a rialzarsi, sembrarono ritrovare entrambi la buona educazione temporaneamente resettata dai rispettivi cervelli.

« Mi dispiace, andavo di fretta... » si scusò quell’Eric, tendendogli la mano: « non ho ancora visto le graduatorie e... comunque sono Eric. Eric Everald » si presentò, cordiale.

Normalmente non avrebbe risposto alla stretta di mano. Non quando l’interlocutore del caso gli veniva addosso con la scusa patetica di andare a vedere una graduatoria che rimaneva sui tabelloni per tutto il pomeriggio.

Già, normalmente. Ma qualcosa dentro di lui gli diceva che quell’incontro, quel momento, era tutt’altro che normale.

Alla scetticità di Ethan al suo fianco che si esprimeva in una smorfia preoccupata – la faceva ogni volta che si aspettava da lui un’uscita sgarbata e anti-sociale – lui rispose ricambiando il gesto.

E dal momento che le loro mani si incontrarono, qualcosa cambiò.

No, anzi...

« Joshua Archer » rispose brevemente, prolungando la stretta di mano più del necessario.

Cosa che fece anche Eric, d’altronde.

« Senti... » cominciò poi Eric, aggrottando appena le sopracciglia nell’osservarlo bene: « ti sembrerà strano ma... noi per caso... »

« Ci siamo già visti da qualche parte? » concluse però Joshua, anticipandolo sulla domanda che probabilmente anche il castano voleva fare.

Aveva come un senso di deja-vu che gli scorreva irrequieto sotto la pelle.

La mano che stringeva nella sua, in quel saluto convenzionale durato più del dovuto, era calda e... familiare.

Troppo familiare.

« Non... lo so » balbettò Eric, stranito.

Uno schiarirsi di voci portò le loro mani a separarsi, richiamati all’ordine che le convenzioni sociali volevano per gli sconosciuti incontrati per la prima volta. Sempre secondo la stessa logica, si presentarono anche gli altri due, prima fra loro poi con lui ed Eric.

Ma sempre, per tutto il tempo... anche quando il castano e l’amico si congedarono – il primo più dubbiosamente, più controvoglia – la sensazione che ci fosse qualcosa di diverso non lo abbandonava.

Accorgersi che lo aveva seguito sempre con lo sguardo, poi, fu decisamente insolito.

Si girò, ma non appena stava per riprendere la camminata si sentì richiamare.

« Archer! » esclamò Eric a qualche metro di distanza: « sei occupato per pranzo? » domandò.

Gli sfuggì un sorriso. « No! » rispose, soddisfatto per cosa non sapeva.

« Allora sei prenotato! » ribatté il castano, sorridendo a sua volta.

Da qualche parte, qualcosa era cambiato.

No, anzi...

Da qualche parte, qualcosa... era ritornata al suo posto.

 

 

 

~ Owari.

 

 

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* Con “Vecchio” Enma si riferisce a Dio.

* “AI” sta per Artificial Intelligence, ovvero Intelligenza Artificiale.

* Remiel: nel libro di Enoch è il sesto arcangelo, responsabile della speranza nel mondo. Uno dei suoi campiti è trasportare le anime dei fedeli in paradiso.

* Moloch: sono diverse le interpretazioni di questo personaggio, e cambiano a seconda della cultura e del popolo considerato, partendo dai Fenici. La maggior parte delle interpretazioni, tuttavia, lo vede come un demone che si fa sacrificare bambini (spesso primogeniti) tramite il fuoco. Mi collego a questa versione e, cambiandola un pelo con un poco di libertà artistica, in questa fanfic viene trasformato in uno shinigami addetto alle anime dei bambini.

 

 

E’ finita.

Mi sembra impossibile poterlo dire, ma è finita. Io che ho la fobia degli ultimi capitoli, lo ammetto, sono quasi orgogliosa di me stessa...

...anche se è venuto tutto l’opposto di quello che doveva venire. Pazienza, è finita, e questo è l’importante.

 

Siccome è l’ultimo capitolo, non mi dilungherò molto sulle risposte ad personam. Risponderò in separata sede a coloro che hanno commentato e che, se ne hanno voglia, commenteranno anche l’epilogo.

Qui, invece, ringrazio chi ha recensito il capitolo precedente: angel15, dea73, Gioielle, Angel09 e CloudRibbon. Le vostre recensioni mi hanno aiutata molto a superare le crisi del “finale-che-non-deve-venire-banale-ma-che-sarà-così” XD

Ringrazio inoltre, e rinnovo la dedica a, Shichan per le varie consulenze, i betaggi, la sopportazione e tutto quel resto che ad elencarlo non finirei più. O peggio, cadrei sul melenso, e allora sì che Enma avrebbe bisogno di uno psichiatra (XP).

Infine, ringrazio tutti coloro che hanno recensito la fanfic nei capitoli precedenti, che l’hanno letta anche solo senza farlo e che l’hanno inserita nei loro preferiti.

 

Con la speranza di non avervi deluso con questo finale, (se vorrete) alla prossima.

Ja ne! <3

   
 
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