Zootecnica
umana
L’elefante
giallo friniva, sorbendo una granita al caramello. I suoi pois viola
mendicavano attenzione, lampeggiando senza sosta come insegne luminose al neon.
Nella
gabbia a fianco, un sottile boa constrictor avvolgeva le sue tenui spire lilla
chiaro attorno a un computer portatile bianco, della Apple. Ogni tanto digitava
una parola d’amore per la sua amata in Brasile, sbattendo voluttuosamente le
ciglia.
Nel recinto in
cui sorgeva l’eucalipto, due giraffe monocrome attorcigliavano i colli attorno
a uno stendibiancheria. Ogni tanto quella blu oltremare restava impigliata tra
le lenzuola, e il personale dello zoo si serviva di una lunga pertica per
disincastrarla.
Quando poi il rinoceronte verde mela
piantava il proprio corno azzurrino nel muro di gomma che lo separava dalle
foche, allora per i membri dello staff la vita si faceva dura: tra spinte,
corde e pulegge, il mastodonte veniva liberato dalla propria scomoda posizione
ed emetteva un solo belato di ringraziamento.
Una zebra
blunera trovava invece molto diletto nel suonare un piccolo pianoforte a
tredici corde, le quali venivano leggermente pizzicate dai becchi adunchi di
altrettanti pellicani fucsia.
L’aria
riverberava di continui muggiti, mentre i miagolii e i bramiti dei pinguini
raggiungevano le orecchie delicate delle scimmie arboricole.
Esse mangiavano angurie senza la buccia, declamando con
voce stentorea il proemio dell’Odusia di Livio Andronico.
Si fermavano tuttavia al “versutum” come se ne
andasse della loro vita, e vibravano l’ultima sillaba con un denso borborigmo
di gola.
Nell’insieme, il caos animalesco era
assordante, rimbombante, incalzante, fremente.
I visitatori, di solito piccoli ometti
grigi ripiegati su se stessi in ventiquattrore color marrone spento, di norma
svenivano all’ingresso, e non uscivano dallo zoo se non con un barattolo di
vernice in testa.
All’uscita,
sopra al grande cancello bianco di ferro battuto, le upupe scrivevano di giorno
in giorno una frase diversa.
La notte in cui ci andai io, le lettere
dorate componevano un laconico epitaffio della mia ragione perduta:
La
prossima volta impari.
Nonsense è nata,
nonsense resta. Ha un suo perché, molto ben nascosto, e ho intenzione di
lasciarlo lì dov’è. Per gioco e ironia nacque, non per fretta di svelare i suoi
segreti perirà. XD
willHole, saluti e sorrisoni^^