BE BROTHERS
Il vibrare sonoro e ritmico dell’autobus svegliò il
ragazzo profondamente addormentato, rannicchiato sul vecchio sedile in pelle con
la testa poggiata contro il freddo vetro del
finestrino.
Aprì pigramente un occhio, gettando uno sguardo fuori:
la notte e le sue ombre correvano veloci assieme a loro, il cielo rapidamente si
schiariva, le sfumature tendevano al rosato, le poche nubi, rosso fuoco,
sembravano fenicotteri dalle ali vermiglie, fenici che danzavano tra le fiamme,
mitiche creature che volteggiavano leggere nel cielo ormai prossimo all’alba.
Con un sorriso stanco e assonnato, il ragazzino, appena adolescente a prima
vista, sfiorò coi polpastrelli il vetro freddo, delineando sagome immaginarie
come su un foglio di carta.
Stiracchiandosi silenziosamente, scostò la manica
della felpa che indossava, l’orologio segnava appena le sette del
mattino.
Ormai doveva essere
arrivato.
Restò per qualche minuto ad osservare la strada
deserta che si estendeva dinanzi all’autobus, ai lati riusciva a distinguere
solo terre incolte oppure risaie sterminate, null’altro; con un nuovo sbadiglio,
si mise composto, ravvivandosi i corti ciuffi color ebano che cadevano
disordinatamente sulla fronte e sugli occhi, cercando di dargli un aspetto più
dignitoso, o almeno ci provava visto che l’impresa sembrava più difficile del
previsto.
Con un
sospiro seccato, lasciò perdere e afferrò il cappotto buttato malamente sul
sedile accanto; curioso, si guardò attorno, era l’unico passeggero a quell’ora,
notò, non senza una punta di disagio.
“Ragazzo, la prossima è la tua
fermata.”.
La voce dell’autista rimbombò assordante nel silenzio
che regnava a bordo del mezzo; il moro annuì e si alzò agilmente, prese uno
zainetto poggiato sotto il sedile e si diresse lentamente verso l’uscita,
cullato dolcemente dal movimento dell’autobus: “Grazie.”
disse.
Sentì il mezzo rallentare sino a fermarsi del tutto,
con un sibilo le porte si aprirono, una folata di vento freddo s’insinuò sotto
il cappotto facendolo rabbrividire.
Il ragazzino si strinse il bavero, scendendo
dall’autobus.
Un istante dopo, sentì le porte chiudersi alle sue
spalle e sentì il tram ripartire, lasciandolo solo in mezzo alla strada; il
giovanotto lo guardò allontanarsi sino a scomparire dopo una curva, poi si
guardò attorno, tra gli alberi scorgeva l’acqua argentea del fiume Ooi,
illuminato dal primo pallido sole, i raggi tiepidi coloravano di una delicata
sfumatura dorata i monti circostanti, l’erba bagnata dalla rugiada notturna
strisciava contro i suoi jeans a ogni passo, ma non gli diede molto
peso.
L’aria frizzante gli restituiva energia, il passo si
fece via via più svelto quanto più si avvicinava al
fiume.
Tutto era come se lo ricordava, si sentiva felice
anche se erano passate poche settimane dalla sua prima visita, tutto gli
sembrava nuovo e affascinante come se gli avvenimenti a seguito del Jidai
Matsuri non fossero mai accaduti.
Si ritrovò improvvisamente sull’argine del corso
d’acqua che scorreva sotto il tocco leggero del sole, sentiva gli angoli della
bocca alzarsi leggermente e un sentimento intenso esplodergli nell’animo, il desiderio
impellente di saltare lo aggredì con forza ma si trattenne, non sarebbe stato
onorevole per un Saint.
Si limitò ad abbassare lo sguardo e a stringere il
bavero, celando un dolce e spontaneo sorriso, era così simile al fratello in
quel momento...
Il cuore si gonfiò di gioia alla vista del ponte sul
fiume, per un momento gli era anche parso di udire le risate dei bambini intenti
a raccogliere le foglie, quasi gli sembrava di vederli sguazzare nell’acqua
fredda, i kimono colorati zuppi.
Mosso da una forza invisibile, si ritrovò sul sentiero
che portava verso il Santuario Nonomiya, la ghiaia rumoreggiava sotto il suo
passo svelto e impaziente; tutto era ancora avvolto nel silenzio, rari
cinguettii di uccellini erano l’unico rumore che, timido e cristallino,
riecheggiava nell’aurora.
Imboccò risolutamente il sentiero che si snodava
dentro il silenzioso e millenario bosco di bambù, i rami degli alberi facevano
cupola sopra la sua testa, il caldo colore smeraldo che tingeva tutto lo rilassò
un poco, senza che se ne fosse accorto si era improvvisamente
irrigidito.
Continuò a camminare per un tempo indefinito sino a
giungere finalmente a destinazione.
Il Santuario Nonomiya, con la sua grande porta in
legno dipinto, si ergeva dinanzi a lui.
Cominciò a correre, saltando a due a due i gradini che
lo separavano dal piazzale acciottolato, e poi si fermò, esattamente al
centro.
Tutto era tranquillo e
silenzioso.
Tra le fronde delle betulle che cingevano in un verde
abbraccio il tempio, riusciva a scorgere il cielo fiammeggiante, solcato da
nuvolette rosate, un vento leggero gli scompigliò la frangetta spettinata,
strappandogli una tenue risata.
Dalla tasca, estrasse un’armonica a bocca e cominciò a
suonare qualcosa, era una melodia stentata, incerta, segno della poca esperienza
del suo esecutore, però aveva un ritmo allegro e divertente, somigliava a una
marcia; e il ragazzino batteva il tempo con il piede, rompendo quell’irreale
silenzio che il sonno aveva portato.
Le dita corte e affusolate sfioravano il metallo
freddo del piccolo strumento musicale, spostandosi impercettibilmente ora qua
ora là, per mantenere salda la presa.
“Da
lontano non riuscivo a riconoscerti, piccolo. Cosa ci fai qui? Ti sei di nuovo
perso?”
Una voce scherzosa interruppe l’esecuzione del pezzo,
il fanciullo fece una mezza giravolta su sé stesso, scorgendo una sagoma curva,
umana, seduta sul gradino più basso della scalinata che introduceva all’edificio
principale del complesso templare, una lunga veste bianca svolazzava alla
leggera brezza.
Jabu smise di suonare e ripose l’armonica nella tasca
del cappotto, poi si avvicinò al vecchio sacerdote con un inchino rispettoso:
“Non proprio, sono venuto sin qui per mia iniziativa, volevo parlarle.” replicò
a voce bassa; per tutta risposta, l’altro afferrò un lungo e nodoso bastone
poggiato accanto e si tirò in piedi, scacciando la polvere dalla veste, “Sono
tutto tuo!” soggiunse con un sorriso paterno, “Forza, entriamo, non è bene
restare qua fuori per i miei
reumatismi!”.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
“Parla liberamente, gli allievi e gli altri sacerdoti
sono ancora a riposare, prima di qualche ora non saranno in piedi.” lo rassicurò
il vecchio prete, sedendosi a gambe incrociate su un grande cuscino blu notte,
un vassoio con una teiera e due tazze era posto al centro sul pavimento di legno
lucido, la prima luce del giorno che entrava dalla porta scorrevole aperta
permetteva al più giovane di distinguere le venature del legno sul
parquet.
Jabu prese la tazza più grossa e la diede all’anziano
religioso, poi prese l’altra, portandosela alle labbra, la fragranza del tè gli
giunse sino alle narici, inghiottì un sorso della tisana, che andò a sciabordare
nello stomaco vuoto, riscaldandolo sino alla punta delle
dita.
“Toglimi una curiosità figliolo,” interloquì
improvvisamente l’uomo, guardandolo fisso negli occhi, “Tu sei di Tokyo,
giusto?” domandò; Jabu annuì, evitandone lo sguardo, sapeva cosa stava per
chiedergli: “Sono appena le sette del mattino, a che ora sei partito da
casa?”.
Unicorn scrollò imbarazzato le spalle, ma non rispose,
si limitò a tenere ostinatamente lo sguardo basso, disegnando immaginarie figure
circolari nell’aria; il vecchio non fece altre domande, “Da questo tuo silenzio,
ne deduco che tu sia partito molto presto.. Per quale ragione? Non credo ci
fosse tutta questa fretta.” disse pacato, facendogli alzare il
viso.
Il
moretto si tormentò le mani: “Oggi è il mio compleanno…” sussurrò, “E avevo
bisogno di sapere una cosa importante, solo lei è in grado di
aiutarmi.”.
Nella piccola stanza cadde un silenzio
improvviso.
“Dimmi pure, se hai bisogno di me sono a tua
disposizione.” disse tranquillo il sacerdote, guardandolo negli occhi
rassicurante, “Poi se vuoi potrai riposare un po’ prima di ritornare a casa,
saranno preoccupati per te” gli sorrise.
Con un sospiro, Jabu prese coraggio e afferrò lo
zainetto abbandonato contro la porta scorrevole, ne trasse fuori una fragile
foglia d’acero, perfettamente essiccata.
Su c’era scritto
qualcosa.
“Quel giorno scrissi la mia frase su due foglie, una
la lascia sul fiume, l’altra la portai a casa. È da allora che ci penso su…”
incominciò, “In quel momento, la scrissi senza pensarci su, lei però c’era
qualcosa che a me sfugge tuttora, e che sono sicuro che lei ha compreso sin
dall’inizio.” affermò il moro, sfregandosi con insistenza l’occhio sinistro; il
vecchio lo guardò dubbioso, “Cosa intendi figliolo?” chiese interessato,
poggiando sul vassoio la tazza ormai
vuota.
“Fino a quel momento, non mi ero mai soffermato sul
fatto di avere fratelli, sui legami che possono esistere, sulle emozioni che si
possono provare quando si è legati dal sangue come solo dei fratelli possono
essere. Non mi ero mai concentrato sul rapporto che avevo con loro, eppure,
all’improvviso, è successo. E io non so come comportarmi.” ammise
infine.
Dalla finestra aperta entrò come un raggio di sole un
profumato refolo di vento, la foglia, tenuta in mano dal ragazzino, sfuggì alla
sua presa come fumo, volteggiando nell’aria per qualche istante, prima di cadere
sul parquet; il sacerdote la prese tra le dita con delicatezza,
riconsegnandogliela: “Ascolta piccolo…” incominciò, intrecciando le dita in
grembo, “credo di aver capito cosa ti tormenta, ma vorrei che fossi tu a
dirmelo.” asserì serio, fissandolo nei profondi occhi scuri, “Riuscire a capire
cosa ti tormenta così è già un buon inizio.”
assicurò.
Unicorn socchiuse gli occhi, respirando a pieni
polmoni l’aria profumata di terra bagnata e di fogliame, frugò a fondo dentro di
sé, alla ricerca di qualcosa, quel qualcosa che il suo interlocutore aveva già
identificato tempo prima.
“Credo di non essere in grado di essere un buon
fratello. Cioè, non è che non voglia loro bene, ma siamo troppo diversi, la
nostra vita è stata più dura e ingarbugliata di quanto lei possa pensare.
Eppure, per alcuni di noi, è stato più facile trovarsi, sentirsi affini… ma per
gli altri, no. Anche se c’è l’affetto, non c’è quella complicità che, devo
ammetterlo, invidio un po’ a Seiya e agli altri…” sussurrò timidamente, non
riusciva a crederci, era veramente lui quello che stava parlando? Si sentiva
così fragile che quasi non si
riconosceva.
“Quanti fratelli siete?” domandò per prima cosa
l’anziano religioso, “Dieci, me compreso.” rispose Jabu prontamente, riponendo
la foglia dentro lo zaino, “E, da quello che ho capito, alcuni di voi sono
riusciti a instaurare un rapporto di cui tu sei invidioso.” affermò con un
sorriso gentile sul viso coperto di rughe, “Adesso devi ascoltarmi bene, perché
è una cosa importante. Non esiste una ricetta segreta, né un metodo infallibile
per essere buoni fratelli. Io ero il più anziano di una famiglia composta da
cinque bambini, e tra me e gli altri non sempre c’era comprensione, anzi,
tutt’altro, abbiamo passato l’infanzia e l’adolescenza a farci una sorta di
guerra.” rise nostalgicamente, “Eppure, una volta cresciuti, quelle liti che noi
reputavamo importantissime e giuste, quei torti che pensavamo essere tremendi,
invece non erano altro che semplici litigi di bambini. Sei ancora giovane per
capirlo, ma so che ne sei in grado, hai tutta la vita davanti; dici che hai
timore di non essere un buon fratello per loro, ma non è vero, l’importante è
pensare col cuore. Tu vuoi bene a loro? Allora non c’è alcun problema, se c’è
l’amore e l’affetto, c’è tutto e neanche le litigate più violente possono
scalfirli.” spiegò serio, poggiandogli le mani sulle spalle tremanti, i grandi
occhi azzurri dell’uomo nei suoi,
“Hai compreso ragazzo mio?”.
Il moretto sentì la testa girargli per quella mole di
parole che il vecchio sacerdote gli aveva detto, ma le aveva afferrate e capite,
sentiva come se un puzzle si fosse appena completato dentro di lui, come se
qualcosa di sbagliato fosse finalmente tornato al suo
posto.
Annuì debolmente: “Si.. Credo di si…” rispose con un
filo di voce, alzandosi in piedi e muovendo qualche passo in giro per la stanza,
nel tentativo di riordinare le idee…
…Quando all’improvviso, la sua attenzione venne
attratta da una fotografia, ingiallita dal tempo, poggiata su una mensola
accanto alla porta d’ingresso.
Una bambina, graziosa, dai lunghi capelli color del
rame, vestita di un lungo abitino nero, sedeva su una panca in legno grezzo
sotto un ciliegio; sorrideva allegra, le gambe colte in un lento movimento
ondulatorio. Jabu la prese in mano, sfiorando il visetto pallido e con una
sfumatura di tristezza della bambina, di circa sette anni, quei lineamenti gli
erano così familiari…
“Saori-san…
Athena-gami…”
Un sussurro spontaneo gli uscì dalla bocca, perdendosi
nel vento.
L’ anziano si alzò in piedi a sua volta, avvicinandosi
a lui: “Conosci questa bambina?” chiese stupefatto, facendolo voltare, “Si..
Certo… è mia sorella adottiva… Cioè, è una storia lunga da spiegare, ma lei è
una persona fondamentale nella vita mia e dei miei fratelli, il nostro stesso
essere è legato indissolubilmente a lei.” mormorò, rimettendo la cornice al suo
posto, “Quando fu scattata?” chiese poi.
Il volto del vecchio si contrasse in una espressione
pensosa: “Uhm, fammi pensare, è passato tanto tempo e la memoria è alquanto
difettosa!” ridacchiò allegro, accarezzandosi il mento, “Credo che sia dopo la
morte di suo nonno, anzi, sono quasi certo di non sbagliarmi, erano passati due
anni, era venuta con il suo tutore per l’Obon*.” spiegò lui
gentilmente.
“Perché qui?” chiese stupito Unicorno, “Anche
Saori-san è di Tokyo, non ha senso.”
aggiunse.
Ora era
il turno dell’anziano di restare sorpreso: “Non lo sai?” domandò sottovoce,
“Mitsumasa Kido, suo nonno, è sepolto qui, dove è nato tanto tempo
fa.”.
§§§§§§§§§
Crescere senza una
famiglia.
Jabu sapeva benissimo cosa voleva
dire.
Non ricordava il viso della madre, di lei era rimasto
solo lo sguardo triste e allo stesso tempo saccente che lo contraddistingueva a
sua volta, e i capelli neri; il padre invece, era come se non fosse mai
esistito.
E forse, non lo sarebbe mai
stato.
A tutto questo pensava il ragazzo mentre, col viso
esposto al fresco vento d’autunno, stava ritto davanti a un semplice tumulo,
sotto un acero alto e slanciato, le braccia mollemente incrociate dietro la
schiena, lo sguardo asciutto e privo di qualunque
emozione.
Non poteva piangere per un padre che non aveva mai
avuto.
Di lui, era rimasto solo un vago ricordo, appena
ingentilito dal, all’epoca lo aveva definito generoso, gesto di accogliere in
quella grande casa un così grande numero di orfani, un ricordo di una persona
sempre assente e lontana, tremendamente lontana, e il legame di sangue che lo
legava con un filo indissolubile a quel fantasma
sfuggente.
Non poteva piangere per Mitsumasa
Kido.
E neppure
voleva.
Le dure lotte affrontate lo avevano temprato e reso
più forte, una sorta di guscio lo proteggeva, ma dentro era rimasto sempre
fragile come un bambino, una fragilità nascosta dalla baldanza e da una buona
dose di superbia.
Ma era giunto infine il tempo di crescere, di
lasciarsi alle spalle quel passato doloroso, quel passato che lo aveva così
duramente segnato, isolandolo dagli altri suoi fratelli, che lo aveva in un
certo senso reso qualcosa che, in realtà, non era
affatto.
E doveva farlo quel
giorno.
Sentiva che era giusto
così.
Senza versare nemmeno una lacrima, fece una mezza
piroetta, trovandosi dinanzi al vecchio sacerdote, l’uomo lo fissava con
affetto; il più giovane si profuse in un profondo inchino: “Grazie di cuore, non
dimenticherò le sue parole, credo di potercela fare da adesso in poi” sorrise
dolcemente, sistemandosi meglio lo zaino sule spalle, “Buon viaggio figliolo, e
buon compleanno.” disse, abbracciandolo e baciandolo sulle guancie rosse, “E
ricorda sempre, quando sei giù, sorridi.” aggiunse, scompigliandogli la selva
disordinata di ciuffi neri.
Jabu sbuffò, imbronciandosi: “Non sono un bambino!”
esclamò, calandosi il cappuccio sul capo, per poi esibirsi in una gran risata,
“Spero di rivederla presto, padre! Arrivederci! E grazie di tutto!” salutò il
fanciullo, spiccando una leggera corsa verso il
paese.
§§§§§§§§§
Il viaggio di ritorno a Tokyo non lasciò molti ricordi
nella mente del giovanissimo guerriero.
Prese distrattamente il primo autobus che lo avrebbe
portato rapidamente alla stazione, salì sullo Shinkansen strapieno e si rassegnò
a passare alcune ore pigiato tra corpi umani caldi e pesanti, tra respiri
affannosi e imprecazioni colorite.
Ma i suoi pensieri erano
altrove.
Giunto a Shibuya, infine, scese dal veloce mezzo e
s’incamminò nei lunghi e affollati corridoi della stazione, sino a sbucare
davanti alla statua di Hachiko; si fermò brevemente davanti al muso dolce del
bronzo raffigurante il leggendario cane, lo accarezzò brevemente, con calore, e
si diresse a passo svelto verso casa.
Era autunno, eppure il piacevole tepore del sole non
lo faceva presumere, anzi, pareva che fosse perfino tornata la
primavera.
Il percorso in autobus verso il quartiere residenziale
dove si trovava Villa Kido fu tranquillo e silenzioso, era l’unico passeggero a
bordo a quell’ora, e quasi se ne rammaricò, ma cercò di non pensare al silenzio
che lo avvolgeva, concentrandosi sulla
strada.
Scese dinanzi a casa, l’imponente edificio gli parve
più austero e cupo che mai.
Facendosi coraggio, frugò nello zaino e ne trasse
fuori due chiavi lucidissime, legate assieme da una semplice cordicella blu:
senza fare rumore, apri il cancello e si inoltrò nel grande parco deserto e
muto, percorrendo a passo svelto il vialetto ben curato che conduceva al portone
lucido; fece appena in tempo a rifugiarsi sotto il loggione che una voce
imperiosa bloccò ogni suo movimento, si voltò, incrociando il viso del
maggiordomo della Dea: “Dove diamine sei stato, razza di incosciente?!” gridò
Tatsumi, comparso improvvisamente al suo fianco, “la signorina Saori era molto
preoccupata per te, sei scomparso improvvisamente, non ti si riusciva a
trovare!” sbraitò il servitore col viso rosso per la rabbia, “roba da pazzi, dai
più rogne te che quel moccioso di Seiya…” sbuffò, armeggiando con la serratura
della porta.
Un attimo dopo, il ragazzino fu spinto con discreta
violenza dentro casa: “Forza! Saori-sama è nel suo studio, ci sono anche tutti
gli altri mocciosi. Comincia ad avviarti mentre io avverto che sei finalmente
tornato.” sbottò il servitore senza mezze misure, dirigendosi verso il salotto;
Jabu si levò lo zaino dalle spalle e lo poggiò in un angolo assieme alla giacca,
poi cominciò a salire le scale a discreta lentezza, misurando attentamente ogni
passo.
Il suo ingresso nello studio fu accolto da reazioni
contrastanti, tra gli affettuosi abbracci e auguri di Shun, le battutine più o
meno velate di Nachi e Ichi, i borbottii di Ikki e le linguacce che Seiya gli
rivolgeva, seccato, i regali che Geki e Shiryu si erano incaricati di
raccogliere per consegnarglieli.
E poi, il grazioso e gentile sorriso della sua
Dea.
Era una scena molto familiare e conosciuta, eppure
aveva come un sapore nuovo, qualcosa che non aveva mai provato prima gli esplose
nel cuore, qualcosa che lo rendeva immensamente
felice.
Non era necessario chiedersi cosa
fosse.
Lo sapeva, lo aveva sempre saputo, e lo avrebbe saputo
sempre.
E anche se non lo avrebbe mai ammesso, era una
sensazione stupenda essere
fratelli.
POSTFAZIONE
Ennesima postfazione, ammetto che mi piace molto
scriverle.
Questa notte sono qui per celebrare moltissime
cose.
Questa fan fiction, BE BROTHERS, ha un significato
importante per me per svariate ragioni, primo fra tutti che si tratta del mio
primo vero, serio traguardo come scrittrice: la CENTESIMA MIA
OPERA.
Ora, lo so che sembra stupido, ma è una cosa davvero
importante per me. Il mio percorso nel mondo delle fan fiction cominciò proprio
con i Saint, in quel lontano 2007 e, benché tuttora io stia lavorando su molti
progetti, ho deciso di scegliere questa come mia centesima, per celebrare questo
connubio che prosegue ormai da 3 anni.
BE BROTHERS è anche un regalo, il regalo di compleanno
per Unicorn Jabu, un personaggio che spesso viene erroneamente disprezzato ma
che io invece apprezzo particolarmente per la sua personalità così
strana.
BE BROTHERS è una sorta di minestrone, che raccoglie
alcune delle occasioni più importanti per me e mostra come, in questi anni, io
sia cambiata, sia, in un certo senso
cresciuta.
Ho lottato duramente per giungere sino a qui, ho
incontrato persone, ho fatto amicizie, ho sofferto e ho
riso.
Queste cento fan fiction raccontano un pezzo di me,
raccontano una me che non è ancora giunta alla fine di un percorso, ma è solo
all’inizio.
Quindi grazie a tutti, è stato solo grazie a voi se
sono riuscita ad arrivare sin qui.
GRAZIE.
Charlie