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Autore: cartacciabianca    21/01/2010    3 recensioni
"Mi girai di colpo, trovando il suo viso a pochi centimetri dal mio. Non osai indietreggiare ancora, anzi. Lo fissai con rabbia negli occhi. –Se ti serve una mano, perché non vai a chiederla a Karen?! Sono sicura che lei farebbe i salti mortali per…-.
-È morta- infierì crudo.
Non mi scomposi di un capello. –Anche questo non è un problema mio- ma in realtà gioivo ringraziando Dio.
-Sono stato io ad ucciderla- aggiunse Alex senza timore.
Arricciai il naso, cosa che mi capitava quando avevo paura. Di fatti cominciai a chiedermi se Alex non fosse davanti a me per lo stesso motivo che lo aveva spinto ad uccidere Karen.
-Non pensarlo nemmeno- eruppe lui, come leggendo i miei pensieri.
-E allora perché…-.
Non riuscii a concludere la frase."
Dedicata a Saphira87, l'altra utente che opera in questa sezione! XD
Genere: Romantico, Malinconico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: OOC, What if?, Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Protagonista: [link]
[SURVIVOR]

Un sibilo lontano e indistinto si faceva sempre più vicino, più intenso.
Un’esplosione.
Un boato assordante.
E vennero giù le pareti, i pavimenti e i soffitti.
Le grida, il fumo, i pianti.
Per la strada si riversò una fitta coltre di polvere e detriti che picconarono l’asfalto, onde le macchine inchiodarono con brusche frenate improvvise. Il cielo si oscurò di quella nube, stormi di corvi cantilenano già per il pasto imminente, la gente strillava spaventata fuggendo in vano a quello spettacolo di morte, caos e distruzione.
Non più una sola stella apparve nel firmamento. Quando tutto fu di nuovo pacioso e silenzioso come la notte stessa, quando i lampioni furono spenti e altri spezzati a metà, solo allora si sentì di nuovo la quiete. La gente era ormai fuggita via tutta. I bombardamenti militari andavano avanti da giorni su Manhattan, il Governo non dava tregua al Virus, ma nemmeno alla sua popolazione.
Quel presagio apocalittico, quel missile calato d’un tratto dal cielo e schiantatosi sul tetto di quell’edificio ora ridotto a macerie, l’avevo visto apparire come dal nulla dietro una nuvola. Le luci intermittenti e il frastuono dei motori del caccia che aveva sganciato l’attacco si erano allontanate subito dopo eseguito il comando, rispettato l’ordine.
Un intero distretto di Manhattan era stato spazzato via come il sospiro sulle candeline il giorno del tuo 11esimo compleanno, quando sei ancora bambino e puoi permetterti di soffiare con tanta forza e gioia da spazzare via un elefante, mentre le guance ti si colorano di rosa e le labbra s’inumidiscono passandoci la lingua. Già assapori la torta, la panna, il cioccolato e le fragole in essa nascoste. E godi al profumo di coca-cola e aranciata che viene dai bicchieri lasciati mezzi vuoti dai tuoi amici sullo stesso tavolo.
La situazione è simile se ci pensiamo: ecco l’esercito americano che “soffia” sulle “candeline” ammazzando 568 civili, di cui solo lo scarso 20% è probabilmente infetto. La puzza di bruciato, combustione e arrosto è nauseabonda dopo il passaggio di uno di quei missili. Quell’acre sapore amarognolo si mescola al Bloodtox e al Virus in un modo inaudito, intollerabile, che corrode il setto nasale dall’interno.
Strano pensare queste cose, che brancolavano di routine nella mia testa fin da quando, fuggita ad una simile situazione, mi ero ritrovata senza un tetto dove stare assieme a tutti gli inquilini del mio palazzo. Le cause dell’abbandono però erano state diverse, molto diverse. Si era trattato infatti di un contagio. La palazzina dove abitavo assieme a mio fratello maggiore Rayan, deceduto sotto le macerie, si era scoperto infettato dal Virus con il 70% degli inquilini risultati positivi. Il governo americano aveva distrutto il nostro quartiere senza avvertire nessuno, ed io, fino ad oggi, credevo di essere l’unica sopravvissuta.
Seduta su un cumulo di detriti, miravo al paesaggio apocalittico che mi appariva davanti. Grattacieli distrutti, nubi di fumo, incendi, boati di spari e ruggiti di furiosi di cacciatori. La zona a nord sulla quale affacciavo era diventato campo di battaglia tra militari ed infetti. Le urla strazianti, le esplosioni.
Ed io, tutta tranquilla, sul pizzo di quelle macerie, con le gambe a penzoloni fissavo lo spettacolo come fossi a teatro.
Quel giorno, come tutti quelli precedenti, avevo indosso gli abiti coi quali ero fuggita dall’attacco al mio quartiere. Pantaloni elastici, aderenti che terminavano negli stretti stivali comodi e sportivi fino al ginocchio. Il fodero di una pistola con l’arma all’interno legato alla coscia da una parte e un segnalatore rubato ad un accampamento militare sull’altra, tenuto stretto alla stessa cintura dalla quale pendeva una sacchetta in cuoio con alcuni effetti personali. I pugni serrati in grembo, una mano guantata carezzava col pollice l’impugnatura di una torcia a risparmio energetico che di giorno catturava la luce solare attraverso un pannello verde incorporato. La tenevo spenta, nonostante la notte si stesse facendo sempre più scura e intensa del suo freddo e dei suoi venti che sollevavano polvere e sangue secco. Contro il clima sfavorevole che si formata di quella stagione a Manhattan portavo anche una felpa di sintetico; sottostante una maglietta a mezze maniche a righe orizzontali verde chiare e scure. Un’ancora vuota e leggera borsetta a tracolla, lo zaino in spalla anch’esso piuttosto scarso di contenuti. Un fazzoletto alla western tenuto pendente al collo lo usavo soprattutto nel traversare zone a rischio di contagio. In fine, il mio viso: un po’ tondo ma fino, giovane a mostrare la mia età di ventisei anni da compiere. Gli occhi di un azzurro così chiaro da sembrare quasi grigi se non bianchi. Persino i capelli, di un biondo sbiadito da parere tinto, assumevano quella particolare tonalità albina. Acconciati in un taglio corto e giovanile, liscio, ordinato, ma tenuti compatti dagli speciali occhiali per la visione notturna.
Questa sono io: Lizbeth Aileen Hill. Ma potete chiamarmi Lizzy.
Mio padre era avvocato giudiziario. Mia madre morì quand’ero piccola. Mio fratello Rayan perse la vita nel bombardamento militare di un anno fa (ovvero il tempo esatto da quanto l’infezione va avanti).
Mi riscossi con violenza dai miei pensieri, riportata alla relatività delle cose dal ricordo del perché mi ero spinta così lontana dal mio rifugio di a Central Park. Fischiai portandomi due dita alla bocca.
Il sibilo partì e si espanse per tutta la strada, vagando e rimbombando da una parte all’altra. Ma non c’era orecchio umano che potesse accorgersene poiché fosse coperto da centinaia di altri spari e rontolii più lontani provenienti dalla guerra.
Da un cumulo di macerie più un basso alla mia attuale posizione, spuntò il pelo marroncino di un bellissimo golde retriver.
-Mitch, vieni qui- chiamai sollevandomi in piedi. –Avanti- disse anche dando le spalle al cane e incamminandomi nella direzione opposta alla guerra che si combatteva di pochi isolati distante.
Il cane abbaiò sotto tono e scalò la parete di detriti con grande abilità e agilità, giungendomi affianco con la lingua pendente dalla bocca. Quando mi fermai, mi chinai alla sua altezza per carezzargli con vigore il pelo lungo la spina dorsale, e la cosa gli piacque assai. Stirò in avanti le orecchie asciugandosi la bocca della saliva, che però continuava a gocciolare dalla lingua.
Mitch era il cane di mio fratello. Con me non aveva mai avuto un ottimo rapporto, ma da quando c’era stato l’incidente, si era visto costretto a stipulare verso la sorella del suo padrone un accordo di reciproca alleanza. Da allora era stato fedele, coraggioso e, cosa più importante, sempre al mio fianco. Quanti morsi aveva dato agli infetti che avevano cercato di avvicinarsi a me… avevo perso ormai il conto.
-Andiamo a cercare da mangiare, che ne dici?-.
Mi diede una leccatina alla mano.
-Lo prendo come un sì- arrisi tornando diritta. Mi sollevai il fazzoletto alla western davanti al naso e alla bocca, accesi la torcia e m’incamminai. Il cane mi sorpassò con un salto facendomi strada tra le macerie polverose e oscure di quello che un tempo era stato un minimarket.
L’ingresso era per metà intasato da altre macerie. I frammenti della porta a vetri sfondata si sparpagliavano al suolo scricchiolando sotto le suole dei miei stivali.
-Attento, stupido!- dissi a Mitch che si era pericolosamente avventurato sopra quei pezzi taglienti.
Il cane s’immobilizzò un istante, dopodiché spiccò un salto e fu ben oltre la scia di vetri, andando a curiosare e annusare nel buio dove la luce della mia torcia non arrivava. Il ticchettio degli artigli delle sue zampe sulle mattonelle del pavimento si fece distante, anche troppo.
-Stammi vicino, Mitch!- come non detto.
L’avevo già perso di vista quando mi avvicinai ad alcuni scaffali che ospitavano dei cereali confezionati e componenti per “una buona colazione”, quali biscotti, caffè… il resto del locale era andato sopraffatto dal tetto crollato e le pareti ridotte a mattoncini. L’unica ala visitabile del minimarket era dunque quella.
Mitch riapparve all’improvviso dietro l’angolo. Quando gli puntai la luce della lanterna negli occhi, essi mandarono un bagliore rosso intenso che inizialmente mi fece correre un brivido lungo la schiena. Sobbalzai, mi sfuggì un gridolio, ma il cane mi venne incontro scodinzolando e con una scatolina di latta tra i denti.
Gliela tolsi dalla mascella e me la rigirai nella mano. Era cibo per cani in scatola. Ridacchiai. –Va bene, lo compriamo. Portalo alla cassa- dissi giocosamente carezzandogli la testa.
Mitch mandò un abbaio e si riprese la scatolina dalle mie mani, puntando dritto verso l’uscita del minimarket, dove un tempo c’erano le casse automatiche, scodinzolando.
Continuai la mia ricerca di cibo umanamente commestibile in un reparto secondario, addentrandomi poi direttamente nel magazzino del locale, oltre quella soglia mezza distrutta che dava su un grande salone affogato nel buio delle luci fulminate e delle pareti crollate. Mi feci luce con la torcia e stetti molta attenta a dove mettevo i piedi. Trovai in quel magazzino degli scatoloni imballati con del nastro adesivo, del quale mi liberai alla svelta usufruendo del coltellino svizzero sempre a portata di mano. Tagliai il nastro e, chinandomi sullo scatolone, ne tagliai una metà. Vi trovai del pane in cassetta prendendone due sacchi da trenta fette tagliate ciascuna. Dopodiché, saccheggiando un secondo scatolone, riportai alla luce del latte a lunga conversazione.
-Merda- sibilai. Nonostante la confezione appositamente studiata e il trattamento perché durasse più del latte normale, era ormai andato. La scadenza risaliva a più di un anno prima. Era stata una cretinata anche solo pensare di poter bere del latte.
Pane in cassetta, cereali, formaggi… erano vivamente sconsigliati i cibi freschi, gli affettati e le carni, che rappresentavano esponenti più probabili per un contagio.
Lasciai il magazzino con quelle due sacche di pane in cassetta e qualche scatole di cereali che mi apprestai a sistemare nello zaino poggiandolo a terra. Quando ebbi fatto il “pieno” mi avviai verso le “casse” del minimarket.
Improvvisamente udii un rantolio cupo e profondo provenire da dietro l’angolo degli scaffali. Questo suono fu seguito da un lungo abbaiare rabbioso di Mitch.
-Ehi, bello…- proferì una tetra voce maschile.
-Mitch!- chiamai affrettando il passo. Portai avanti la torcia e, una volta svoltato l’angolo, la puntai dritta davanti a me.
La luce andò a posarsi sul volto di un uomo bianco per metà coperto da un cappuccio. Vidi balenare nel chiarore della lampada due agghiaccianti occhi azzurri, e come la lama di un coltello, quello sguardo che durò circa un attimo, mi trafisse all’altezza dello stomaco.
-Alex…- sussurrai a fior di labbra.

Si voltarono entrambi verso di me, sia Mitch che il ragazzo. Ma fu solo quest’ultimo a parlare: -Ciao Lizzy- salutò facendo una carezza sulla testa del mio cane, che nel frattempo scodinzolava felice come non mai.
Lasciai cadere la torcia, la cui plastica andò in frantumi nel momento in cui toccò terra. Restammo al buio
-Ne è passato di tempo- sorrise affabile Alex distogliendo la sua attenzione dal cane. Mosse un passo verso di me. –Ma tu non sei cambiata-.
Indietreggiai. –Stammi lontano- eruppi. –So cosa sei… e non voglio averne a che fare. Mitch, vieni qui- ordinai al mio cane, ma questi continuava a scodinzolare ai piedi del mio conoscente.
-Mitch, avanti, andiamo- ribadii più severa, ma nulla da fare. Mitch scodinzolava felice con la lingua di fuori, seduto ai piedi di Alex. Alla fine dovetti arrendermi e sbuffare. –Cosa vuoi?- chiesi con arroganza.
-Mi serve il tuo aiuto- pronunciò senza tono.
-Sei sordo, per caso?!- ringhiai. –Ho detto che non voglio avere più a che fare con te, Alex! Non lo volevo tre anni fa, non voglio adesso! Le cose non sono cambiate, ed io nemmeno- borbottai seria sistemandomi meglio lo zaino in spalla e dirigendomi fuori dall’edificio, aggirando la sua tetra figura. Sotto sotto ancora bestemmiavo, perché la mia ultima torcia buona era andata a farsi benedire, e tutto per colpa sua. Uscii dal minimarket col muso lungo e la fronte corrugata. Camminavo per strada senza mai voltarmi indietro, e sentivo le unghiette delle zampe di Mitch ticchettare tra i detriti e le macerie e nient’altro, ma lo sapevo: Alex era con lui, seguendomi accanto al mio cane con passi inudibili.
Mi girai di colpo, trovando il suo volto a pochi centimetri dal mio. Non osai indietreggiare ancora, anzi. Lo fissai con rabbia negli occhi. –Se ti serve una mano, perché non vai a chiederla a Karen?! Sono sicura che lei farebbe i salti mortali per…-.
-È morta- infierì crudo.
Non mi scomposi di un capello. –Anche questo non è un problema mio- ma in realtà gioivo ringraziando Dio.
-Sono stato io ad ucciderla- aggiunse Alex senza timore.
Arricciai il naso, cosa che mi capitava quando avevo paura. Di fatti cominciai a chiedermi se Alex non fosse davanti a me per lo stesso motivo che lo aveva spinto ad uccidere Karen.
-Non pensarlo nemmeno- eruppe lui, come leggendo i miei pensieri.
-E allora perché…-.
Non riuscii a concludere la frase perché un bisogno improvviso di chiudere gli occhi m’invase, dettato dal sapore e dalla morbidezza delle sue labbra che si posavano improvvisamente sulle mie. Erano fredde come il ghiaccio, ma dolci come un gelato d’estate. Il primo impulso fu quello di respingerlo, perché se assieme alla freddezza della sua pelle percepivo anche il puzzo di virus, preferivo di gran lunga astenermi. Ma poi mi tornarono alla mente tutti quei ricordi, che come un vortice presero a girarmi attorno sempre più velocemente.
Sentii le sue mani posarmisi sul viso nella richiesta di avvicinarmi di più a lui. Lo assecondai, scaricando la tensione nel gesto di muovere un passo nella sua direzione, così da trovarmi avvolta dal suo corpo. E mentre le sue labbra si muovevano in perfetta sincronia con le mie, gli posai un palmo sul petto, all’altezza del cuore. Sentendolo battere lento, misurato, ma forte come un tamburo sotto i polpastrelli e anche attraverso il tessuto di giacca, felpa e camicia, ebbi come la conferma che qualcosa di umano in lui c’era ancora, e mi piaceva pensare che fosse l’amore che provava per me.
Quando si scostò da me per guardarmi negli occhi così come stavo facendo io, chiesi flebile: -Allora, perché hai bisogno del mio aiuto?-.
Alex mi carezzò la guancia col pollice. –Ho bisogno di te e basta-.



   
 
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