Copyright: I personaggi Lala, Gsor e
i citati “senza nome” Allen Walker, Yuu Kanda e Toma il finder
sono di proprietà di Katsura Hoshino (e lei è continuamente idolatrata per aver
creato tutta questa gente <3).
La schifezza qui di
seguito è invece proprietà mia e_e”
Dedica: La dedico al mio baKanda, che mi
supporta anche quando scrivo una cosa orribile. E
succede spesso, coff.
Let me sing
“Io sono una bambola costruita dagli umani
La mia ragione di vita è funzionare per loro.
Fammi cantare.”
Non avevo ben chiaro il
motivo per cui, inspiegabilmente, avevo continuato a
cantare. E a chiedere che canzone volessero ascoltare,
se avessero voluto vedermi ballare, se gli sarebbe piaciuto vedermi volteggiare
con quella grazia loro stessi mi avevano donato – forse, non lo ricordavano
neanche.
Continuai a cantare anche
quando loro persero attenzione per me. Sapevo che da qualche parte nella loro
testa, in qualche modo mi stavano ascoltando, e aggrappandomi
a quella consapevolezza non smettevo.
Continuai a cantare anche
quando, pian piano, iniziarono a sparire tutti. Risucchiati. Li vedevo andare
via, a gruppi, a masse di uomini, oppure da soli,
spaventati, alcuni speranzosi, quasi felici
di andare via, lasciandosi alle spalle la città, le loro case, la loro vita. E noi.
Continuai a cantare a lungo,
da sola. I muri di pietra mi ascoltavano, le erbacce mi ascoltavano,
i labirinti sotterranei mi facevano da eco, come una compagnia a lungo cercata
e desiderata.
Non smettevo di cantare.
La mia speranza furono degli uomini.
Cinque. Il primo mi colpì urlando qualcosa di insensato,
tentando di rompermi come la bambola che fui, quando io gli avevo solamente
chiesto se voleva sentirmi cantare.
Fammi cantare. Ti prego.
Voleva uccidermi.
L’ho ucciso io.
Ti prego, fammi
cantare.
Il secondo mi sfregiò. Il mio
occhio sinistro scivolò via dall’orbita artificiale, perdendosi nel buio.
Urlando, cercò di scappare, di distruggermi, di fuggire via.
L’ho ucciso.
«Mostro!»
Il terzo mi afferrò per i
capelli, cercando di farmi del male. Ma io ero una
bambola, la sofferenza fisica non corrispondeva a nessuna reazione.
L’unico dolore che potevo
percepire era il loro secco e terrorizzato “no” alla mia semplice domanda.
Eppure io avevo solo chiesto loro di farmi cantare.
Desidero solo cantare per te.
Anche il quarto mi aveva afferrato per i capelli – si erano
ridotti ad una massa informe, nera, lontana dal colore originario datomi dagli
stessi che me li stavano distruggendo. Si erano macchiati di sangue, così come
i miei vestiti sbrindellati, le crepe dell’orbita vuota distruggevano il mio
viso, sul fondo nero ancora si percepiva l’inquietante luccichio dell’occhio
che fu.
Signor umano, fammi cantare.
Il quinto, aveva subito la
stessa fine. Mi avevano picchiata, senza pietà, nonostante la mia semplice,
innocua, vitale domanda.
«Volete che vi canti una canzone?»
Quel bambino era il sesto.
Erano passati cinquecento anni da quando gli abitanti
di Mater avevano abbandonato la città, cercando vita altrove, perché quella non
era vita.
Mi sentivo amareggiata,
abbandonata, perché loro non avevano prestato attenzione al mio canto. Vivevo
contagiata dalla speranza che presto sarebbero tornati a riprenderci, perché
riprendessimo a cantare per loro, a rallegrarli, ad illuminare la loro vita
buia – perché era per questo motivo che ci avevano create,
che ci avevano dato la vita. Era per questo che custodivo gelosamente il mio
cuore, quel cuore che mi permetteva di funzionare anche dopo così tanti
anni, anche in quelle pietose condizioni così diverse dal mio originario
aspetto, quel cuore che mi rendeva diversa dalle mie compagne, che nel tempo
avevo visto rompersi davanti ai miei occhi.
Quel bambino, era il sesto.
Lo avevo trovato, piangente,
in una delle vie di Mater; una via interna, sperduta.
Mi chiesi per un folle istante come avesse fatto a
trovarsi lì, un bambino. Era piccolo, smarrito, terrorizzato. Piangeva – io non potevo piangere. Per un momento lo
invidiai.
Lo osservai a lungo, nascosta
nelle macerie. Sentivo i suoi singhiozzi, dentro di me li sentivo rimbombare,
vedevo la sua figura seminascosta dal cappuccio tremare, le manine chiuse a
pugno sul viso che vedevo di sghembo. Mi sembrava quasi di vedere le lacrime
scintillare nella luce notturna.
Finché, contenta di avere un
altro umano per cui cantare, ero sbucata dal mio
nascondiglio, trotterellando verso di lui – sentivo i miei piedi nudi
crocchiare sul pavimento di pietra dura, le articolazioni fittizie
scricchiolare.
Un umano…
Un umano.
Un umano.
È un umano.
Torreggiai su di lui, la luna
illuminava debolmente i contorni sfocati e spettinati dei miei capelli, e
l’unico occhio rimastomi integro si era fissato su di
lui, la palpebra immobile, perché inutile era il suo moto.
«Piccolo… volete che vi canti una
canzone?»
Ero fiduciosa. Lui non mi avrebbe rifiutato – se l’avesse fatto, lo avrei ucciso.
“Io sono una bambola costruita dagli umani
La mia ragione di vita è funzionare per loro.
Fammi cantare.”
Non esisteva il senso della
vita, al di fuori di quello che avevo stampato nella mia assurda mente, nel mio incredibile cuore, quello che ripetevo ossessivamente
dentro di me da cinquecento anni, forse di più.
Il bambino alzò gli occhi
gonfi di lacrime su di me. Vidi che uno era pesto, il viso non era bello a vedersi, era butterato e il lato sinistro, quasi a
specchio del mio, era orribilmente sfregiato.
E mi sorrise.
«Una canzone?
Canteresti per me…?
Nessuno l’ha mai fatto!»
Provai una sorta di pena per
lui. Nessuno aveva mai cantato per quel bambino. Che
vita triste doveva essere stata, la sua.
«Io mi chiamo Gsor…
Canta, signorina fantasma.»
Per lui fui “signorina fantasma”.
Non più “mostro”.
Gli cantai la mia ninna nanna
migliore. Era un bambino, era stanco, era provato, era felice di sentirmi
cantare, così lo lasciai stendere sulle mie gambe e cantai per lui, finché non
lo vidi addormentarsi, un sorriso obliquo e contento sul viso sfregiato.
La mia
domanda più consueta, era sempre la stessa: “Gsor, cosa vuoi che ti canti
adesso?”. Ma
lui non sembrava mai stancarsene.
Iniziammo a girare la città,
la città che io avevo imparato a memoria e che feci
conoscere anche a Gsor. Trovammo dei vecchi abiti – sapevo già che erano lì, ma
per me non avevano alcuna utilità e li lasciai stare.
Mi feci convincere da Gsor, diceva che una “signorina fantasma” come me doveva avere un
vestito vero, e non logoro come quello.
Trovammo un pettine, e Gsor
si arrampicò sul tavolo del nostro rifugio – tra i tanti – e mi
indicò lo sgabello ove sedermi. Iniziò a pettinarmi i capelli, a
ricondurre quella massa informe al suo originario stato.
Gli fui grata, per quel
gesto.
«Guarda come sei diventata bella, Lala!»
«Lala?»
«È il tuo nome, signorina fantasma. Posso chiamarti
così?»
Sì che puoi.
Gsor mi bendò l’occhio,
nascondendolo alla vista. Mi trattava come se fossi una ragazza, nonostante le
strane antenne che avevo sulla testa, nonostante la chiara impressione robotica
che davo di me stessa – lui coglieva quel cuore che strenuamente avevo difeso,
per tanto tempo.
Io non percepivo il tempo
passare. Lo contavo, perché era un passatempo, un modo per quantificare il mio
spazio, le mie ore, il trascorrere dei mie periodi vitali
– vita? Potevo parlare di vita? Gsor diceva di sì.
Cosa vuoi che ti
canti, adesso?
Così fu Gsor a dirmi che erano passati quasi ottant’anni,
da quando ci eravamo trovati. Gsor era orribilmente invecchiato, ma ancora
adorava le mie canzoni, sentire la mia voce, la mia
ninna nanna prima di dormire. Era vecchio, stanco, bisognava
di me per ogni minimo movimento.
E io ero felice. Perché Gsor sentiva
davvero il senso della mia vita. Mi lasciava cantare per ore, mi
chiamava se gli serviva aiuto, mi parlava e mi lasciava parlare.
Io non me ne resi conto, ma fu lui a dirmi che avevo
“sviluppato una coscienza”. Non ero più la sua “signorina
fantasma”, ero Lala. La sua Lala, gli dissi.
Lui sorrise e stancamente,
annuì.
La “sua” Lala.
Andava tutto bene.
Finché
arrivarono quelli. Fu la prima volta che vidi Gsor spaventato. Lo fu
tanto da contagiarmi e provai la paura, per la prima volta – paura,
mista ad un folle bisogno di proteggere Gsor, di non lasciare che lo
uccidessero, di non lasciare che gli facessero male in alcun modo.
Erano tre. Tre strani mostri
a forma di palla – mi sorpresi, a pensar di loro come dei “mostri”, quando
erano stati degli umani ad additare proprio me in quel
modo.
Volevano attaccare me e Gsor.
Dicevano di mirare all’ “Innocence”.
Io non avevo idea di che cosa fosse, l’Innocence, ma uno strano senso di agitazione apprensiva
dentro di me mi suggeriva che doveva essere lui.
Il mio cuore.
Quello che mi permetteva di muovermi come Gsor voleva che mi muovessi.
Arrivarono degli umani, a
proteggerci. Ma in qualche modo sentivo che se la
stavano cavando male. Uno di loro morì, finché non riuscirono a rinchiudere i
mostri in strani campi di energia. Dissero di volerci aiutare
ad ogni costo e chiusero anche me e Gsor, abbracciati nella disperazione, in
una delle sfere difensive.
Gsor era vecchio, stanco,
malato di una malattia che non potevamo curare. Aveva quasi cento anni e lo
sentivo vicino a me come non mai. Temevo per lui, temevo
che quegli strani mostri ci avrebbero ucciso.
Gli umani si erano
organizzati, nonostante la paura e la serpeggiante sensazione di inquietudine che provavano tutti, anche Gsor – e quindi
anch’io.
La sensazione che non ce l’avrebbero fatta. A proteggerci. A sconfiggerci. A
rimanere vivi e a tornare a casa – il mio cuore mi permetteva di leggere nei
loro occhi quel desiderio bruciante.
Improvvisamente, una delle
sfere si lacerò. Uno dei mostri non era più a forma di palla, parlava, e aveva
assunto una forma antropomorfa.
Anche se la sua voce era metallica, Gsor rabbrividiva al
sol sentirla.
Anche se il suo corpo aveva strane giunture, gonfiori dove
non avrebbero dovuto essere, mani troppo lunghe, piedi troppo distorti.
Faceva paura. Strinsi Gsor
più forte, gli sussurrai di cantare, lui mi chiese per favore di non farlo.
Fu la prima volta.
Ma io – forse, era il mio cuore – capii. Vedendo la mia
espressione, nonostante la stanchezza, mi aveva sorriso, promettendomi di
ascoltarmi non appena saremmo stati al sicuro. Gsor era sicuro che ci avrebbero
salvati, e all’improvviso io lo fui con lui; se Gsor
era convinto di qualcosa, la sua convinzione mi contagiava, inevitabilmente.
Anche se…
«Lala, scappa.»
No. Non sarei mai riuscita a scappare,
lasciandoti qui. Dietro di me.
Come avevano fatto gli
abitanti di Mater, molto, molto tempo prima.
«Va tutto bene, Gsor. Tu sei stato l’unico ad
accettarmi.»
Fu improvviso. Proprio mentre
quello strano mostro con gambe e braccia distruggeva tutto e tutti, i suoi
compagni, i suoi nemici, cercando di penetrare
all’interno della nostra barriera, apparve un ragazzo.
Aveva i capelli bianchi, uno
strano braccio che emanava bagliori e che sentivo distintamente vibrare, e
l’aria davvero… arrabbiata? Non capii come seppi
riconoscere, distinguere, dare un nome a quell’espressione.
Ricondussi tutto al mio
cuore.
Dietro di lui, mentre era
riuscito ad impegnare il mostro in un combattimento, apparve un altro ragazzo,
ed un altro ancora al seguito. Questo nuovo, dai capelli lunghi e neri, dai
lineamenti contratti e senza emozioni visibili, ci liberò dalla sfera mentre il bianco combatteva col mostro, e ci scortò
via.
Mentre ci trasportava lontano dal luogo dello scontro, gli
spifferai dei corridoi sotterranei. Meditavo di nascondermi lì con Gsor, non
appena avessero abbassato la guardia.
Il ragazzo abboccò, e ci
nascondemmo, mentre gli echi del combattimento giungevano fino a noi.
Chiese a Gsor se conosceva la
città sotterranea, e lui rispose di conoscerla.
Prese il mio posto.
Finse di essere la bambola, e
io una bambina umana che aveva raccolto, e preso con sé. Con i capelli
raccolti, il viso bendato per metà e un cappello che nascondeva la parte
superiore del mio capo, potevo sembrare davvero una bambina umana. Non capii,
però, perché Gsor mi avesse protetta.
Fu come avevo progettato, e
io e Gsor non appena ci fu possibile, ci defilammo.
Riuscimmo a giungere nella
sala principale, quella dove quasi seicento anni prima la gente di Mater amava
incontrarsi, sedersi e lasciare che le bambole facessero
il resto, cantando, ballando, facendoli divertire.
In quel momento c’eravamo
solo io e Gsor. Soli. Uniti. Se eravamo insieme, tutto
sarebbe andato bene.
Gsor, stava male. Tossì e
dalla sua bocca fuoriuscirono fiotti di sangue, che si depositarono a terra,
macchiando la sabbia e il terriccio.
«Gsor… non ti rimane molto tempo, vero?
Non c’è niente… che io possa fare?»
Ero combattuta.
Sapevo di non poter fare
niente per aiutare Gsor e la cosa, in qualche modo, mi distruggeva. Non nel
senso letterale del termine, perché era il cuore a mantenermi in vita e solo
senza di lui avrei potuto davvero “distruggermi”. Non so spiegare il tipo di
sensazione che provavo, a metà fra gratitudine – perché Gsor aveva mentito a
quel ragazzo – e paura. Perché gli umani non sono
immortali.
Gli umani muoiono – e Gsor,
presto, sarebbe morto.
Non volevo restare sola senza
di lui.
Così lui mi fece una strana
domanda.
«Stai piangendo, Lala?»
Era una domanda senza alcun
senso, perché io non potevo piangere, e lui lo sapeva bene.
Gli chiesi perché avesse
mentito.
«Quando sarò sul punto di morire, lascia che ti rompa
con le mie mani.»
Ne fui sorpresa.
Era la prima volta che mi
chiedeva esplicitamente di stargli vicina, così lo abbracciai.
E come tempo prima gli dissi che ero la “sua” bambola. La sua Lala.
«Cosa vuoi che ti canti,
adesso?»
Fu terribile.
Il ragazzo dai capelli
bianchi aveva scoperto il nostro segreto, sentendoci parlare.
Istintivamente lo attaccai,
perché come aveva detto il ragazzo dai capelli neri, dovevano recuperare e
proteggere quell’Innocence. Il mio cuore.
Ma io dovevo essere rotta da Gsor.
Quel ragazzo, si difese, mi
capì. Quel ragazzo, nonostante le proteste e le minacce del compagno, voleva
proteggermi. Voleva aspettare che Gsor morisse, così da lasciare che mi
rompesse lui. E solo allora prendere il cuore, e
andare via.
Fu un singolo istante di
salvezza.
Poi il mostro ci attaccò.
Non ricordo cosa provai, quando il
mostro disinserì il mio cuore.
Mi spensi, in senso fisico.
Dentro di me provai solo un enorme senso
di vuoto.
E
ossessivamente dentro di me ripetevo un solo e semplice nome.
Gsor, Gsor, Gsor, Gsor…
Quando mi risvegliai, ritrovai quella stanza.
E pensai “qui è dove la gente si riunisce, ci fa
ballare”. Vidi le colonne distrutte, la sabbia, ma non m’importò.
C’era un umano, davanti a me,
disteso, in una pozza di quello che – se ricordavo bene – si chiamava sangue.
«Signor umano… volete che vi
canti una canzone?»
Il mio unico occhio da
bambola rifletteva la sua immagine, senza vederla.
Allungai
una mano verso di lui, sentivo le
giunture distaccarsi, le dita muoversi in maniera inarticolata.
«Signor umano… io sono una
bambola… canto, sapete…
Signor umano…»
Gsor.
Cosa vuoi che ti
canti, adesso?
Piccolo… volete che vi canti una
canzone?
L’umano mi guardò. Dai suoi
occhi stanchi, mezzo ciechi, uscivano dei fiumi di quelle che – se ricordavo
bene – si chiamavano lacrime.
Gli inzupparono
la faccia, scesero sul terreno.
«Canteresti per me?»
Ne sembrava sorpreso.
Lala.
Ti voglio tanto bene.
Chiuse gli occhi.
Pensai che stesse dormendo,
così decisi di cantargli una ninna nanna. Sentivo il mio corpo arrugginire, il mio occhio deteriorarsi, ma la mia gola funzionava ancora,
mi permetteva di emettere suoni.
E iniziai a cantare.
Io non percepivo il tempo
passare. Non lo contavo, perché in quel momento stavo cantando. Non c’era altro
senso, per me, nell’esistere.
“Io sono una bambola costruita dagli umani
La mia ragione di vita è funzionare per loro.
Fammi cantare.”
Mi fermai. Non so dire
esattamente quando, ma senza preavviso, la voce mi morì in gola, il mio cuore ebbe un fremito. Aprii e chiusi gli occhi, mentre accanto a
me percepivo una presenza.
Tenevo la testa di (Gsor) tra
le mani.
Il ragazzo dai capelli
bianchi si inginocchiò al mio fianco.
E provai nuovamente un moto
di gratitudine, così mi venne naturale dirgli
«Grazie.
Per avermi lasciato cantare finché non
mi sono guastata.
Così ho potuto mantenere la promessa.»
Sentii il cuore
disinnescarsi, scivolare via dal mio corpo, lasciandomi vuota.
Solo una cosa rimbombava,
dentro di me, ossessivamente.
Gsor, ti voglio tanto bene. Gsor, ti
voglio tanto bene.
Gsor.
Ti voglio tanto bene, anch’io.
Owari.