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Autore: AcchanBaka    27/01/2010    4 recensioni
“Io sono una bambola costruita dagli umani.
La mia ragione di vita è funzionare per loro.
Fammi cantare.”

[Lala centric]
Genere: Triste, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Copyright: I personaggi Lala, Gsor e i citati “senza nome” Allen Walker, Yuu Kanda e Toma il finder sono di proprietà di Katsura Hoshino (e lei è continuamente idolatrata per aver creato tutta questa gente <3).

La schifezza qui di seguito è invece proprietà mia e_e”

Dedica: La dedico al mio baKanda, che mi supporta anche quando scrivo una cosa orribile. E succede spesso, coff.

 

 

 

 

 

Let me sing

 

 

 

“Io sono una bambola costruita dagli umani

 La mia ragione di vita è funzionare per loro.

Fammi cantare.”

 

Non avevo ben chiaro il motivo per cui, inspiegabilmente, avevo continuato a cantare. E a chiedere che canzone volessero ascoltare, se avessero voluto vedermi ballare, se gli sarebbe piaciuto vedermi volteggiare con quella grazia loro stessi mi avevano donato – forse, non lo ricordavano neanche.

Continuai a cantare anche quando loro persero attenzione per me. Sapevo che da qualche parte nella loro testa, in qualche modo mi stavano ascoltando, e aggrappandomi a quella consapevolezza non smettevo.

Continuai a cantare anche quando, pian piano, iniziarono a sparire tutti. Risucchiati. Li vedevo andare via, a gruppi, a masse di uomini, oppure da soli, spaventati, alcuni speranzosi, quasi felici di andare via, lasciandosi alle spalle la città, le loro case, la loro vita. E noi.

Continuai a cantare a lungo, da sola. I muri di pietra mi ascoltavano, le erbacce mi ascoltavano, i labirinti sotterranei mi facevano da eco, come una compagnia a lungo cercata e desiderata.

Non smettevo di cantare.

 

La mia speranza furono degli uomini. Cinque. Il primo mi colpì urlando qualcosa di insensato, tentando di rompermi come la bambola che fui, quando io gli avevo solamente chiesto se voleva sentirmi cantare.

 

Fammi cantare. Ti prego.

 

Voleva uccidermi.

L’ho ucciso io.

Ti prego, fammi cantare.

 

Il secondo mi sfregiò. Il mio occhio sinistro scivolò via dall’orbita artificiale, perdendosi nel buio. Urlando, cercò di scappare, di distruggermi, di fuggire via.

L’ho ucciso.

 

«Mostro!»

 

Il terzo mi afferrò per i capelli, cercando di farmi del male. Ma io ero una bambola, la sofferenza fisica non corrispondeva a nessuna reazione.

L’unico dolore che potevo percepire era il loro secco e terrorizzato “no” alla mia semplice domanda.

Eppure io avevo solo chiesto loro di farmi cantare.

 

Desidero solo cantare per te.

 

Anche il quarto mi aveva afferrato per i capelli – si erano ridotti ad una massa informe, nera, lontana dal colore originario datomi dagli stessi che me li stavano distruggendo. Si erano macchiati di sangue, così come i miei vestiti sbrindellati, le crepe dell’orbita vuota distruggevano il mio viso, sul fondo nero ancora si percepiva l’inquietante luccichio dell’occhio che fu.

 

Signor umano, fammi cantare.

 

Il quinto, aveva subito la stessa fine. Mi avevano picchiata, senza pietà, nonostante la mia semplice, innocua, vitale domanda.

 

«Volete che vi canti una canzone?»

 

Quel bambino era il sesto. Erano passati cinquecento anni da quando gli abitanti di Mater avevano abbandonato la città, cercando vita altrove, perché quella non era vita.

Mi sentivo amareggiata, abbandonata, perché loro non avevano prestato attenzione al mio canto. Vivevo contagiata dalla speranza che presto sarebbero tornati a riprenderci, perché riprendessimo a cantare per loro, a rallegrarli, ad illuminare la loro vita buia – perché era per questo motivo che ci avevano create, che ci avevano dato la vita. Era per questo che custodivo gelosamente il mio cuore, quel cuore che mi permetteva  di funzionare anche dopo così tanti anni, anche in quelle pietose condizioni così diverse dal mio originario aspetto, quel cuore che mi rendeva diversa dalle mie compagne, che nel tempo avevo visto rompersi davanti ai miei occhi.

 

Quel bambino, era il sesto.

Lo avevo trovato, piangente, in una delle vie di Mater; una via interna, sperduta. Mi chiesi per un folle istante come avesse fatto a trovarsi lì, un bambino. Era piccolo, smarrito, terrorizzato. Piangeva – io non potevo piangere. Per un momento lo invidiai.

Lo osservai a lungo, nascosta nelle macerie. Sentivo i suoi singhiozzi, dentro di me li sentivo rimbombare, vedevo la sua figura seminascosta dal cappuccio tremare, le manine chiuse a pugno sul viso che vedevo di sghembo. Mi sembrava quasi di vedere le lacrime scintillare nella luce notturna.

Finché, contenta di avere un altro umano per cui cantare, ero sbucata dal mio nascondiglio, trotterellando verso di lui – sentivo i miei piedi nudi crocchiare sul pavimento di pietra dura, le articolazioni fittizie scricchiolare.

 

Un umano…

Un umano.

Un umano.

È un umano.

 

Torreggiai su di lui, la luna illuminava debolmente i contorni sfocati e spettinati dei miei capelli, e l’unico occhio rimastomi integro si era fissato su di lui, la palpebra immobile, perché inutile era il suo moto.

 

«Piccolo… volete che vi canti una canzone?»

 

Ero fiduciosa. Lui non mi avrebbe rifiutato – se l’avesse fatto, lo avrei ucciso.

 

“Io sono una bambola costruita dagli umani

 La mia ragione di vita è funzionare per loro.

Fammi cantare.”

 

Non esisteva il senso della vita, al di fuori di quello che avevo stampato nella mia assurda mente, nel mio incredibile cuore, quello che ripetevo ossessivamente dentro di me da cinquecento anni, forse di più.

Il bambino alzò gli occhi gonfi di lacrime su di me. Vidi che uno era pesto, il viso non era bello a vedersi, era butterato e il lato sinistro, quasi a specchio del mio, era orribilmente sfregiato.

 

E mi sorrise.

 

«Una canzone?

Canteresti per me…?

Nessuno l’ha mai fatto!»

 

Provai una sorta di pena per lui. Nessuno aveva mai cantato per quel bambino. Che vita triste doveva essere stata, la sua.

 

«Io mi chiamo Gsor…

Canta, signorina fantasma.»

 

Per lui fui “signorina fantasma”.

Non più “mostro”.

 

Gli cantai la mia ninna nanna migliore. Era un bambino, era stanco, era provato, era felice di sentirmi cantare, così lo lasciai stendere sulle mie gambe e cantai per lui, finché non lo vidi addormentarsi, un sorriso obliquo e contento sul viso sfregiato.

La mia domanda più consueta, era sempre la stessa: “Gsor, cosa vuoi che ti canti adesso?”. Ma lui non sembrava mai stancarsene.

Iniziammo a girare la città, la città che io avevo imparato a memoria e che feci conoscere anche a Gsor. Trovammo dei vecchi abiti – sapevo già che erano lì, ma per me non avevano alcuna utilità e li lasciai stare.

Mi feci convincere da Gsor, diceva che una “signorina fantasma” come me doveva avere un vestito vero, e non logoro come quello.

Trovammo un pettine, e Gsor si arrampicò sul tavolo del nostro rifugio – tra i tanti – e mi indicò lo sgabello ove sedermi. Iniziò a pettinarmi i capelli, a ricondurre quella massa informe al suo originario stato.

Gli fui grata, per quel gesto.

«Guarda come sei diventata bella, Lala!»

«Lala?»

«È il tuo nome, signorina fantasma. Posso chiamarti così?»

Sì che puoi.

 

Gsor mi bendò l’occhio, nascondendolo alla vista. Mi trattava come se fossi una ragazza, nonostante le strane antenne che avevo sulla testa, nonostante la chiara impressione robotica che davo di me stessa – lui coglieva quel cuore che strenuamente avevo difeso, per tanto tempo.

Io non percepivo il tempo passare. Lo contavo, perché era un passatempo, un modo per quantificare il mio spazio, le mie ore, il trascorrere dei mie periodi vitali – vita? Potevo parlare di vita? Gsor diceva di sì.

Cosa vuoi che ti canti, adesso?

Così fu Gsor a dirmi che erano passati quasi ottant’anni, da quando ci eravamo trovati. Gsor era orribilmente invecchiato, ma ancora adorava le mie canzoni, sentire la mia voce, la mia ninna nanna prima di dormire. Era vecchio, stanco, bisognava di me per ogni minimo movimento.

E io ero felice. Perché Gsor sentiva davvero il senso della mia vita. Mi lasciava cantare per ore, mi chiamava se gli serviva aiuto, mi parlava e mi lasciava parlare. Io non me ne resi conto, ma fu lui a dirmi che avevo “sviluppato una coscienza”. Non ero più la sua “signorina fantasma”, ero Lala. La sua Lala, gli dissi.

Lui sorrise e stancamente, annuì.

La “sua” Lala.

 

Andava tutto bene.

Finché arrivarono quelli. Fu la prima volta che vidi Gsor spaventato. Lo fu tanto da contagiarmi e provai la paura, per la prima volta – paura, mista ad un folle bisogno di proteggere Gsor, di non lasciare che lo uccidessero, di non lasciare che gli facessero male in alcun modo.

Erano tre. Tre strani mostri a forma di palla – mi sorpresi, a pensar di loro come dei “mostri”, quando erano stati degli umani ad additare proprio me in quel modo.

Volevano attaccare me e Gsor. Dicevano di mirare all’ Innocence”. Io non avevo idea di che cosa fosse, l’Innocence, ma uno strano senso di agitazione apprensiva dentro di me mi suggeriva che doveva essere lui.

Il mio cuore.

Quello che mi permetteva di muovermi come Gsor voleva che mi muovessi.

 

Arrivarono degli umani, a proteggerci. Ma in qualche modo sentivo che se la stavano cavando male. Uno di loro morì, finché non riuscirono a rinchiudere i mostri in strani campi di energia. Dissero di volerci aiutare ad ogni costo e chiusero anche me e Gsor, abbracciati nella disperazione, in una delle sfere difensive.

Gsor era vecchio, stanco, malato di una malattia che non potevamo curare. Aveva quasi cento anni e lo sentivo vicino a me come non mai. Temevo per lui, temevo che quegli strani mostri ci avrebbero ucciso.

Gli umani si erano organizzati, nonostante la paura e la serpeggiante sensazione di inquietudine che provavano tutti, anche Gsor – e quindi anch’io.

La sensazione che non ce l’avrebbero fatta. A proteggerci. A sconfiggerci. A rimanere vivi e a tornare a casa – il mio cuore mi permetteva di leggere nei loro occhi quel desiderio bruciante.

Improvvisamente, una delle sfere si lacerò. Uno dei mostri non era più a forma di palla, parlava, e aveva assunto una forma antropomorfa.

Anche se la sua voce era metallica, Gsor rabbrividiva al sol sentirla.

Anche se il suo corpo aveva strane giunture, gonfiori dove non avrebbero dovuto essere, mani troppo lunghe, piedi troppo distorti.

Faceva paura. Strinsi Gsor più forte, gli sussurrai di cantare, lui mi chiese per favore di non farlo.

Fu la prima volta.

Ma io – forse, era il mio cuore – capii. Vedendo la mia espressione, nonostante la stanchezza, mi aveva sorriso, promettendomi di ascoltarmi non appena saremmo stati al sicuro. Gsor era sicuro che ci avrebbero salvati, e all’improvviso io lo fui con lui; se Gsor era convinto di qualcosa, la sua convinzione mi contagiava, inevitabilmente.

Anche se…

 

«Lala, scappa.»

No. Non sarei mai riuscita a scappare, lasciandoti qui. Dietro di me.

Come avevano fatto gli abitanti di Mater, molto, molto tempo prima.

«Va tutto bene, Gsor. Tu sei stato l’unico ad accettarmi.»

 

Fu improvviso. Proprio mentre quello strano mostro con gambe e braccia distruggeva tutto e tutti, i suoi compagni, i suoi nemici, cercando di penetrare all’interno della nostra barriera, apparve un ragazzo.

Aveva i capelli bianchi, uno strano braccio che emanava bagliori e che sentivo distintamente vibrare, e l’aria davvero… arrabbiata? Non capii come seppi riconoscere, distinguere, dare un nome a quell’espressione.

Ricondussi tutto al mio cuore.

Dietro di lui, mentre era riuscito ad impegnare il mostro in un combattimento, apparve un altro ragazzo, ed un altro ancora al seguito. Questo nuovo, dai capelli lunghi e neri, dai lineamenti contratti e senza emozioni visibili, ci liberò dalla sfera mentre il bianco combatteva col mostro, e ci scortò via.

Mentre ci trasportava lontano dal luogo dello scontro, gli spifferai dei corridoi sotterranei. Meditavo di nascondermi lì con Gsor, non appena avessero abbassato la guardia.

Il ragazzo abboccò, e ci nascondemmo, mentre gli echi del combattimento giungevano fino a noi.

Chiese a Gsor se conosceva la città sotterranea, e lui rispose di conoscerla.

Prese il mio posto.

Finse di essere la bambola, e io una bambina umana che aveva raccolto, e preso con sé. Con i capelli raccolti, il viso bendato per metà e un cappello che nascondeva la parte superiore del mio capo, potevo sembrare davvero una bambina umana. Non capii, però, perché Gsor mi avesse protetta.

 

Fu come avevo progettato, e io e Gsor non appena ci fu possibile, ci defilammo.

Riuscimmo a giungere nella sala principale, quella dove quasi seicento anni prima la gente di Mater amava incontrarsi, sedersi e lasciare che le bambole facessero il resto, cantando, ballando, facendoli divertire.

In quel momento c’eravamo solo io e Gsor. Soli. Uniti. Se eravamo insieme, tutto sarebbe andato bene.

Gsor, stava male. Tossì e dalla sua bocca fuoriuscirono fiotti di sangue, che si depositarono a terra, macchiando la sabbia e il terriccio.

«Gsor… non ti rimane molto tempo, vero?

Non c’è niente… che io possa fare?»

Ero combattuta.

Sapevo di non poter fare niente per aiutare Gsor e la cosa, in qualche modo, mi distruggeva. Non nel senso letterale del termine, perché era il cuore a mantenermi in vita e solo senza di lui avrei potuto davvero “distruggermi”. Non so spiegare il tipo di sensazione che provavo, a metà fra gratitudine – perché Gsor aveva mentito a quel ragazzo – e paura. Perché gli umani non sono immortali.

Gli umani muoiono – e Gsor, presto, sarebbe morto.

Non volevo restare sola senza di lui.

Così lui mi fece una strana domanda.

«Stai piangendo, Lala?»

 

Era una domanda senza alcun senso, perché io non potevo piangere, e lui lo sapeva bene.

Gli chiesi perché avesse mentito.

«Quando sarò sul punto di morire, lascia che ti rompa con le mie mani.»

Ne fui sorpresa.

Era la prima volta che mi chiedeva esplicitamente di stargli vicina, così lo abbracciai.

E come tempo prima gli dissi che ero la “sua” bambola. La sua Lala.

«Cosa vuoi che ti canti, adesso?»

 

Fu terribile.

Il ragazzo dai capelli bianchi aveva scoperto il nostro segreto, sentendoci parlare.

Istintivamente lo attaccai, perché come aveva detto il ragazzo dai capelli neri, dovevano recuperare e proteggere quell’Innocence. Il mio cuore.

Ma io dovevo essere rotta da Gsor.

 

Quel ragazzo, si difese, mi capì. Quel ragazzo, nonostante le proteste e le minacce del compagno, voleva proteggermi. Voleva aspettare che Gsor morisse, così da lasciare che mi rompesse lui. E solo allora prendere il cuore, e andare via.

Fu un singolo istante di salvezza.

 

Poi il mostro ci attaccò.

 

 

Non ricordo cosa provai, quando il mostro disinserì il mio cuore.

Mi spensi, in senso fisico.

Dentro di me provai solo un enorme senso di vuoto.

E ossessivamente dentro di me ripetevo un solo e semplice nome.

Gsor, Gsor, Gsor, Gsor…

 

Quando mi risvegliai, ritrovai quella stanza.

E pensai “qui è dove la gente si riunisce, ci fa ballare”. Vidi le colonne distrutte, la sabbia, ma non m’importò.

C’era un umano, davanti a me, disteso, in una pozza di quello che – se ricordavo bene – si chiamava sangue.

«Signor umano… volete che vi canti una canzone?»

Il mio unico occhio da bambola rifletteva la sua immagine, senza vederla.

Allungai una mano verso di lui, sentivo le giunture distaccarsi, le dita muoversi in maniera inarticolata.

«Signor umano… io sono una bambola… canto, sapete…

Signor umano…»

 

Gsor.

Cosa vuoi che ti canti, adesso?

 

Piccolo… volete che vi canti una canzone?

 

L’umano mi guardò. Dai suoi occhi stanchi, mezzo ciechi, uscivano dei fiumi di quelle che – se ricordavo bene – si chiamavano lacrime.

Gli inzupparono la faccia, scesero sul terreno.

«Canteresti per me?»

Ne sembrava sorpreso.

Lala.

Ti voglio tanto bene.

 

Chiuse gli occhi.

 

Pensai che stesse dormendo, così decisi di cantargli una ninna nanna. Sentivo il mio corpo arrugginire, il mio occhio deteriorarsi, ma la mia gola funzionava ancora, mi permetteva di emettere suoni.

E iniziai a cantare.

 

 

Io non percepivo il tempo passare. Non lo contavo, perché in quel momento stavo cantando. Non c’era altro senso, per me, nell’esistere.

 

“Io sono una bambola costruita dagli umani

 La mia ragione di vita è funzionare per loro.

Fammi cantare.”

 

Mi fermai. Non so dire esattamente quando, ma senza preavviso, la voce mi morì in gola, il mio cuore ebbe un fremito. Aprii e chiusi gli occhi, mentre accanto a me percepivo una presenza.

Tenevo la testa di (Gsor) tra le mani.

 

Il ragazzo dai capelli bianchi si inginocchiò al mio fianco.

E provai nuovamente un moto di gratitudine, così mi venne naturale dirgli

 

«Grazie.

Per avermi lasciato cantare finché non mi sono guastata.

Così ho potuto mantenere la promessa.»

 

Sentii il cuore disinnescarsi, scivolare via dal mio corpo, lasciandomi vuota.

Solo una cosa rimbombava, dentro di me, ossessivamente.

 

Gsor, ti voglio tanto bene. Gsor, ti voglio tanto bene.

Gsor.

Ti voglio tanto bene, anch’io.

 

 

 

Owari.

  
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