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Autore: crimsontriforce    31/01/2010    2 recensioni
Duecentotrent'anni di esilii, in quattro movimenti e una fuga. D'ni chiama.
(Ai tempi di uru gli dèi camminavano sotto la terra; dimenticata dai suoi ultimi figli, oggi la pietra muore, ma sento un richiamo incessante dal cuore e torno.)
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Atrus, Esher, Gehn
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '5. Una piccola bolla di (sur)realtà'
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Harriet continua a punzecchiarmi il canone in tutti i punti giusti e bandisce “Lungo la strada”, su nomadi-stranieri-rifugiati-clandestini-migranti. La scelta ovvia era prendere “Straniero”... e invece no. Cinque punti di vista sul concetto di patria, quando la patria non c'è più, sul prompt I tuoi esuli parlano lingue straniere, / si addormentano soli sognando i tuoi cieli, / si ritrovano persi in paesi lontani / a cantare una terra di profughi e santi - Modena City Ramblers, In un giorno di pioggia.
Con l'augurio di NON scrivere nulla di altrettanto complesso entro dicembre 2010, mi ci sono messa di buzzo buono per renderla degna partecipante della Sfida dell'anno dell'Anonima Autori, sezione, ehm, nuovo fandom. (Words 3:71, I radunati sono riconoscibili dalla loro faccia di tolla, presente? °///°)
Con la certezza, invece, di giocarmi la metà dei lettori con la scelta del primo personaggio (la metà inesistente degli inesistenti lettori che conoscono Myst, almeno), ecco dunque...



Disclaimer: Gli avvenimenti narrati sono frutto di fantasia. Non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere delle persone descritte né offenderle in alcun modo. Se possibile, anzi, il tutto è da intendersi come tributo di affettuosa stima.













Lontani dalla patria comune



] They count years and months.
] A long week is as short as an age is long.
(Words, 1:53÷54)





1 . Ai tempi di uru

Esher è giovane quando D'ni cade, un ragazzotto metodico e impettito, pieno dei sogni suoi e della sua gilda. Noloben, il suo rifugio improvvisato, è sicuro e la pestilenza che si sta spargendo per centinaia di mondi non lo raggiunge fin su quella spiaggia remota. Non lo raggiungono nemmeno i suoi compagni.

Esher sa tenere strette le sue speranze.
Il punto di collegamento è ai piedi della scogliera. È l'unico punto che vi sia stato scritto: dev'esserlo per forza in un tale buco di Era, senza valore e senza civiltà. La sua tenda è vicina. Ogni mattina appena sveglio, appena scacciata la pesantezza del cielo brillante che lo sovrasta, Esher striscia fuori dal suo rifugio e arranca sulla sabbia nella speranza di trovare una nuova fila di impronte ad affiancare le tracce del suo arrivo. Un giorno non trova più nemmeno quelle: una mareggiata se le è portate via.
Quando il cielo era nero, le strade della sua gente erano scavate nella pietra e brillavano da lontano come scie fosforescenti in grembo alla grande caverna. Non c'erano tracce, ma voci. Il chiacchiericcio del viale filtrava dall'ampia finestra ad arco del suo studio ed Esher non era mai solo.

Si ritrova lui stesso a camminare rabbioso in cerchio attorno al Libro per D'ni e allo spazio antistante, che continua caparbiamente a non volergli restituire i suoi pari, o i suoi superiori, o perfetti sconosciuti, chiunque, chiunque abbia il suo sangue e soprattutto parli la sua lingua. Urla a quello spazio vuoto. Lo riempie di pugni scoordinati.
Torna a dormire e sogna un'altra attesa, attorno a un altro Libro, quando il cielo era nero. Già da prima di collegarsi a Laki'ahn, la sala risuonava dei racconti e dei canti dei cacciatori. Esher rimaneva ai bordi, qualche passo indietro, vicino alle lampade, del tutto immerso nelle vite e nella gloria dei suoi compagni.

I passi rabbiosi si estendono al perimetro intero dell'isola. Come l'orbita di un pianeta, Esher si avvicina al suo centro di gravità per poi riallontanarsene in tutta fretta. Gli è venuta quest'idea, di recente: potrebbe essere lui a tornare. A cercare i sopravvissuti, perché in fondo, non scherziamo, com'è riuscita a lui sarà riuscita a tanti altri. I D'ni, estinti? Non ci vuole neanche pensare. Potrebbe cercare gente, riformare una comunità, tornare a sentire la sua città piena di voci. Magari lo considererebbero anche il loro salvatore. Va. È deciso. Ma quando sta per farlo, quando pronto al gesto si tiene fermo il polso con l'altra mano, ricorda le urla per strada e la nube giallastra incombere e scappa.
Noloben, col suo asse storto come una trottola, è più dignitosa di lui nelle sue rivoluzioni. Ma anche crudele: passeranno troppi vailee prima che il sole termini sotto l'orizzonte il suo lento moto a spirale. Quando il cielo sarà nero, Esher potrà a volte chiudere gli occhi e illudersi un po' meglio di essere tornato a casa, se ricorderà ancora com'è fatto il calore della compagnia, il fervore di una piazza gremita, un liquore condiviso attorno a un tavolo.



Nel dormiveglia continua a sentire grida distorte e i boati sommessi del collegamento, ma sono troppo lontani per essere veri, più simili a memorie residue dell'esodo e dei morti che si è lasciato alle spalle, amplificate dal vento umido di quella spiaggia infernale. Da sveglio tacciono. Forse. Ieri crede di averne sentito uno.
Solo gli stormi di uccelli che volano inquieti da un'isola all'altra dell'arcipelago si chiamano, lo chiamano, gli parlano. Quando si trova a pochi passi da tre di loro, inchiodato da quegli occhietti tondi e neri, Esher si ferma. Ha il fiato corto. Con estrema lentezza, risponde.










2 . Gli dèi camminavano sotto la terra

Per Gehn la patria è un ricordo indistinto, di quelli che il sogno che hai fatto stanotte magari non parlava proprio di una gita al lago col tuo primo amore, o di una chiacchierata con tuo padre nella casa che ti ha dato i natali, ma in fondo ti sei affezionato all'idea e ripensandoci da sveglio la monti e la rimonti, aggiungendo un dettaglio qui, un incontro là, finché nella memoria cosciente non ti si fissa qualcosa che magari non è veramente quel sogno, ma di certo è tuo.

Ha lasciato la città che era un bambino. Quando torna, il suo corpo è cresciuto e i lineamenti inaspriti e non guarda più gli edifici dal basso in alto, con uno stupore infantile dipinto in volto. In spregio alle leggi prospettiche gli sembrano più maestosi di allora, carichi di ricordi che non ha vissuto, anche se trasudano solo ingiustizie e perdita. Li sente vicini. La loro solennità non era cosa per abitanti di superficie: se potesse, Gehn si caverebbe dalle vene il suo sangue misto, ma deve accontentarsi di definire se stesso D'ni, come suo padre e il padre di suo padre, di fronte alla dimora dei suoi avi che ora è morta e rovinata e spenta.
Le promette che tornerà a donarle un milione di mondi. Fino ad allora, la memoria non dovrà andare perduta. Sarà un lungo cammino, le pause sempre troppo brevi e pesanti, ma non cederà.



L'Era è la numero cinque. Camminando altero per le precarie vie aeree del villaggio, parla al codazzo di selvaggi in una lingua che ancora non capiscono. Racconta di una stirpe di dèi pallidi e slanciati e della loro caverna al centro del mondo, al centro di tutti i mondi, e quel racconto inizia a diventare la sua realtà. I nativi non danno retta allo straniero comparso dal nulla, ma quando apre le braccia e guarda al cielo pronunciando le sue parole misteriose ecco che cade un fulmine, la terra trema. Gehn è il primo a sorprendersi, ma non lo dà a vedere. Aveva previsto un clima più mite.

L'Era è la numero trentasette. Gehn siede su un trono al centro della capanna più grande, riscaldato dal camino alle sue spalle. Il suo volto resta in ombra e il pubblico non vede quanto si rabbui nel narrare della grande luce azzurra che, dall'alto di una montagna, marcava il centro della città perfetta.
Fuori, il muro di nebbia che circonda l'isola mugghia e si espande, ricordando ai pescatori il suo potere. Gli dèi della natura sono i primi a sorgere e gli ultimi a cadere.

L'Era è la numero centodue. C'è una statua al centro della cittadina – sembra essersi scavata uno spazio in mezzo al caotico affastellarsi di edifici fatiscenti, quasi che sia un meteorite bronzeo caduto dal cielo, con la grande piazza come suo cratere. L'arte del luogo riduce il mondo a geometrie insolite ma, nonostante l'abbondanza di linee curve e spirali, Gehn non fatica a riconoscere i tratti del suo volto e ne è compiaciuto.
Oggi parla della lingua sacra che comanda ai mondi la loro forma. I più anziani fra la folla ricordano di essere già esistiti prima che questo onnipotente creatore scendesse in terra, ma hanno avuto altre prove del suo potere e per riverenza tacciono.

L'Era è la numero duecentotrentatre, rossa e inospitale. La via per D'ni è chiusa da trent'anni e non è rimasto nessuno con cui voler parlare. Gehn chiude il diario. Siede sul letto, imbraccia il maral-obe e affida tutte le parole che gli sono rimaste alla voce piatta dello strumento.

L'Era non ha nome, numero né uscita. È buia e fredda e gli ricorda casa.










3 . Dimenticata dai suoi ultimi figli

Calam torna spesso a portare i suoi saluti agli amici: è un segno di buona cortesia, si dice. Indossa la sua tunica migliore – lisa, ma pulita a fondo e ben ripiegata dopo ogni uso – si collega e scende in città. Quando la visita è terminata, sul suo diario registra solo, Recato i miei omaggi a, e un nome fra i tanti che gli erano stati vicini.
Non c'è molto altro da aggiungere, in verità. I morti non sono grandi conversatori.
Calam lo era un tempo, oggi non più.

Questa volta si è spinto nei quartieri bassi per riappropriarsi delle memorie di un lontano cugino, lavoratore indefesso che, a parer suo, solo la mala sorte aveva tenuto lontano da una buona istruzione, magari in seno a una gilda minore. Gli era affezionato, a modo suo.
È una tradizione, si ripete, stretto nel suo mantello nero da Scrittore, i cui bordi broccati tinti col rosso cupo del reveesh sono ormai ridotti a fili spezzati e sbiaditi. Va preservata.
Respira a fondo l'aria stantia e buia di D'ni, un'aria in decomposizione che gli si attacca addosso e a ogni visita ricopre, come una nuvola pestilenziale, i ricordi del calore di quelle stesse strade che oggi percorre. Quando il miasma si ritrae, nella memoria gli edifici rimangono vuoti, le porte crollate, le piazze dilaniate da nuove voragini. A volte teme di addentrarsi in questa nuova D'ni: gli sembra di non riconoscerla.

È una tradizione e la tradizione va rispettata, ma il cammino è lungo, Calam è vecchio e le sue gambe non sono salde come le grandi stalagmiti di D'ni, le cui cime si perdono nei vapori e che sembrano salire fino a sorreggere tutta la volta.
Si ferma ansimando a metà di una scalinata ripida che si avvolge attorno a una di quelle stesse colonne, in uno dei quartieri inferiori del muro di edifici che s'inerpica sulla parete della caverna. Si aggrappa al corrimano. È freddo. Ha freddo. Il vicolo sotto di lui si snoda lungo un canaletto artificiale che convoglia un vento che non dovrebbe esistere. Sente come un fruscio di voci. L'acqua increspata riflette la luce pallida dei lampioni come dal fondo di un abisso, un luogo alieno e inesplorato che non prova compassione per gli intrusi – e non c'è dubbio che lui ora sia un intruso, lì, nel cuore della città che l'ha cresciuto.

Calam è un uomo di scienza, un erudito; conosce i legami segreti fra i mondi e le parole che li comandano, negli anni ha toccato con mano i limiti del possibile e cancellato tutto quel che non vi si adeguava. Le storie di spettri non lo hanno mai convinto.
Si obbliga a calmarsi, respira a fondo per contenere i battiti del suo cuore. Non è successo nulla, si ripete, tenendo una mano premuta sulla fronte rugosa. Si schiarisce la gola. Non è successo nulla.
Il senso di rigetto è manifesto, ma proviene dalla sua mente, dal centro che guida i sogni e le intuizioni; certo non da un'ineffabile, inesistente anima della città.
Non si ferma a riflettere sulla possibilità che la sua sia l'ipotesi più disperata: quella che non accetta ammenda.



Altro tempo è passato, sei vahlee e venticinque yahr secondo i calcoli cui dedica gran cura, e oggi Calam siede in un angolo della biblioteca del distretto di Kaleh. La testa si fa pesante e scivola sul libro che sta consultando – è il quarto volume di un testo che forse sa a memoria da decenni, ma che non smette di sorprenderlo nelle sue ramificazioni profonde. Oggi, prima di cedere alla stanchezza, ne ha ripercorso a lungo i versi, cercando risposte a ritroso, come discendendo fra le radici di un albero. E proprio di alberi si parla in quelle profezie: nient'altro che alberi e crescita e riunioni mentre lui resta legato a un ceppo rinsecchito. La testa è così pesante. Gli occhi si chiudono.
Inizia a russare, con la guancia appoggiata alla pagina aperta. Sogna di camminare solo in una piana di sabbie secche, sulle rive di un fiume rosso come il sangue. Un uccello del deserto lo raggiunge, senz'altro rumore che quello dei granelli smossi dalle sue zampette: è una bestiola agile e snella, dal piumaggio scuro, gli ricorda le creature che aveva visto da ragazzo su Kade'reek. Sorride al suo nuovo compagno di viaggio. Camminano affiancati seguendo il corso di quell'acqua densa, e densa di segreti.
Ma l'uccello china il capo per guardarlo, gli dice qualcosa che lui non comprende nel linguaggio del sogno e corre svelto sulla riva, lasciandolo indietro. Calam è di nuovo solo.










4 . Oggi la pietra muore

Atrus non ha fretta. Resta in piedi in cima alle grandi scale che portano ai moli, come una vedetta a scrutare il buio. Il canalone è ripido, scavato fra la nuda roccia e le pareti degli edifici di Tokotah; la doppia fila di lampioni accesi che lo costeggia è l'unica prova visibile della sua esistenza. Laggiù in fondo, dove dovrebbe ergersi il porto, i gradini sembrano gettarsi già nelle acque calme del lago. Atrus accarezza un fregio sbreccato del corrimano, ripercorrendone con la memoria i bei rami stilizzati. Non ha fretta.

Alle sue spalle, il vecchio Tamon guida la spedizione in sua vece, se di 'guida' si può parlare per l'esplosione di passi e voci che oggi colora la piazza grande di Ae'gura. Oggi, fra le rovine regna l'allegria forzata degli addii. Dei vecchi capitani di gilda sono riuniti sotto al colonnato del museo e si scambiano aneddoti vecchi di cent'anni, indicando le ali dorate della Sala delle Gilde che domina la vetta sopra di loro. I giovani che hanno capito tardi di aver visto ancora troppo poco dei luoghi cari alle loro famiglie camminano frenetici in gruppi di quattro o cinque, commentando ogni stucco. Chi preferisce tenere i suoi ricordi per sé resta solo, ritrovando strade e scorciatoie amate, e confeziona, trasporta, trascina tutto quello che la memoria non gli permette di lasciare indietro. Manutentori e Messaggeri senza esperienza e dai capelli ingrigiti si affannano per coordinare gli sforzi.

Atrus si sorprende di non trovarsi triste. Tuttalpiù svuotato, dopo aver passato così tanti anni di prigionia in terre lontane con lo sguardo sempre rivolto alla Città.
Sono state prigioni dure, come la spaccatura ai piedi di un vulcano che fu l'unico luogo della sua infanzia, con l'immensità del deserto a fare da sbarre. D'ni allora esisteva per lui solo come racconto, un guizzo di fantasia nelle giornate piene e stanche, consegnatogli dalla voce esperta di Anna. Gli stava venendo affidata una responsabilità. Le storie divenivano sue; suo il fardello di portarle a compimento.
O sono state prigioni strette, come Myst, il cui orizzonte Atrus allargava con costanza, Era dopo Era, ma che restava dolorosamente angusto alle sue spalle. D'ni era perduta per la sua codardia.
Oppure ancora prigioni indefinite, come Chroma'agana, dove l'unico ostacolo era la sua solitudine, due mani sole per lavorare a un progetto troppo grande.
Eppure nel deserto, quando non poteva vedere altro che terra secca, imparò a conoscerla e analizzarla, a scoprire la sua composizione, a osservare la bellezza degli incroci fra le sue crepe.
Da Myst, che gli fu donata come rifugio e come pegno d'amore, si affacciò su un cielo abbagliante dove sei soli si attraevano in orbite instabili; passò notti al freddo umido di una foresta aliena per vedere un germoglio sbocciare alla prima luce del sole; sentì la terra sulfurea fondersi e muoversi come il muscolo di un gigantesco animale.
E sul lungo promontorio di Chroma'agana, mentre sua moglie lo attendeva sulla spiaggia con un lume acceso, Atrus studiò le stelle, ridendo e chiamandola quando le vide comporre la stessa figura trovata anni prima, in un altro angolo del multiverso.
Si è trovato disperso fra mondi stranieri, scrivendo il suo spirito e trovandolo ricomposto di volta in volta come frutto e ramo, oasi e fortunale. Un frammento di sé è sempre rimasto qui, fra rovine diroccate ricoperte di polvere. Ma il resto è altrove, e lo chiama.

Il suo obbligo era verso la gente viva che aveva abitato quelle case: un popolo che ha radunato, ascoltato e guidato, un popolo cui oggi dona una nuova Era, Releeshahn, il Tutto. Qualunque peso le storie di Ti'ana gli avessero caricato sulle spalle, oggi l'ha assolto. Oggi lo vede. Per oggi, ci può credere.
Saluta D'ni con l'affetto di un figlio adulto, che ha trovato lontano la sua indipendenza.



I rumori si faranno sempre più tenui, dispersi fra le isole e i quartieri esterni, fino a cessare del tutto quando anche l'ultimo D'ni avrà accettato che il tempo passa e i mondi cambiano, e così le speranze e le case, e che ogni fine porta con sé nuovi inizi, nuove possibilità, finestre aperte su futuri migliori.
E Atrus se ne andrà, silenzioso com'è oggi e a mani vuote. Perché l'unico dono che re Ri'neref volle fare ai suoi figli, quando scrisse loro una nuova patria, fu l'umiltà di una caverna buia, la semplicità da cui guardare allo splendore di infiniti mondi, e quell'umiltà è già sua, da sempre viva in ogni respiro, in ogni sguardo rispettoso e ammirato.










5 . Ma sento un richiamo incessante dal cuore e torno

John non sa dove sta tornando. Non sa nemmeno che lui e il suo mecenate ci stanno girando attorno da anni, lungo una spirale tracciata sulla carta delle Americhe che parte da Temple, Texas, dov'è nato, poi Mazatlàn, Los Angeles, Westwater, lungo le tracce degli Anasazi e dei loro discendenti che parlano di uomini formica che vivono nel profondo e del ritorno di un popolo delle stelle, Albuquerque, Carlsbad e il suo deserto, e sotto il suo deserto le sue caverne.

E non sa chi abbia scavato queste gallerie, che lo stanno portando ben oltre la sua meta, ma non riesce a darsi un limite oltre il quale “va bene, ho visto abbastanza, torno indietro” e i suoi piedi continuano a spingerlo oltre ogni ansa. Sarà perché sono tutte uguali. John non è un geologo e fa in fretta a dirsi che certi tunnel, così perfetti e rifiniti a specchio, sono stati creati da vecchi canali lavici di un vicino vulcano: le grotte che ha attraversato, con le loro delicate colonne calcaree e i veli di roccia traslucida, gli hanno già mostrato quanto possano sembrare artefatte strutture che con l'uomo non hanno nulla a che fare.
Anche l'origine alternativa che gli frulla in mente per quei tunnel non ha nulla a che fare con l'uomo e, con Roswell a meno di due ore d'auto di distanza, si dice che il sospetto è pure lecito... magari le misteriose radiazioni degli omini grigi spiegherebbero il formicolio che l'ha colto da quando è sceso questa mattina: ha la pelle d'oca per un'aspettativa forte, in agguato, che però non sa nemmeno cosa aspettarsi, di preciso. In fondo, sono solo dannate caverne.

Quell'aspettativa smussa i pensieri, la mente si svuota, John continua a camminare. Non sente la stanchezza. Gli piace stare lì, è un posto semplice e raccolto. Non gli sono mai piaciuti i posti semplici e raccolti. Si guarda intorno, cercando di ficcarsi in testa ogni particolare di un panorama che un occhio meno attento definirebbe tutto uguale. Appoggia il palmo aperto sul basso soffitto ricurvo e distende le dita fino quasi a farsi male, come se la roccia potesse spiegargli qualcosa.
Dovrebbe tornare. Ma sta già tornando. Prosegue.

C'è un'apertura improvvisa. La sua torcia arriva appena a illuminare l'altro estremo della grotta e John diffida di quello che sembra mostrargli, ma con ogni passo deve arrendersi all'evidenza. Gli tremano le mani. Cinquanta piedi sotto la superficie, sotto un deserto che non ha mai visto altro che sassi ammucchiati e pali di legno, lo attende un massiccio arco intarsiato di metallo e pietra, cesellato ai bordi con svolazzanti lettere in un alfabeto alieno. John trema tutto ora, non solo le mani, come se il pizzicore di prima non fosse stato che un preambolo del sentimento che lo scuote. La luce elettrica compie un arco oltre il portale e viene riflessa dai bracci metallici di giganteschi macchinari prima che la torcia cada al suolo con un clangore, riverberato dall'eco di un immenso spazio oscuro.
Gli si ferma qualcosa in gola: sente l'istinto di dire qualcosa, di confermarlo a sé o a quelle rovine, ma i suoni che si annidano dietro la lingua sono troppo scivolosi e brevi per venire accettati qui. Sente che c'è una lingua per rivolgersi a tutto questo, ma non è la sua.
Recupera la torcia e attraversa l'arco in silenzio.



Le parole escono solo quando John è tornato in superficie e si staglia, sperso, contro il tramonto aranciato del deserto. Ritrova se stesso, la sua razionalità, la prospettiva. “Tuo figlio è tornato”, voleva dire, e ora si sente un imbecille solo a pensarlo.

























...se qualcuno vede i caratteri da nerd, sappia che è un nerd. E ne sia fiero! Note scandalosamente prolisse:

@ prompt di Harriet: John parla lingue straniere, Esher si addormenta solo sognando i cieli di D'ni, Atrus si ritrova perso in paesi lontani, Gehn canta O sole mio una terra di santi, più o meno. Calam compare a casaccio, come nella miglior tradizione del canone.
1.
@ caratterizzazione: a pensarci su, Esher per me è sia un codardo sia un animale sociale. Un po' un Peter Pettigrew de noantri, sotto certi aspetti. Rispetto a EoA, qui è giovanissimo e gli mancano ancora un po' di stadi di sclero: i Bahro certamente, poi l'isolamento continuo, moar-special-than-thou-Yeesha che gratta i nervi a tutti fuorché a me, infine la Tablet, che secondo me è l'avvenimento che lo sbarella del tutto (mi viene un parallelo con Saavedro, quando si rende conto del 'potere' di Atrus di ricostruire una civiltà).
@ Libro per D'ni su Noloben: il fatto che in EoA non ci sia non è significativo imho. A parte Tahgira che era un'Era prigione e quindi isolata, Todelmer e Laki'ahn avevano certamente un bel via-vai di D'ni e neppure loro hanno un Libro in EoA. Licenza creativa di Cyan o li hanno tolti i Bahro nel progettare un percorso che si giocasse solo alle loro regole, chissà.
@ vailee: un decimo dell'hahr, cioè dell'anno D'ni (che dura quanto quello terrestre, per ovvi motivi)
@ “Lo so benissimo cos'è un vailee, ma perché non vaileetee?”: perché a me mi hanno insegnato che in italiano i termini stranieri non prendono il loro plurale originario. Un weekend, due weekend; un hobby, due hobby; un vailee, due vailee.
@ orbita sghemba di Noloben: per comodità di trama, ipotizzo che la rotazione apparente del suo sole non sia perfettamente parallela all'orizzonte come su Teledahn, ma abbia un moto leggermente spiraliforme.
@ rumori lontani di collegamento: potrebbero essere Bahro, potrebbe essere la sua immaginazione. Non so quanto presto li abbia incontrati su Noloben e mi tengo sul vago.
2.
@ricordi indistinti di Gehn: aveva otto anni quando D'ni è caduta. Buona parte delle sue idee distorte viene dai ricordi falsati di quand'era bambino, credo.
@ Quinta Era: Riven!
@ Trentasettesima Era: 37th appare nel Book of Atrus. Spoiler: fra l'Arte di Gehn e il muro di nebbia, vince il muro di nebbia 3-0 ai supplementari. La luce azzurra sarebbe Rezeero.
@ Centoduesima Era: inventata!
@ Duecentotrentatreesima Era: ho glissato per comodità sulle speranze che nutriva in quel momento per 234th: in fondo, il suo desiderio primario era sempre tornare a D'ni e quella strada gli era sempre preclusa (siamo poco prima degli eventi di Riven).
@ ultima Era: se i Libri Trappola non esistono, come il sciur Watson sostiene, il Libro che Atrus consegna allo Straniero è un Libro Prigione, come Haven o Spire, che semplicemente linka a una stanza che sembra molto ma davvero tanto oh K'veer.
3.
@ Calam che non risiede in D'ni ma in un'Era random: secondo me ha più senso che una persona riesca a sopravvivere cent'anni, e a sfuggire a una meticolosa ricerca, se non se ne sta ferma in mezzo ad Ae'gura come una papera zoppa. Un'Era tutta sua doveva avercela o non sarebbe sopravvissuto alla Caduta, peraltro.
@ sogno: può essere profetico oppure no, semplicemente causato dall'aver passato il pomeriggio col capo chino su Words, che parla sia dell'uccello del deserto sia del fiume. Chissà se le creature che aveva visto su Kade'reek assomigliavano effettivamente a un nostrano roadrunner...
@ reveesh, Kalek, Kade'reek: prima e terza sono inventate di sana pianta, il secondo è effettivamente un distretto di D'ni.
4.
@ timeline: siamo nel 1814, dopo gli eventi del Book of D'ni. Da Chroma'agana, Atrus ha riaperto il collegamento con D'ni e ha effettuato una ricerca accurata per centinaia di Ere, radunando i D'ni sopravvissuti alla Caduta (quasi tutti: ne ha mancati almeno due, Esher e Calam! E chissà chi altri). L'incidente di Terahnee porta all'abbandono del progetto originario di restaurazione della Caverna e Atrus scrive Releeshahn come nuova patria per i sopravvissuti. Terminato questo, costruirà Tomahna come nuova casa per la sua famiglia. Qui siamo nel momento di trasloco da D'ni a Releeshahn.
@ sguardo sempre rivolto alla Città: il diario di Rime, l'Era aggiunta in realMyst, mostra in modo toccante come la restaurazione fosse sempre stata una priorità di Atrus, fin dai primi tempi su Myst. Ma le sue pare mentali riguardanti Gehn gli hanno impedito di iniziare i lavori fino a dopo gli eventi di Riven...
@ suo il fardello di portarle a compimento: lo dice Words, The stories of the Destroyer will be the start of the burden. =]
@ solitudine unico ostacolo: Atrus e Catherine passano almeno sei anni a Chroma'agana e iniziano i lavori della restaurazione di D'ni solo quando riescono ad assicurarsi l'aiuto della popolazione locale di un'Era (Averone).
@ Myst donata come rifugio e pegno d'amore: exactly what it says on the tin. “Rifugio” è una denominazione di Yeesha, comunque fu Scritta dalle altre due donne della sua vita, Anna e Catherine, come rifugio da Gehn.
@ Ere di Myst descritte appena dopo: rispettivamente Gravitation, Serenol e Shimar, come descritte dai diari extra consultabili su MYSTlore.
@ “per oggi, ci può credere”: punto primo, Atrus e l'autorecriminazione vanno a braccetto, difficilmente resta convinto di aver fatto del bene per più di due settimane di fila.
Punto secondo, unexpected Bahro is unexpected... cerco di andar con ordine: Yeesha dice di aver ereditato il suo fardello dal padre; il fardello di Yeesha è la liberazione dei Bahro; Yeesha stessa accenna al fatto che fu suo padre a scoprire i Bahro; Atrus però non vi accenna. La mia conclusione è che la definizione di Atrus di 'fardello' riguarda indiscriminatamente tutte le magagne della Caverna: inizialmente riunire i D'ni, poi completato quello con la scrittura di Releeshahn sembra che tutto sia a posto, poi all'ultimo scoprono i Bahro ma lui non ha i mezzi per risolvere quel problema e ci si strugge per tutta la vecchiaia. Il 'fardello' è qualcosa che accompagna Atrus per tutta la sua vita, se stiamo a sentire Words, ma ritengo impossibile sia che consideri i D'ni problematici dopo il 1815 sia che venga a conoscenza della tragedia dei Bahro prima del 1814. Ergo... (perché appena si inizia a parlar di Bahro diventa tutto così complicato?)
@ dono di Ri'neref: dal più grande Scrittore di tutti i tempi, ci si sarebbe aspettati qualcosa di più sfarzoso di una caverna come nuovo rifugio per la sua gente. E invece Ri'neref, che era un po' un San Francesco ante litteram, scelse un luogo buio e aspro proprio come monito di umiltà. (cfr. Storie dei Re)
5.
@ John Loftin: John Loftin!
@ leggende Anasazi sospettosamente simili ai Bahro: sarei una fanwriter fantastica se le avessi inventate o scoperte io, ma è tutto vero e citato in primis da Cyan e/o dal DRC XD Googlare per credere!
@ primo contatto con D'ni: a citar le fonti mi vengono le note più lunghe della fanfic e già qui siamo fuori misura massima di un bel po'. Alzo una bandierina bianca esausta dalla documentazione e dico che, tirando le somme, secondo me ha senso che sia approdato al Great Shaft da qui (e non dal vulcano). *sviene*





   
 
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