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Autore: Melanto    06/02/2010    4 recensioni
Un inglese costretto in Italia per un servizio fotografico sul Carnevale, un incontro tra caso e destino, e la magia di Venezia tra maschere, gondole e tramonti sulla Laguna.
[Edit 15-11-2011: storia classificatasi terza al contest "Travel Awards" indetto da MrsLovett]
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Edit 15-11-2011: Questa storia ha partecipato, classificandosi Terza, al contest "Travel Awards" indetto da MrsLovett sul forum di EFP. *-* In fondo alla pagina troverete il giudizio del giudice e i bannerini (bellissimi!) che ha ricevuto! :D

Scritta per il “Carnevale di Fanworld” indetto da “Fanworld.it”.
Tabella: “Carnevale di Venezia” | Prompt: #3 – Bauta

Ambientata a Venezia perché sì. Perché, come città, m’è rimasta davvero nel cuore per quanto è bella e perché il Carnevale Veneziano è quello che ho sempre trovato più affascinante, elegante e misterioso.

Ascolto consigliato: “Rondò Veneziano – La Serenissima”.

RondòVeneziano

Rondò Veneziano

Detestava venire in Italia in quel periodo dell’anno.
Non che gli fosse mai piaciuta, in generale, la tanto decantata penisola, culla del Sacro Romano Impero, piena d’arte e blablabla. Anche se, doveva ammettere a sé stesso, che una cosa dell’Italia gli piaceva, gli piaceva eccome: la cucina. In quel maledetto paese, dove i poeti e i navigatori si erano ormai persi dietro saltimbanchi pseudopolitici, sapevano cucinare da Dio! Almeno quell’arte, si consolò, sarebbe rimasta con loro per sempre.
Ad ogni modo, ogni volta che per il periodo di Carnevale veniva puntualmente spedito in Italia dalla sua rivista, cercava sempre di darsi malato, ma il suo capo non gli credeva mai.
L’anno precedente era stato il più tragico.
«Ah! Napoli! Sole, pizza e mandolino!», l’aveva gonfiata con enfasi il redattore, «Per la nostra rubrica annuale, voglio un bel servizio sul carnevale napoletano!»
Lui aveva sbuffato. «Non si potrebbe fare da qualche altra parte? Che so… in Polinesia?!»
«Per la miseria! Non so nemmeno se lo festeggiano!» aveva esclamato il capo, togliendosi il sigaro dalla bocca e allargando le braccia. Il trippone pieno di birra era emerso da dietro la scrivania con tutta la sua prominenza.
Lui aveva tentato di cogliere la palla al balzo. «Perché non provare?! Eh?! Magari veniamo a scoprire di rituali particolari che nessuno conosce, saremmo dei pionieri!»
«Ma piantala, ragazzo! La Polinesia costa cara, che credi? Accontentati di Napoli e falla finita! Vedrai che ti piacerà! Ci sono stato l’altra estate con mia moglie, sono dei gran burloni, ti divertirai!»
E su quello, sul fatto che fossero burloni, Richard aveva dovuto dar ragione a quell’irlandese scassa palle del suo capo. Certo, non avrebbe utilizzato proprio la parola ‘burloni’, quanto ‘terroristi’. Sì! Terroristi era perfetta! Mocciosi terroristi!
Aveva passato una settimana di inferno, combattendo contro orde di ragazzini che lo avevano riempito di schiuma da barba e, santoddio!, di uova! UOVA! Quelle che si faceva strapazzato la mattina, per la miseria! Per strada gliele avevano tirate dietro!
Aveva dovuto buttare un cappotto seminuovo e comprato in Oxford Street durante la prima settimana di saldi, dopo esserselo litigato come una vecchia zitella con un altro acquirente, per di più.
Quella a Napoli era stata la settimana più umiliante della sua vita e della sua carriera. Manco a dirlo, aveva fatto delle foto merdose che pure un bambino di cinque anni avrebbe saputo fare meglio.
Era in situazioni come quelle che invidiava il suo amico Chris[1]. Quel bastardo di un newyorkese traboccante di fortuna. Christopher lavorava per un’importante casa di moda di… dove? Germania? Francia? Va beh, europea o quello che era. Passava tutto il giorno a fotografare meravigliosi, perfetti, eleganti e scultorei fisici di modelli che Dio solo sapeva quanto potesse essere appagante averli sotto gli occhi ventiquattro ore al giorno. Roba da farseli venire quasi a disgusto – in senso figurato, ovviamente!
Lui, l’unica offerta che aveva avuto era stata quella della rivista “Radish” che, già dal nome, avrebbe dovuto capire essere tutto un programma. E infatti non era stato smentito.
Flynn Browtne era un irlandese rompicazzo, con la pancia piena di birra, la faccia lentigginosa e il sigaro puzzolente sempre in bocca. E aveva l’orrenda mania del Carnevale. Ogni anno, un servizio diverso su una diversa città.
«L’Italia ha una vasta tradizione carnevalesca, Richie!» – quanto odiava quando lo chiamava Richie! – «Forza, bello, va’ e stupiscimi!»
Quell’anno toccava a Venezia.
Almeno, lì, le uova non le lanciavano; si era informato prima, per non partire impreparato. Anzi, aveva dovuto ammettere a sé stesso che, tra tutti i carnevali italiani cui aveva assistito, quello si preannunciava essere davvero il più interessante. Ma il broncio di essere in Italia non l’aveva fatto sparire mica.
Ad ogni modo, per non avere sorprese, aveva ridotto la sua permanenza all’osso ed era arrivato due giorni prima del Martedì Grasso. Ciò che non si era aspettato, era di rimanere colpito dalla città.
Venezia sembrava quasi non appartenere alla penisola. Era un complesso di ponti e canali, colonnati, piccioni, gondole, isolotti, chiese e case colorate. E poi acqua, acqua e ancora acqua che fluiva attorno e sotto la città e che finiva col catturare lo sguardo per ipnotizzarti col suo ritmico sciabordare.
Era costosa da morire, ma, ehi!, Londra non era da meno, quindi non si lamentò.
Rimase affascinato dal suo essere priva di autovetture, almeno in centro, dove si era costretto a restare per non rovinare la magia che, nonostante la sua avversione, era riuscita a ricreare attorno a sé, facendogli credere di essere in un’altra nazione. C’erano vaporetti e servizi acquatici di taxi per spostarsi all’interno della Laguna e lui ne aveva approfittato per dare un’occhiata alle isole più famose.
I vetri di Murano erano davvero spettacolari come dicevano, ma fu Burano a lasciarlo senza parole: sembrava un quadro, non gli pareva nemmeno una città vera, abitata, sembrava quasi un set cinematografico. Le piccole case di massimo due piani erano dei colori più sgargianti. Gialle, viola, arancioni, rosa. I ponti bassi, sui canali in miniatura dove erano attraccate barche altrettanto colorate, univano i due lati delle strade e lui era rimasto – per la prima volta in vita sua – incantato dall’Italia, dal loro saper accostare caos a livelli inaccettabili, con cittadine lillipuziane; mocciosi irritanti come un cactus nel culo e persone dotate di – grazie a Dio! – educazione e senso civico.
Stava ripensando proprio a questo loro natura contraddittoria mentre si trovava sul vaporetto che lo stava riportando a Venezia con il sole che calava placido sulla Laguna.
Era Febbraio, faceva un freddo cane e gli facevano pure male i piedi per quanto aveva camminato in su e in giù tra gli isolotti a cercare gli scorci più pittoreschi – e ne aveva trovati a bizzeffe. Incredibile! – dove scattare qualche fotografia per cominciare a prendere confidenza con il posto e la luminosità. Adesso, se ne sarebbe tornato in albergo, si sarebbe concesso una bella cenetta tipica, avrebbe preparato l’attrezzatura per il giorno seguente, che era finalmente Martedì Grasso, e poi si sarebbe messo al pc per vedere come erano venute le fotografie che aveva scattato fino a quel momento.
Mentre camminava verso Piazza San Marco, Richard alzò lo sguardo al cielo dove il tempo sembrava proprio destinato a mantenersi favorevole anche per le prossime ventiquattro ore. Sorrise, pensando che la Fortuna, per una volta una, avesse deciso di fargli visita.
Si passò una mano sui corti capelli castani dal taglio spettinato e sistemò la coppola. Fece scivolare il dorso delle dita lungo la guancia, rimuginando sul fatto che avrebbe dovuto regolare la sua ‘barbetta incolta’ prima che fosse divenuta una ‘barba sfatta’ e infilò le  mani nelle tasche del cappotto.
Fu in quel momento che lo notò, mentre stava attraversando un vicolo più stretto per arrivare al cuore della città. Lo vide seduto sulla balaustra che affacciava sul canale, con una gamba piegata e l’altra penzoloni nel vuoto, col rischio quasi di cadere di sotto se l’avessero urtato. Il capo chino, coperto di riccioli biondo scuro, gli celava il viso e lo sguardo intento a leggere il giornale. Sempre sulla ringhiera, era stato appoggiato il cappello da gondoliere.
Ne aveva visti svariati all’opera, ed era anche riuscito a fotografarne qualcuno, ma non aveva mai avuto la luce giusta, mentre lì, in quello spiraglio di tramonto che a stento riusciva ad arrivare, si ricreavano dei chiaroscuri davvero interessanti. E poi non aveva ancora fotografato un gondoliere non al lavoro. Gli parve uno spunto stimolante, così, senza pensarci, Richard mise mano alla sua fedele Nikon e inquadrò l’ignaro soggetto, tenendosi un po’ più in disparte affinché non si accorgesse di lui.
In quel silenzio quasi irreale, dove l’unico rumore udibile era il rollio dell’acqua, lo scatto della macchina fotografica gli parve un frastuono assordante.
Il gondoliere sobbalzò, alzando il capo di scatto e Richard si accorse che era più giovane di quanto avesse immaginato. Ed era pure carino.
Il fotografo si avvicinò per tentare di scusarsi di averlo spaventato, quando il giovane inarcò un sopracciglio mettendosi sulla difensiva.
«Mi no te go dato el permesso» disse, lasciandolo un attimo disorientato.
Quella frase non suonava vicina a nessuna delle poche che conosceva in italiano – e vabbeh! Lui era l’unico caprone che non se l’era mai riuscito a imparare, nonostante ci venisse quasi ogni anno, e allora? -.
Richard si grattò la nuca, boccheggiando quel: «W-what?» che fece sbuffare il ragazzo.
«Ostia! Turisti.»
Il fotografo gli vide passare una mano tra i capelli ricci e morbidi, scoprendo un piccolo orecchino a cerchio che brillò a un riflesso di raggio di sole rimbalzato chissà su quale vetro. Visto da vicino si accorse che non era solo carino, ma molto carino. Il collo lungo era stato lasciato scoperto al freddo pungente di quel Febbraio piuttosto rigido, nonostante il bel tempo, e il viso era sottile e lungo, perfettamente simmetrico. Gli occhi avevano un taglio leggermente allungato, separati dal naso dritto, mentre i capelli scendevano ricci a metà viso e mettevano in risalto ancora di più la lunghezza del collo dal pomo d’Adamo ben visibile.
«Ho detto che non avevi il mio permesso per fare quella foto.» Stavolta, il ragazzo gli si rivolse in un inglese più che buono.
Lui si mortificò. Certo che quegli italiani erano un vero strazio quando si trattava di essere fotografati. Facevano tante di quelle storie, accidenti! Avrebbero dovuto cominciare a prendere esempio dai nepalesi, che erano di una cordialità davvero stupefacente.
«Ah! Mi spiace, hai ragione. C’era una bella luce e non ho pensato che potesse darti fastidio.» Richard afferrò la macchina e in breve trovò l’immagine incriminata. Accidenti se era venuta bene, sarebbe stato un maledetto peccato doverla cancellare. Italiani del cavolo! «La elimino subito.»
Allo sconosciuto non dovette sfuggire il fastidio con cui disse l’ultima frase perché si affrettò a fermarlo.
«Senti, facciamo così» disse, attirandosi la sua attenzione. «Ti concedi un giro in gondola con me e puoi tenertela, anzi, già che ci sei, puoi fare tutte le foto che ti pare.»
Richard assunse un’espressione riflessiva. In fondo, il pensierino ce l’aveva già fatto però non aveva avuto tempo fino a quel momento, e domani non se ne sarebbe parlato visto che, sicuramente, sarebbe stato occupato col Carnevale per tutto il giorno. Poi si ricordò di un altro piccolo particolare.
«Quanto mi verrà a costare questo giro?»
Il ragazzo sconosciuto abbozzò il sorriso furbo di chi si stava aspettando quella domanda. «Cinquanta e ti ho anche fatto lo sconto perché mi sembri simpatico.»
- Ah, grazie. - avrebbe voluto rispondergli con ironia, ma lo tenne per sé, pensando che cinquanta euro fossero un vero furto, ma, come si era detto fin dal suo arrivo, anche Londra era cara e poteva passarci su. Certo, c’era anche l’alternativa più facile, ovvero cancellare la fotografia e ognuno per la sua strada, ma sarebbe equivalso a perdere quella sorta di piccola sfida che si era creata tra loro e lui detestava dover fare dietro front.
«L’avevo letto che voi veneziani siete dei veri affaristi.»
«Suona come un ‘sì’
Richard annuì. «Sì.»
Portandosi cavallerescamente la mano alla fronte, il giovane gli fece segno di avanzare e accomodarsi sulla sua imbarcazione. Il fotografo scese rapidamente le scalette che conducevano giù ai bordi del canale, dove la gondola era attraccata. Era bella e nera, tirata a lucido, con la foderatura dei posti a sedere in pelle blu, leggermente consunta in alcuni punti. Il colore del fondo dell’imbarcazione era altrettanto scura.
Richard si accomodò sentendosi quasi sprofondare nell’acqua, in una posizione molto differente rispetto quando aveva viaggiato in vaporetto. Mise mano alla Nikon e distese le gambe, preparandosi ad affrontare il suo primo giro in gondola. Il ragazzo, alle sue spalle, balzò sulla poppa con una certa agilità e il fotografo gli rivolse uno sguardo curioso, mantenendo un accenno di sorriso nello studiare i movimenti di un mestiere che, per quanto antico fosse, continuava a vivere in quella città fuori dal mondo moderno o, forse, all’interno del quale si era ritagliata una bolla temporale. Lo osservò indossare il berretto nero che gli sembrò molto diverso da quello usualmente raffigurato e che aveva visto più spesso in giro, ma aveva letto – si era informato per bene! Nemmeno a scuola aveva mai studiato tanto! – che esistevano due tipi di cappelli; il classico, conosciuto da tutti, era il modello ‘estivo’. Il suo gondoliere, invece, stava indossando quello invernale. Come dargli torto, la paglia non gli avrebbe mai mantenuto calda la testa. Da sotto la giacca a vento scura, però, non mancava la maglia a righe bianche e blu, che richiamava la tradizione fondendola con i jeans dei tempi attuali. Un gradevole mix di vecchio e nuovo che, probabilmente, d’estate sarebbe sparito in favore prettamente della tradizione.
«E allora, straniero» attaccò bottone il gondoliere, dando una lieve spinta col remo in modo che la barca si staccasse dal ponteggio. «Come mai fin qui dalla lontana Inghilterra?»
Richard inarcò un sopracciglio senza nascondere la sorpresa.
«E tu come fai a sapere che sono inglese?»
Il ragazzo distese un sorriso solare, inorgogliendosi un po’. «Ah, allora ho indovinato! Vedo così tanti turisti, qui, che ho lentamente imparato a riconoscerne la provenienza.»
«Uhm, un acuto osservatore.»
L’altro si strinse nelle spalle. «Necessità. Ci sono più turisti che veneziani» rise e non lo disse con rimprovero.
Richard tornò a fissare avanti a sé il canale che scivolava sotto la loro gondola la quale, silenziosa, si muoveva in maniera fluida e veloce. L’acqua sciabordava sotto la chiglia, mentre il paesaggio veniva segato in due dal ferro di prua. Il fotografo sollevò lo sguardo e la Nikon, scattando foto ai palazzi che si affacciavano su quella striscia d’acqua. Le sommità erano semi-investite dai raggi del tramonto.
«Ma come si fa?» domandò, più come se stesse pensando a voce alta.
«A far cosa?»
«A vivere qui. C’è più acqua che terra ferma e quando la marea si alza…»
Il gondoliere sorrise ancora. «All'acqua alta ormai siamo abituati; si deve pur pagare un prezzo per il nostro fascino e quasi non lo avvertiamo l’odore salmastro che tende a ristagnarsi in qualche canale. Siamo una città di mare. Toglici l’acqua e ci togli un pezzo di cuore.»
Lui scosse il capo. «Mi basta il Tamigi.»
«Un londinese, dunque. Sei in vacanza? Certo che ti sei scelto un periodo freddino, eh.»
«No, sono qui per lavoro.» Richard sollevò la Nikon. «Sono un fotografo.»
«Però! Non l’avrei mai detto.»
Lui ignorò volutamente la nota ironica che lesse nelle sue parole.
«Mi hanno mandato a fotografare il vostro Carnevale.»
«L’avevo immaginato, ma non mi sembri molto, come dire, entusiasta.»
Richard finse un colpetto di tosse, piuttosto imbarazzato. «Non vorrei essere offensivo.»
Però lo sconosciuto non gli sembrava un tipo che se la prendeva facilmente, infatti lo sentì ridere alle sue spalle.
«Figurati. Anzi, sono curioso.»
Lui sospirò. «Non mi piace l’Italia.»
«Davvero?» Il tono era profondamente sorpreso. «Sei il primo che lo dice. Solitamente i turisti sono tutti entusiasti: ‘Oh, Italia! Spaghetti, espresso, pizza!’. Apprezzo la tua sincerità e, in fondo, siamo pieni di difetti.» Poi, Richard ebbe l’impressione che assumesse un piglio più ironico. «Ma vediamo se riesco a farti cambiare idea.»
Il fotografo gli rivolse la coda dell’occhio, abbozzando un sorriso. «E’ una sfida?»
«Forse.»
Aveva un modo ammaliante di sorridere, con quella fossetta sul lato destro, che sapeva farlo rimanere affascinato e quasi ipnotizzato in una maniera decisamente molesta, tanto che si costrinse a tornare a fissare il panorama davanti a sé per non apparire indiscreto.
«Cominciamo da qui.» Il giovane gli fece intendere di mantenersi attento e lui alzò prontamente la Nikon, sicuro che avrebbe scattato una foto. «Quello è il Ponte dei Sospiri. Siamo paralleli a Piazza San Marco.»
Richard fece un paio di scatti, poi inarcò un sopracciglio assumendo un’espressione un po’ snob. «Ne abbiamo uno anche a Oxford e Cambridge» disse con orgoglio, ma l’altro seppe replicare a tono.
«Ah! Diffida dalle imitazioni.» Lui rise divertito, poi lo sentì annunciare con una certa solennità. «Ed ora, preparati.» Il gondoliere affondò completamente il remo dando la giusta spinta per effettuare la curva.
Come un rosso incendio divampato in cielo, il tramonto investì la gondola, lasciando Richard per un momento senza parole, mentre i raggi coloravano d’arancio tutta la Laguna.
«Ecco il nostro Gran Canal.» Il tono del giovane s’era fatto più soffuso, come se avesse appena illustrato l’apparire d’una meraviglia, e in fondo lo era. Uno spettacolo meraviglioso.
Sembrava di essere in un altro tempo, lontano secoli dal presente. Una vecchia e sbiadita fotografia che Richard non poté non tentare di riprodurre con i suoi mezzi moderni. Immortalò il sole che placidamente si muoveva per andare a nascondersi dietro la Chiesa della Salute, alla sua sinistra. Fotografò Piazza San Marco, a destra, che ne godeva ancora di luce piena, mentre la gente passeggiava prima di rientrare a casa. Scivolarono lungo il canale, tra altre gondole che si stavano ritirando o accompagnavano alla fine del giro gli ultimi turisti.
«Pope! Ohe! Pope! Ohe! Gondola, gondola, òhe
Richard si volse, sentendo che il gondoliere si era messo a cantare, e lo guardò con espressione tra lo stupito e il confuso. Il giovane gli sorrise.
«Questo non l’avevi letto? Siamo dei canterini!» E la sua bella voce divenne il piacevole sottofondo di quel giro fuori programma.
«Notte de luna, notte piena de stele, vogo in laguna, vogo e vogio cantar.»
Richard non capiva nulla dei versi, a conti fatti, ma era assolutamente rilassante muoversi lungo l’acqua placida, immerso in quel meraviglioso ramingare nella tradizione che sembrava ancora così viva e attuale da lasciarlo, una ennesima volta, affascinato dall’Italia. Cominciava a prenderci gusto.
«Mi son el gondolier che in gondola te ninòa, se el remo in forcòla sigòa, coverze el scìoco dei basi. Mi son el gondolier che ancora in mar ve dondola, no ste a curarve de mì, mi fasso andar la gondola.»
Fu sotto al Ponte dell’Accademia che Richard decise di cambiare posizione e di mettersi con le spalle alla prua per avere il suo bell’accompagnatore proprio di viso. Quando si accorse che aveva cominciato a fotografarlo, il giovane rise senza smettere di cantare. Gli sembrò che fosse leggermente in imbarazzo, ma fu solo questione di un attimo perché divenne di nuovo naturale in ogni movimento, come se Richard non fosse nemmeno lì.
«El vento passa e 'l sol già spunta a levante, torno in cavana e vogo e vogio cantar. Mi son el gondolier che in gondola te ninòa, se el remo in forcòla sigòa, coverze el scìoco dei basi. Mi son el gondolier che ancora in mar ve dondola, no ste a curarve de mì, mi fasso andar a gondola.»
Il rosso del tramonto lo illuminava in maniera quasi innaturale e lui ne rimase incantato mentre lo fissava attraverso l’obbiettivo, tanto che lo abbassò per un attimo. I riccioli che spuntavano dal berretto si erano fusi con la luce e gli conferivano un’aura angelica. Scosse il capo, pensando che l’Italia lo rendesse troppo melenso, e rubò l’ennesimo scatto.
«Pope! Ohe! Pope! Ohe! Gondola, gondola, òhe!»[2]
Richard abbassò la Nikon, applaudendo con sincera ammirazione alle sue ottime doti canore e il gondoliere fece un leggero inchino.
«Ma la smetti di fotografare me? Non dovresti interessarti alle opere d’arte?»
Lui diede una rapida occhiata agli ultimi scatti sul display. «Guarda che anche tu fai parte del patrimonio veneziano. A tuo modo, sei un’opera d’arte vivente» scherzò. «E poi sono stanco di ritrarre solo palazzi e chiese.»
Il giovane rise, di una bella risata piena e divertita, mentre curvavano lentamente in direzione del Ponte di Rialto.
«Ohe!» richiamò un altro gondoliere che emergeva da un rio, Richard gli vide agitare un braccio nella loro direzione. «Giacomo!»
Il suo cicerone rispose al saluto. «Ciao, Tommaso!»
Come non approfittarne?
«Ti chiami Giacomo?»
«Sì», sorrise, «e tu?»
«Richard.»
«Allora, Richard, posso vedere se sono almeno fotogenico?»
L’inglese ridacchiò, muovendosi il più lentamente possibile sulla gondola per non destabilizzarla. Tornò sul sedile, alzando la Nikon nella direzione di Giacomo che si era inginocchiato. Il ragazzo emise un lungo fischio d’approvazione.
«Ehi! Non sono niente male!»
«Già» gli uscì spontaneo, ma subito corresse il tiro coprendo la manovra con un altro finto colpo di tosse. «Volevo dire, sì, sei molto fotogenico.»
«E tu sei davvero bravo.»
Richard si imbarazzò. I complimenti gli facevano sempre quell’effetto. «Grazie.»
«Non lo avrei mai detto.»
«Grazie!» Stavolta il suo tono era pieno di ironia.
Giacomo rise di nuovo, tornando in piedi sulla poppa della gondola. «Non fraintendermi, mi eri sembrato un po’ con la puzza sotto al naso. E io non tendo mai a prenderli sul serio quelli tronfi.»
Lui cercò di difendersi. «Ma io non sono tronfio» disse con semplicità «Sono inglese.»
«Ad ogni modo, quelli della tua rivista saranno contenti, sono sicuro che farai delle ottime foto domani.»
Richard aggrottò le sopracciglia, esibendo un sorriso rassegnato. «Sì, certo» disse mesto. «Il mio capo non ne capisce un granché, per lui va bene qualsiasi cosa. Non mi dà molte soddisfazioni.»
«Si direbbe che tu non sia gratificato dal lavoro che fai. Perché non ne cerchi un altro?»
Il fotografo scosse il capo, scrollando le spalle. Fosse stato così semplice, l’avrebbe già fatto, ma le cose non erano mai lineari. «Forse perché non sono poi così bravo come dici.»
Giacomo arricciò le labbra in una smorfia contrariata. «Dovresti avere più fiducia nelle tue capacità, eh.» Ma Richard non era in vena di fare una seduta di psicanalisi o di sentirsi dire le cose che sapeva già da solo fin troppo bene. Così, agitò una mano, mettendosi nuovamente con le spalle alla prua.
«Ma non parliamo solo di me. Dimmi di te, sono curioso. Quanti anni hai?»
«Ventisei.»
Coincidenza, lui ne aveva giusto uno in più.
«E come mai hai deciso di diventare gondoliere?»
Giacomo si strinse nelle spalle. «Usanze, credo. Ho sempre avuto una certa passione per le tradizioni e la gondola fa parte della mia famiglia da generazioni, ormai. Anche mio padre è gondoliere, ma abbiamo giri diversi.» Poi sorrise, scuotendo il capo. «Differentemente dal mio vecchio, io non conto di farlo per sempre, ma per il momento non potrei fare nulla di diverso. Non mi sentirei di fare nulla di diverso. Stai vedendo anche tu quanto meravigliosa sia Venezia.»
Lui sospirò, rilassandosi contro il legno dell’imbarcazione. «Sì.»
Lo sguardo si mosse lungo il panorama.
«A-ah! Sto vincendo la sfida, visto?» Ne approfittò Giacomo e Richard assunse subito una posizione più composta.
«Non provarci! Non ho ancora detto di amare l’Italia! E poi gli italiani mi sono antipatici. Esclusi i presenti, naturalmente.»
«Ti farò cambiare idea anche su quello, vedrai!»
E forse, l’idea gliela stava già facendo cambiare, perché Richard, in tanti anni – ed erano ormai quattro – che veniva regolarmente nella penisola, non aveva mai incontrato un italiano come lui. Bello, simpatico ma non invadente, interessante. Affascinante. Ammaliante.
Ed era anche convinto che non l’avrebbe incontrato mai più un altro così.
«Adesso però devi tirar fuori la tua abilità di fotografo.» Giacomo lo distrasse dai suoi pensieri, indicando col capo alle loro spalle. «Quello è il Ponte di Rialto.» Iil più famoso, assieme a quello dei Sospiri.
Richard lo catturò sotto la luce del tramonto morente e con i primi lampioni che venivano accesi. Poi, subito dopo averlo superato, Giacomo avvisò con un: «Ohe!» il loro ingresso in un rio stretto.
«Ora però devi dirmi perché ti siamo antipatici» riprese il discorso il gondoliere e lui rispose con sincerità, come aveva fatto fino a quel momento.
«Io sono una persona solitamente schiva e voi siete troppo espansivi e confusionari, a volte in maniera fastidiosa. Mi fate sentire a disagio.»
«Anche con me?» domandò l'altro di slancio e Richard si volse a fissarlo per qualche momento senza sapere cosa rispondere. No, stranamente con lui si sentiva molto rilassato, ma non lo disse, buttandola sempre sullo scherzo.
«Tu sei da solo e presi singolarmente posso affrontarvi.»
Giacomo sorrise, lasciando comparire la graziosa fossetta sul lato destro e facendo cadere la conversazione. Ormai non v’era praticamente più nessuno per le strade e lungo i canali, e il fotografo si rese conto che avevano fatto davvero un bel giro, ma tagliando per l’interno ci volle molto meno per tornare da dove erano partiti.
Il giovane accostò la gondola al ponteggio e scese velocemente, con la stessa agilità mostrata nel salirvi. Gli tese una mano. «Serve aiuto?»
Richard non lo rifiutò, stringendo le sue dita gelide e dalla pelle screpolata. «Grazie» disse, mentre saliva di nuovo sulla terra ferma e solo allora, avendolo più vicino, si accorse di come Giacomo fosse molto più alto di lui, tanto che fu costretto a sollevare il capo per guardarlo negli occhi. Verdi. E lui aveva uno stracazzo di debole per gli occhi verdi, accidenti!
Simulando, ancora, l’ennesimo finto colpo di tosse, si costrinse a distogliere lo sguardo giusto in tempo perché l’osservare non divenisse un fissare poco discreto. Richard mise mano al portafoglio, cavando la banconota da cinquanta. Gliela porse, seguitando a fingere, con una certa disinvoltura, di non guardarlo e anche se non ne aveva la sicurezza – appunto perché non lo stava osservando – ebbe la sensazione che Giacomo stesse sorridendo del suo imbarazzo. Il gondoliere non disse nulla, si limitò a prendere il pagamento del giro, mentre lui sistemava la borsa dove aveva riposto la macchina fotografica e si allontanava strategicamente di qualche passo.
«Allora… ehm… è stato molto bello. Potrò dire al mio capo di aver fatto anche un giro in gondola.» Richard si sistemò meglio la coppola senza riuscire a stare fermo. «Ci si vede domani nel Carnevale, quindi.»
Giacomo ironizzò come avesse detto un’eresia. «Con il casino che ci sarà?! Credo proprio di no a meno che non sia il destino a volerlo.»
«Ah, vero!» Non aveva minimamente pensato al caos che avrebbe riempito la piazza. Un vero peccato, perché non gli sarebbe affatto dispiaciuto rivederlo.
«Se vuoi si può andar a bere qualcosa, più tardi. Magari riuscirò a farti cambiare idea sugli italiani e a farti sentire a tuo agio anche nella confusione.»
Non si sarebbe mai aspettato una simile proposta e non poteva certo dire che non lo allettasse da morire, ma lui era un tipo assai strano. Diciamo pure che era un fifone cronico e quando era fuori dal suo habitat – sì, come gli animali – si sentiva a disagio, soprattutto in determinate situazioni. Situazioni come quelle, ad esempio, in cui la condizione di ‘approccio’ gli si offriva praticamente su di un piatto d’argento e lui, invece di prenderla al volo – perché, porco cazzo!, Giacomo aveva il suo bell’effetto sui suoi ormoni poco british, in quel momento, e che stavano praticamente ululando quel: ‘Accetta, imbecille!’ – restava guardingo, come se gli avessero appena tentato di rifilare un bicchiere pieno di cianuro. Strategicamente, batteva in ritirata.
«Ah, mi dispiace, ma ho da lavorare in vista di domani. Non mi muoverò dall’albergo.» Cercò di buttarla sul ridere e vide il giovane stringersi nelle spalle, sorridendo affabile.
«Sì, capisco. Immagino che avrai molto da fare. Peccato.» Giacomo gli tese nuovamente la mano. «Allora è stato un piacere, Richard.»
Il fotografo la strinse con eccessiva verve – perché quando doveva nascondere qualcosa, eccedeva in tutti gli altri comportamenti – annuendo. «Anche per me e… buon divertimento, domani.»
«Buon lavoro a te.»
Richard accennò un ultimo saluto col capo, prima di dargli le spalle e allontanarsi a passo svelto per i vicoli di Venezia, nemmeno lo stessero inseguendo. Rallentò l’andatura solo quando arrivò all’albergo. Il receptionist gli disse che era tornato giusto in tempo, perché a breve avrebbero servito la cena, così Richard si fece dare le chiavi della camera dove appoggiò la borsa prima di tornare nella hall.
Sì, magari mettere qualcosa sotto i denti – e ora che ci pensava, aveva una fame da lupo! – lo avrebbe rilassato un po’ e fatto accantonare il pensiero di come avesse allegramente mandato a gambe all’aria una chiara occasione di conoscere più a fondo il bel gondoliere.

La cucina italiana vinse, ancora, anche quella sera con buona pace del suo stomaco e lasciandogli un sorriso soddisfatto a fine pasto.
Gnocchi di ricotta, un arrosto da resuscitare pure un morto e quelle castagnole in chiusura che erano state la ciliegina sulla torta. Si era alzato sazio e felice e, sì, le gioie culinarie erano riuscite a mettere da parte per un po’ quanto si sentisse idiota. Eppure, una volta tornato in camera se ne ricordò come se non l’avesse mai dimenticato.
Ma doveva imparare a smetterla di piangere ogni volta sul latte versato. Quella testa di cazzo del suo ex aveva sempre avuto ragione – oh! Solo su quello! Per il resto continuava a restare una gran testa di cazzo! – ovvero: tendeva a recriminare per ogni scelta sbagliata o occasione perduta, rimuginandoci ancora, ancora e ancora, anche quando ormai era assolutamente inutile.
Il suo grande problema, quello che la Testa di Cazzo di cui sopra non aveva mai capito, era che fosse un maledetto insicuro. Insicuro di sé stesso e delle sue capacità, a partire dalla fotografia. Era sempre stato convinto di non essere tutto questo granché e lavorare per una rivista abbastanza inutile come la “Radish” sembrava una riprova al suo poco talento. Ricercava di continuo conferme per ogni lavoro, per ogni scatto, partecipava a svariati concorsi perché, a volte, aveva il bisogno fisico di sentirsi dire ‘bravo’, di sentirsi riconoscere qualche capacità o abilità. Perché lui non ne era mai sicuro. Perché era sempre convinto di non valere niente. Per questo, spesso, perdeva quelle che potevano essere delle ‘buone occasioni’: perché aveva paura di fallire e di non dimostrarsi all’altezza delle aspettative.
La sua insicurezza si trasmetteva anche nella vita sentimentale, come fosse il riflesso di uno specchio. Spesso cercava di mostrarsi un tipo interessante, pieno di hobby e che aveva uno sguardo sul mondo a trecentosessanta gradi. Cercava di mostrarsi sicuro di sé. Ma appena aveva la possibilità di concludere, si tirava indietro, per non far vedere come, in realtà, non fosse sicuro di nulla.
Martha, una delle sue colleghe alla rivista, gli aveva sempre consigliato di mostrarsi per quello che era, di non avere paura ed essere prima di tutto sincero con sé stesso. Ma quelle poche volte che ci aveva provato era comunque scappato con la coda tra le gambe.
Un po’ come quel pomeriggio con Giacomo.
Non era assolutamente partito con chissà quali intenzioni e si era comportato in maniera veramente naturale, ma poi… quando aveva percepito una sorta di cambiamento nell’equilibrio che si era stabilito con il gondoliere e come aveva intravisto una sorta di spiraglio per riuscire ad accorciare un po’ le loro distanze era fuggito. Ma proprio letteralmente.
Richard sistemò il cavalletto nella borsa e mise a caricare la batteria della macchina fotografica. Poi fece mente locale per vedere se fosse tutto in ordine e mise a scaricare le foto dalla memory card. Mentre le immagini passavano dalla sottilissima scheda alla memoria del suo computer, si concesse una breve doccia rilassante, che quel giorno aveva davvero macinato chilometri e si meritava il massaggio caldo dell’acqua sulle spalle.
Avvolto nell’accappatoio lasciò il bagno, frizionando i capelli con un asciugamano. Il passaggio di foto era già terminato da un pezzo e lui si buttò pesantemente sul letto col portatile accanto, cominciando a sfogliarle e a farne una prima cernita. Mentalmente si appuntò a quali avrebbe dovuto dare una ritoccatina per rendere più vividi i colori e mentre le immagini di Venezia, della sua acqua e delle sue isole scivolavano in un breve riassunto davanti ai suoi occhi, pensò che doveva smetterla di scappare davanti alle situazioni che lo mettevano a disagio, che se avesse continuato così non avrebbe mai concluso nulla di veramente importante nella vita, non si sarebbe mai sentito appagato e soddisfatto di sé. Ma con le sole parole, sapeva che non avrebbe mai concluso nulla e quando il viso di Giacomo comparve sul monitor arrossì come una scolaretta, pensando come lui fosse stata l’ennesima occasione mancata di provare a cambiare anche sé stesso.
Con rammarico e intensità, fissò a tutto schermo il biondo dei riccioli, che sfuggivano dal cappello nero, prendere i riflessi del sole al tramonto e illuminargli gli occhi, di cui non si riusciva a distinguere il colore in quel tripudio di arancio e rosso, ma che sapeva essere di un bel verde né troppo chiaro né troppo scuro. Il sorriso gli tendeva il labbro, snudando i denti, poi scompariva nella foto successiva in cui le labbra assumevano un piglio più serioso e poi ritornava ancora a rendere più perfetta la sua espressione e le iridi erano puntate proprio verso di lui, trapassando l’obiettivo, trapassando lo schermo del computer, trapassando egli stesso e facendogli avvertire un piacevole formicolio nel basso ventre.
«Merda!» sbottò Richard, abbassando di scatto il monitor. Ci mancava solo che si eccitasse attraverso una fotografia. Perfetto! Era proprio ridotto male. Con gesti seccati e nervosi spense tutto e si infilò il pigiama. Lesto si nascose sotto le coperte, borbottando contro l’Italia intera per avergli fatto venire le paranoie e avergli ricordato una volta di più quanto fosse un inetto.

Il giorno dopo, constatò come Giacomo gli avesse detto la verità: Piazza San Marco era una bolgia.
Centinaia di persone erano riverse in strada, abbigliate con i costumi più belli che avesse mai visto. Le dame e i cavalieri sfilavano elegantemente in abiti di stile seicentesco dai colori vividi e impreziositi di ricami dorati e argentei. Le maschere coprivano completamente il viso, celandolo dietro espressioni di ceramica, fredda e rigida, e li avvolgevano di mistero, rendendoli meravigliosamente tutti uguali pur senza esserlo. Sotto tricorni[3], di ogni foggia e grandezza, con o senza piume, le larve[4] bianche e nere incutevano un certo timore reverenziale. E l’impressione di essere osservati e spiati senza esser visti, nonostante gli osservatori fossero tutti lì, nascosti dietro le maschere, sapeva divenire raggelante.
Richard vagava nella Piazza come preda di chissà quale droga, troppo frastornato dai colori e dalla strana aura di solennità e salto nel tempo che sembrava avvolgere l’intero luogo e chi lo popolava. Restava con la Nikon sospesa a mezz’aria, venendo bombardato da così tanti spunti e immagini che non sapeva nemmeno dove guardare.
Le persone comuni, quelle come lui e gli altri che non erano vestiti a festa, sembravano come scomparire in quel tripudio di colori, di nastri e raso e seta e tulle. Di parrucche lunghe e sgargianti e maschere bianche, oro, viola, che piangevano lacrime d’argento e turchesi; smeraldi nella Laguna di Venezia. Vere pietre preziose di una tradizione che, a distanza di secoli, sapeva incantare e stupire e togliere il fiato. Sapeva far viaggiare nel tempo pur respirando l’aria del 2010.
Una dama vestita di farfalle arancio e bronzo s’affacciò da dietro un palo, gli rivolse un inchino in segno di saluto e s’allontanò col suo cappello pieno di volute e complessi ricami; le farfalle che ornavano il suo abito sembravano volarle attorno a ogni movimento.
Richard si riscosse, scuotendo animatamente il capo per smetterla di restare fermo come uno stupido, e iniziò a immortalare tutto quello che passava davanti all’obbiettivo. Un uomo aveva un cappello con lunghissime piume bianche e nere, intervallate da file di strass che si mantenevano dritte e lucenti sotto il sole veneziano. Due donne passeggiavano tenendo scettri di tulle e perle rosa e azzurre; le ampie gonne di raso bianco s’alternavano nella cacofonia di colori e pizzi finemente ricamati; e poi sbuffi di fiori dai tricorni piumati o disegnati sulle maschere candide dalle orbite nere in cui, quasi per magia, le iridi si perdevano. Sembrava che le maschere camminassero da sole e che nessuno le indossasse. Chissà, forse era proprio quella la vera magia del Carnevale di Venezia.
Richard sorrise. Non si era mai sentito così emotivamente coinvolto in una festività tanto futile come in quel momento e, per un attimo, si sentì pervadere da un forte desiderio di potersi celare anche lui dietro quei ricercati travestimenti per poter fingere – e questa volta con tutte le scusanti possibili – di essere una persona diversa, un’essenza diversa. Di vivere addirittura in un secolo diverso.
Poi si volse.
D’improvviso, di scatto, mentre stava per fotografare un piccolo paggio al seguito di nobili in piume verdi e bianche.
La sensazione di occhi piantati nella schiena era stata troppo forte perché potesse ignorarla.
Ma dietro di lui, fin dove le sue iridi riuscivano a vedere, non c’era nessuno. Cioè, non c’era nessuno che lo fissasse. Cioè, a lui non parve che ci fosse qualcuno intento a osservarlo.
Scrutò le persone attorno a sé, cercando di coglierne qualcuna sul fatto, ma nessuna sembrava badare a lui con particolare interesse in quel momento e Richard scosse il capo, sbuffando un sorriso.
Si stava facendo prendere un po’ troppo la mano dalla suggestione, si disse, e tornò a occuparsi del motivo per cui si trovava lì: le foto per il capo.
Lentamente s’avvicinò a un gruppo di giocolieri, che si stavano esibendo nel centro della Piazza, e rimase a osservare lo spettacolo. Nemmeno si accorse di quella bauta[5] che lo affiancò, avvolta nel tabarro nero e con la larva bianca. Sentì solo che qualcuno gli disse: «Mi te go preso.» con voce strana, contraffatta dalla maschera, e lui si volse con ancora il sorriso sulle labbra per l’ultima dimostrazione di abilità del giocoliere.
Richard osservò l’uomo – o donna? No, troppo alto per essere un’esponente del gentil sesso – con espressione piuttosto confusa e riprese a maledirsi una volta di più per non aver imparato proprio niente all’infuori di ‘Ciao-pizza-sì/no-bagno-arrivederci’.
«Dónca el xe destìn» continuò lo sconosciuto e lui fece per replicare qualcosa quando rimase a fissare lo scorcio delle orbite nere dentro le quali erano nascoste le iridi di chi si celava dietro la larva, ma il tricorno non permetteva di avere una buona visuale, perché era strategicamente abbassato sugli occhi. Così fu lui a calare appena il capo ed ebbe solo il tempo di scorgere una scheggia verde, che venne distratto da qualcos’altro. Un leggero ‘tlac’ e si sentì improvvisamente più leggero.
Richard abbassò lo sguardo sulla Nikon e si accorse che gliel’avevano staccata dal supporto a tracolla. Assunse un’espressione sorpresa, schiudendo leggermente la bocca quando vide che erano state le mani dello sconosciuto in bauta a togliergliela e adesso la reggevano quasi con sfida.
L’uomo gliela mostrò, ruotandola nella mano come a dirgli: “Vuoi questa?” poi scomparve tra la folla in gran velocità, zigzagando tra i presenti e le altre maschere.
Richard ebbe solo il tempo di formulare mentalmente quello sconcertato: “Mi hanno derubato.” prima di mettersi a correre come un disperato dietro il ladro in maschera.
«Ehi! Ehi, fermati! Al ladro!» si mise ad urlare, ma nessuno lo degnò di uno sguardo, presi com’erano da quella girandola di abiti e colori, di cerimonie e sfilate. Un piccolo, sbraitante inglese non era degno della loro attenzione.
Richard si fece spazio tra la folla con non poca difficoltà, tenendo stretto lo zaino, all’interno del quale vi era il cavalletto, e la borsa. Con lo sguardo, e profondendosi in una miriade di “Sorry”, cercava di non perdere di vista l’uomo in bauta di cui vedeva svolazzare il tabarro mentre correva. Senza nemmeno sapere come, riuscirono a venir fuori dal frastuono confusionario della Piazza che cominciò a scemare, mentre sgattaiolava per i vicoli dietro la Basilica, e si ridusse a un piacevole sottofondo. Incapace di evitarlo, sbatté contro un altro turista intento a guardare, con la propria moglie, alcuni dei palazzi costruiti lungo i canali. Nello scontro, al povero malcapitato volarono di mano la cartina e la guida e Richard si fermò per aiutarlo a raccogliere gli oggetti, scusandosi in tutte le lingue che conosceva – ed erano poche, in verità – e quando alzò nuovamente gli occhi sulla strada, si rese conto di aver perso il rapinatore.
Si lasciò sfuggire un’imprecazione tra i denti, seguendo il percorso che aveva fatto fino a quel momento e scendendo in un portico più basso, rispetto ai marciapiedi, e più in ombra, riparato dagli sguardi provenienti dalla strada. Piegandosi leggermente in avanti per recuperare fiato, Richard si guardò attorno, ma del ladro nemmeno l’ombra o la sagoma lontana.
«Merda! Merda! Merda!» sputò col poco di aria che ancora aveva nei polmoni. La sua Nikon era la cosa più cara che avesse al mondo, e non solo perché gli era costata un mucchio di sterline, ma perché vi aveva riversato tanto di quell’affetto che ormai era divenuta inestimabile per lui. Tutto l’affetto che non riusciva a dare a una persona ce l’aveva la sua macchina fotografica per la quale non doveva fingersi chissà quanto figo, ma che condivideva da anni la sua insicurezza cronica. E adesso non solo aveva perso l’oggetto che gli dava conforto e ispirazione, ma stava quasi sicuramente per perdere anche il lavoro, considerando che Flynn si sarebbe incazzato come una furia nel sapere che non aveva fotografie per il suo preziosissimo e fottutissimo servizio annuale.
Rivolse ancora un’ultima occhiata al fondo del portico, dove le ombre allungavano le colonne sul pavimento senza avere nemmeno la voglia di pensare a cosa avrebbe fatto nei prossimi dieci minuti, quando qualcosa di nero spuntò proprio da dietro una di queste colonne.
L’uomo in bauta si palesò, con la sua fotocamera stretta nella mano e Richard non gli staccò gli occhi di dosso fino a che non lo vide fermarsi al centro dell’andito semi-buio. In quel preciso istante, non riuscì a provare nemmeno timore per l’irrealtà di essere stato derubato da una maschera così inquietante e di come continuasse a restarsene lì, ferma, quasi in attesa. Aveva solo gli occhi iniettati di sangue e i nervi che avevano mandato il self-control a fanculo con un paio di calci ben assestati. Caricò il ladro a passo di bufalo e si fermò solo quando questi gli allungò la macchina fotografica.
Richard gli rivolse uno sguardo carico di disprezzo, mentre gliela strappava dalle mani e subito si accertava che fosse in ordine.
«Italiani di merda» ringhiò, fottendosene che potesse capirlo, montare su tutte le furie e quindi chiudere la giornata con una bella scazzottata di quelle colossali. «E dire che stavo quasi cambiando idea su quanto foste imbecilli, accidenti!» concluse, voltandogli le spalle e cominciando a dirigersi nuovamente verso luoghi più affollati. Anzi, se ne sarebbe proprio rientrato in albergo e non avrebbe messo fuori il naso fino a che non sarebbe dovuto ripartire – il giorno dopo, grazie a Dio!
La bauta gli rispose con quell’inglese più che buono che aveva la sensazione di conoscere.
«Davvero?»
Tanto che si fermò di colpo, respirando ancora con un po’ d’affanno per la corsa. Si volse.
«Davvero stavi cambiando idea? Significa che ho vinto io.»
La voce era fortemente contraffatta, ma preservava comunque un che di istintivamente familiare.
Lo sconosciuto fece un paio di passi in avanti e lui rimase come inchiodato sul posto, osservandolo farglisi vicino. Sfilò il tricorno e sciolse lo xendal, scoprendo il lungo collo e i riccioli biondi che rimasero fermi e composti a causa del gel, ma che lui li riconobbe ugualmente. Infine, tolse la larva.
Gli occhi verdi del gondoliere fecero capolino assieme al sorriso accattivante.
«Giacomo?!» fu l’esclamazione di Richard, prima di accorciare la loro distanza. Con movimenti ancora collerici eclissò la Nikon all’interno della borsa. «Ma che diavolo ti è saltato in mente?!»
L’altro rise divertito. «Ma a Carnevale ogni scherzo vale, non lo sapevi?»
«Ma quale scherzo del cavolo! Per poco non mi veniva un infarto!» abbaiò e ancora non ci poteva credere che ci fosse proprio lui dietro la maschera. Ma non sapeva se dirsi più emozionato per la sua presenza o incazzato per la burla.
«Me ne sono accorto!» rise ancora l’interloquito. «Ma era anche il modo più veloce per portarti via dalla Piazza.»
Richard stava per replicare qualcosa di poco carino, quando si interruppe un attimo, facendo eco. «Il… cosa?!»
«Massì, per scambiare due chiacchiere in tranquillità. Lì c’era troppa confusione, non sei d’accordo?»
Il fotografo scosse il capo, cercando di camuffare l’improvviso imbarazzo. «Avresti semplicemente potuto chiedermelo, ti pare?»
«No, per svariati motivi» si difese il giovane, cominciando a elencarli sulle dita. «Motivo numero uno: così era più divertente.»
Richard gli fece una smorfia.
«Motivo numero due: eri stato impegnato fino a quel momento, non volevo disturbarti.»
Improvvisamente, l’inglese associò a lui la strana sensazione di essere osservato che lo aveva colto mentre stava facendo le fotografie, cosa che lo imbarazzò ancora di più.
«Motivo numero tre…» Lo sguardo, così insistentemente su di lui, nella maniera molesta che si era sempre costretto a non assumere, lo fece addirittura arrossire. «…saresti scappato di nuovo.»
Richard boccheggiò, indietreggiando lentamente, e più arretrava, più Giacomo si faceva vicino. «No… ma…»
«Ieri sei scappato.»
«Non è vero!»
L’espressione ironica del gondoliere diceva l’esatto contrario. Il contatto col duro della colonna dietro di lui lo fece forzatamente fermare e si trovò come in trappola. E quando era messo alle strette, scattava sulla difensiva.
«Ma perché dovrei giustificarmi con te?!»
Giacomo sorrise, in quel suo modo particolare, che era capace di bucare addirittura lo schermo del computer e arrivare dritto dentro di lui. «Perché ti piaccio.» disse con semplicità.
Appoggiò il tricorno e la larva sul muretto del colonnato, prima che le mani, avvolte dai guanti di raso bianco, scivolassero sotto il suo cappotto lasciato aperto, per appoggiarsi morbidamente sui fianchi.
Richard ne seguì il movimento, abbassando lo sguardo, fino a che non avvertì il fiato del gondoliere carezzargli il lobo; il tono più basso e soffuso.
«Perché mi piaci.»
Lui avvampò, tenendo il capo leggermente chino e catturando parte dei lineamenti del suo viso con la coda dell’occhio.
«Ti ho osservato mentre lavoravi» confessò ancora Giacomo; la gamba che scivolava tra le sue per farsi più vicino.
Richard sperò che non si accorgesse dell’effetto che gli facevano la sua presenza così stretta e le sue parole, ma quando avvertì l'inguine sfiorargli la coscia rimase in apnea. A quanto pareva, l’effetto valeva per entrambi.
«Sei carino, quando assumi quell’atteggiamento professionale» continuò l’altro, posandogli un sorriso sulla pelle. «Sii più sicuro di te stesso e non solo quando si tratta di lavoro.» Le labbra si chiusero in un bacio che gli infiammò la striscia di collo su cui venne lasciato, e lui chiuse gli occhi abbandonandosi completamente a quel calore intenso che si irradiò in tutto il corpo attraverso i punti in cui erano in contatto. Dal collo alla guancia, dove altri baci si susseguirono in una scia lenta, sui fianchi dove le mani si strinsero di più e lungo la gamba che ormai era come intrappolata tra le sue, legati l’uno all’altro e protetti dal tabarro che sembrò far scomparire anche lui sotto al nero tessuto.
Nella testa, le parole di Giacomo si ripeterono chiaramente come un’eco. Erano le stesse che seguitava a dire sempre a sé stesso con pessimi risultati, perché non doveva solo cantilenarle a ogni occasione mancata, ma metterle in pratica quando quella maledetta occasione ce l’aveva tra le braccia, come adesso.
Gli aveva voltato le spalle il giorno prima, fuggendo per paura di chissà cosa, ma l’occasione stessa, per una volta, aveva deciso di non darsi per vinta e di ritentare. E lui non se la sarebbe lasciata sfuggire di nuovo.
Lo zaino col cavalletto toccò terra con un tonfo secco. Non lo sentì nemmeno e nemmeno gli importò, aveva bisogno di avere le mani libere per stringere il Cambiamento, per sentirlo sotto le dita, ed era caldo.
Una mano risalì lungo la schiena, premendolo più contro di sé, mentre l’altra corse a perdersi nei riccioli.
Richard si volse quel tanto affinché la scia di baci morisse sulle sue labbra in un piacevole mordersi, in un appassionato lambirsi e un continuo cercarsi che sembrava incapace di soddisfare entrambi, che sembrava chiedere – esigere! – sempre di più. Più passione, più piacere, più tutto. E Giacomo aveva su di sé l’odore del mare e tra i capelli la morbidezza delle onde che, leggere, si increspavano sotto la chiglia della gondola nel lento scivolare sul Canal Grande. Aveva il fascino di Venezia, nel sorriso, e, negli occhi, il mistero che avvolgeva l’intera Laguna quando il tramonto ne baciava le forme; nella voce aveva i canti della tradizione e il corpo che animava la magia di una maschera.
Era il motivo per cui ci si poteva innamorare dell’Italia.
Con fatica e il fiato pesante, l’inglese riuscì a separarsi dalle sue labbra per pochi istanti. «Così mi costringi a tornare qui…»
Giacomo sorrise. «Non te ne pentirai. Venezia ha ancora molti segreti da scoprire, lascia che sia io a mostrarteli.»
«E’ una sfida?» Richard lo prese in giro, prima che nuovi baci divorassero le loro parole.
Di lontano, in Piazza San Marco, il Carnevale continuava la sua magia, sommando, al piacevole mormorio dell’acqua, la vivace melodia di un rondò.


[1]CHRISTOPHER: ovvero, Christopher Knox, il fotografo protagonista di Sinuous (ora anche su EFP). Visto che avevo già trattato di questa professione, mi piaceva l’idea che ci fosse un sottile legame tra le due storie! ^^

[2]EL GONDOLIER: è una canzone di Umberto da Preda e la potete ascoltare QUI. *_* a me è piaciuta un sacco.

[3]TRICORNI: è un tipo di cappello (QUI) seicentesco, utilizzato moltissimo nella tradizione Veneziana e nel Carnevale.

[4]LARVA: la larva è la maschera vera e propria che si indossa col costume detto BAUTA (cfr. nota) e tende a coprire completamente il viso. (esempio di larva: QUI)

[5]BAUTA: la bauta è uno dei costumi più tradizionali del Carnevale di Venezia ed aveva la particolarità di poter essere usato anche al di fuori della stessa festa. La Bauta (QUI) è composta da: un tricorno (tipo di cappello), una larva (la maschera), lo xendal (un velo che si annoda sotto la larva. QUI) ed il tabarro (ovvero il mantello. QUI). Questo tipo di costume veniva indossato sia dagli uomini che dalle donne.


Fine

XD non doveva venire così lunga, accidenti!
Come sempre, mi lascio prendere la mano quando ho un’idea che mi piace particolarmente. E visto che Venezia l’ho sempre amata (ci sono stata una sola volta, ma ci tornerò sicuro!) e che questa iniziativa carnevalesca cascava a fagiuolo, mi son detta: “Massì! ** Evvai con la bauta!”. Ho sempre adorato le maschere veneziane *adoro* sono così belle! **

Ultimo appuntino: Giacomo.
Il nome ed il suo essere affascinante non sono stati scelti a caso. XD
Qualcuno ha detto Casanova? *ridacchia*
**/ grazie Fanworldino per aver sciolto – una volta ancora – la mia logorrea! XD



Giudizio di MrsLovett:

"RONDO' VENEZIANO di MELANTO

Grammatica: 10/10
Stile: 9,5/10
Originalità: 8/10
Gradimento personale: 5/5
Descrizione della città: 4,5/5
Punti bonus: 5/5

TOTALE: 42/45

E' una storia ottima, sotto ogni punto di vista, in particolare per quanto riguarda grammatica e lessico che sono a dir poco eccezionali.
Ho molto apprezzato l'ironia e le parti comiche che mi hanno fatto scompisciare dalle risate!
La narrazione è incalzante e allegra ed è divertente e allo stesso tempo tenera l'immagine di Richard che cerca di attirare l'attenzione di Giacomo. I personaggi sono illustrati con fattezze decisamente reali e mi è piaciuto il contrasto tra il carattere timido di Richard, e quello un po' troppo estroverso di Giacomo (come al solito noi italiani ci facciamo sempre riconoscere XD).
Hai descritto una Venezia magica, dove l'amore è in agguato dappertutto, pure sulle gondole e in mezzo all'affollato carnevale.
Mi è veramente piaciuta e mi è quasi dispiaciuto arrivare alla fine. Purtroppo non ho ancora letto la storia riguardante Christopher ma prometto che correrò subito a leggerla ^^
Ancora i miei complimenti."

*-* questa storia si è aggiudicata due meravigliosissimi bannerini! *w* Di cui uno è un premio speciale! YAY! Troppo bellissimo!!! *-*

premio speciale

premio 3° posto

   
 
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