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Autore: Mapi D Flourite    06/02/2010    5 recensioni
[Hughes/Roy]
«Parlami,» gli disse. «Dimmi qualunque cosa, ma parlami. Non lasciarmi andare di nuovo.» [...]
Hughes gli afferrò il viso con entrambe le mani, spingendosi contro di lui e facendolo tornare a stendersi sulla branda.
«Tu,» gli disse, baciandogli la gola, «tu non andrai proprio da nessuna parte.»
Genere: Drammatico, Introspettivo, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Maes Hughes, Roy Mustang
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Titolo:  On the battlefield [Don't let me go]
Pairing: Hughes/Roy
Rating: R
Conteggio  Parole: 2372
Warnings: Yaoi, Angst
Spoiler: Nessuno

Note: Scritta per la challenge Meme di San Valentino indetta da Michiru-kaiou7 con il prompt "Light at the end of the world".
Sofferta, dalla prima all’ultima parola, anche perché non è da me scrivere cose tanto pesanti. Però mi è piaciuto scriverla, sìsì, anche perché una fic sull’OTP ci voleva, dopo averli snobbati al p0rn fest. ;)

Disclaimer: FMA, Hughes e Roy appartengono in toto a Hiromu Harakawa e l’unico scopo per cui questa fanfic esiste è perché mi andava di giocare un po’ con questi personaggi. Esatto, non ci guadagno un centesimo…

-:-:-

Sporchi di terra e sangue e membra umane, si muovevano come androidi nelle strade deserte, tra le macerie e la distruzione che avevano portato loro stessi, le braccia tese ad impugnare i fucili e le schiene rotte dalla stanchezza di una battaglia che sembrava non dover finire mai.
L’odore di fumo e polvere da sparo quasi non si sentiva più. C’era, naturalmente, ogni dove, sulle mani degli uomini che sparavano, da tutte e due le parti, sui cadaveri delle rappresaglie gettati a terra e negli angoli delle strade in mucchi e nell’aria stessa, che trasportava questo odore ovunque, in ogni più piccola fenditura, per far in modo che chiunque si accorgesse che quella terra si stava trasformando in polvere.
Ma non si sentiva.
Tutti così abituati ad averne l’odore nel naso, la polvere nelle narici, non riuscivano più a ricordare il profumo dell’aria vera – pulita, lievemente imbrattata di smog, leggera – sapevano soltanto che quell’odore che respiravano era reale, era fonte di vita e che se fossero riusciti a respirarla anche l’indomani significava solamente essere ancora vivi.
Ma che senso poteva avere vivere un giorno in più, se non si sapeva ormai da troppo tempo perché si stringevano i denti, sul campo di battaglia, per avere il privilegio di veder spuntare ancora una volta il sole – una palla di fuoco che bruciava e che rimbombava con lo sparo di mille cannoni?
Roy si fece scivolare la giacca dalle spalle e la buttò da parte, senza curarsene, quasi senza accorgersi che lo sfregare della stoffa aveva danneggiato i suoi bendaggi, facendogli male. Mosse un solo passo, lento, profondo, e si gettò sulla sua branda come un cane, a faccia in giù, per non vedere, non sentire, non respirare il fuoco che divampava attorno a lui; perché nonostante non vedesse altro che distruzione e morte, non sentisse altro che lo sparo dei fucili e continuasse, ogni giorno, a respirare la stessa aria che succhiava via agli uomini delle file nemiche – e i bambini, i ragazzi, le donne, chiunque fosse armato, chiunque non cedesse il passo – tutto questo continuava a fare male.
Perché nonostante la guerra fosse la sua realtà, lui sapeva – o lo sentiva, come un vago ricordo, un sogno – che lontano da lì c’erano persone che camminavano a testa alta per le strade e bambini che giocavano, uomini che si guadagnavano il pane lavorando onestamente e madri ansiose che aspettavano in trepidante attesa, dietro alla porta, i figli che rincasavano con un pugno di minuti di ritardo.
Tuttavia, più si sforzava di immaginarsi lontano da lì, con indosso abiti puliti e la testa piena di pensieri futili, più gli risultava difficile immaginare se stesso senza macchie di sangue sulle mani e sul cuore e non poteva pensare ad un’aria, un mondo, che non fosse impregnato di quell’odore assassino che, ovunque fosse, non gli dava tregua.
Si rigirò sulla branda, facendo leva sulle braccia indolenzite, e si mise a pancia in su, gli occhi scuri a fissare l’impalcatura sottile della tenda. Aveva le palpebre così stanche che anche abbassarle gli faceva male.
Stese le braccia ai suoi fianchi e cercò di piegare le gambe, puntellandosi sui tacchi degli stivali che non aveva tolto – che senso avrebbe avuto farlo? Era soltanto una cosa in più da fare l’indomani, se mai avesse visto spuntare il sole.
In lontananza sentì i rumori della battaglia scemare quasi con dolcezza, mentre i cannoni e i fucili sparavano sempre più di rado, segno che le vie nemiche stavano retrocedendo o, nel caso più fortuito fossero state abbattute – una mattanza di uomini da accogliere quasi con gioia, come un passo in più verso la fine di quella escursione all’Inferno.
Se soltanto…
«Psst, Roy?» Un sussurro e lui sollevò lentamente le palpebre, rimanendo immobile. «Roy, sei sveglio?»
Mosse la testa lentamente, da una parte, per poter vedere meglio l’ingresso della tenda. Vide la figura di un uomo sgusciare dentro e avvicinarsi alla sua branda, camminando in punta di piedi. Si fece forza sulle braccia e si sollevò, a fatica, quel tanto che bastava perché l’altro potesse capire che, sì, era sveglio ma, visto com’era ridotto, che avrebbe fatto meglio ad avere un’ottima ragione per essere lì, in quel momento.
L’uomo gli sorrise e gli sciorinò sotto il naso due lattine di birra lucide che brillavano sotto la luce intermittente della lampada che oscillava sul soffitto. Sbatté le palpebre e l’uomo appoggiò le lattine da una parte, aiutandolo a mettersi dritto e sedendosi poi accanto a lui, recuperando le due birre.
Gliene porse una che Roy afferrò con entrambe le mani, senza smettere di guardarlo. «Maes?»
«Io e i ragazzi siamo riusciti a fregarle dalle scorte degli ufficiali, è roba di prima qualità,» si vantò, aprendo la sua lattina con un gesto deciso e aspirò la schiuma prima di bere una sorsata abbondante. «Ah! È buona davvero, no?» Si voltò a guardare Roy e inarcò un sopracciglio, vedendolo immobile, con la lattina ghiacciata tra le mani a fissare il vuoto davanti a sé.
Sospirò e ne bevve un altro sorso, studiando le fasciature dismesse sulle braccia del’altro uomo. «Ehi, Roy, come vanno le ferite?»
Male. Sono così abituato al dolore che, ormai, quasi non riesco a sentirlo. «Guariscono.» La sua voce era roca, sporca, come il resto di lui. Hughes sorrise e gli sfilò la lattina dalle mani per aprirgliela. «Tanto per sciacquarti la gola.»
Roy la prese nuovamente dalle sue mani e se la portò alla bocca, bevendone un sorso. Sapeva di terra, polvere e cenere, come tutto, in quel posto maledetto, ma era fredda e la lasciò scivolare nella sua gola, nello stomaco. Sospirò, appoggiandosi le mani sulle ginocchia.
«Ah, ben fatto.» Hughes gli appoggiò la mano su una spalla e bevve ancora, fino a metà, quasi svuotandola del tutto. Roy centellinò la sua, assaporando il getto freddo che gli colpiva lo stomaco violentemente. Non era una sensazione piacevole, ma era diversa. Diversa dal torpore che sentiva nelle braccia, dall’aria secca che gli impediva di respirare, dall’inerzia con cui, ormai, uccideva decine di uomini tutti i giorni.
Hughes si passò una mano sul pizzetto, appoggiandosi sulle ginocchia. «Ehi, Roy?»
«Mh?»
«Tu lo sai che giorno è, oggi?»
Roy sollevò gli occhi su di lui, guardandolo con aria interrogativa. Che giorno era? No che non lo sapeva. Che importanza avrebbe avuto tenere conto dei giorni che gli scivolavano, tutti uguali, dalle dita? Erano solo giorni, l’alternarsi della luce e del buio e degli schizzi di sangue che macchiavano le strade e i muri. Erano ore, minuti e secondi che si susseguivano senza sosta bruciati dall’odore della battaglia.
Abbassò il capo e sospirò, mettendo la sua lattina da parte. «No, non lo so.»
Hughes inarcò un sopracciglio. «No? Be’, secondo i miei accuratissimi calcoli al sorgere del sole sarà il quattordici.»
Roy aggrottò le sopracciglia. «Il quattordici?»
«Mh mh. Il quattordici.» Rimase zitto un momento, accarezzandosi il mento ispido e poi lo guardo, stirando un sorriso che non trasmetteva alcuna felicità. «È un po’ triste, vero?»
Roy si strinse nelle spalle, la testa bassa. «È soltanto un altro giorno. Che importanza vuoi che abbia?»
«Ma Roy! Domani è San Valentino!»
E la sentì, nitida, potente, gelata, una fitta allo stomaco da togliere il fiato. Percepì distintamente il dolore, il male lancinante al petto mentre gli sbattevano in faccia quella favoletta di un mondo senza guerra che ora gli appariva più nitida che mai.
Perché, da qualche parte nel mondo, c’era qualcuno che, l’indomani sera, quando lui si sarebbe gettato da qualche parte per dormire quelle poche ore che gli erano concesse, avrebbe festeggiato, ci sarebbero stati giovanotti e ragazze in giro per le strade, nei ristoranti, a scambiarsi fiori, regali e stupide smancerie.
Strinse i pugni, fino a farsi male. Da quanto tempo aveva smesso di provare qualcosa che non fosse alienazione? Da quanto tempo aveva smesso di essere un uomo, per trasformarsi in una macchina, un essere senz’anima che non era in grado di far altro se non combattere quella guerra inutile e uccidere?
Guardò Hughes e la sua espressione preoccupata e si chiese come fosse possibile che lui fosse rimasto così. «Perché?»
Hughes lo guardò confuso. «Perché cosa?»
«Perché tieni il conto dei giorni? Perché sai che domani è San Valentino? Perché in questo maledetto inferno hai tempo da sprecate a lamentarti che domani non potrai festeggiare, quando qui l’unica cosa che conta è rimanere vivi ancora un altro giorno?» Si sbatté i pugni sulle ginocchia, assottigliando gli occhi che erano diventati quasi fastidiosi, per quanto pungevano. Si mise le mani nei capelli, respirando affannosamente.
Hughes lo guardò con la bocca aperta e gli si avvicinò, piano, fino a trovarsi spalla a spalla con lui e gli appoggiò una mano sulla schiena. «Io…» cominciò, senza sapere bene che cosa dire. «Non è che io non lo senta, Roy. È che… in questo postaccio che sa soltanto di polvere bruciata c’è il rischio di rimanerci intrappolati per sempre…» Gli strinse le spalle, delicatamente per non fargli male, e se lo portò più vicino, contro il petto. «E non sto parlando soltanto del fatto che questa guerra non finisce mai, sto parlando di dopo, quando saremo a casa, e ci troveremo nel letto a chiederci quante persone uccideremo appena sorge il sole.»
«Dopo, Maes?»
Hughes sospirò. «Voglio rimanere me stesso. Voglio essere in grado di rimanere umano anche quando non c’è più umanità nemmeno a camminare per strada. Non voglio abbandonarmi a me stesso e dimenticare che a casa ci sono persone che mi aspettano e che ho ancora tutta una vita da vivere, lo capisci?»
Roy distolse lo sguardo, anche se Hughes non poteva vedere i suoi occhi.
Lo capiva? «No.»
La sola sillaba sembrò rimbombare ferocemente attorno a loro, tra di loro, ponendosi come una barriera invalicabile tra i loro corpo. Hughes sospirò, accarezzandogli i capelli. «Lo so,» disse. «Ecco perché sono venuto.»
Roy si irrigidì e si sollevò per guardarlo in viso. Hughes sorrideva, mestamente, e Roy si chiese quale fosse la sua espressione. Gli sembrava che il suo viso non fosse più in grado di assumere alcuna espressione, mentre nel suo petto sentiva agitarsi un dolore acuto e la consapevolezza di star perdendo ogni briciola di umanità che potesse essergli rimasta. Allungò una mano, a tentoni, e afferrò la maglia dell’altro uomo, stringendola con forza tra le dita.
Hughes gli coprì la mano con la propria e gli si avvicinò, poggiandogli la fronte contro la sua. Roy chiuse gli occhi, mentre iniziava a sentire il calore della vicinanza dell’altro uomo scaldargli la pelle del viso. Era un calore buono, che si insinuava in lui lentamente e che spazzava via il torpore che si sentiva attaccato ai muscoli, alla pelle.
Sospirò. Ora riusciva a sentirlo, il dolore.
Il braccio indolenzito, la gamba, il petto fasciato troppo stretto. Sentì le lacrime pungere sotto gli occhi e aprì la bocca, annaspò, sentendosi stranamente leggero. C’erano. Erano lì, sotto le palpebre. C’erano ancora.
Si sollevò lentamente, lasciandolo andare e lo guardò negli occhi. «Parlami,» gli disse. «Dimmi qualunque cosa, ma parlami.» Hughes sollevò una mano e gli appoggiò i polpastrelli su una guancia, sentendola bollente. «Roy.»
«Qualsiasi cosa, Maes, ma parlami. Non lasciarmi andare di nuovo.»
Hughes lo afferrò per la nuca, senza forza, e si avvicinò a lui, posando la bocca sulla sua. Roy chiuse gli occhi e si aggrappò di nuovo alla sua maglia mentre sentiva il mento e le guance ispide del suo viso strusciare contro la sua pelle.
Aprì la bocca e andò incontro alla sua lingua calda, accogliendola dentro di sé mentre iniziava a sollevargli la maglia sul petto, facendogliela scivolare dalla testa e gettandola da parte. Hughes gli afferrò il viso con entrambe le mani, spingendosi contro di lui e facendolo tornare a stendersi sulla branda.
«Maes.»
«Tu,» gli disse, baciandogli la gola, «tu non andrai proprio da nessuna parte.»


Il mattino sorgeva sempre troppo presto.
Roy si mosse a disagio sulla branda e rotolò su un fianco, sentendo una fitta acuta propagarsi fino alla gamba. Aprì gli occhi e sentì le voci concitate che venivano da fuori sbraitando ordini a destra e a manca.
Forse era successo qualcosa, ma non riusciva a distinguere bene le parole.
Si mise seduto e un’altra fitta di dolore, questa volta dalle reni, lo costrinse a rimanere immobile in quella posizione, mentre i ricordi offuscati della notte precedente iniziavano a rischiararsi. «Maes.»
«Qui.»
Spostò lo sguardo in un angolo della tenda e vide Hughes seduto a terra con le gambe raccolte al petto, una sigaretta in bocca e la giacca appoggiata sulle spalle.
Roy sbatté le palpebre. «Che è successo?»
«Non lo so, non mi sono ancora mosso.»
«Hai dormito lì? Che ore sono?»
«Le cinque.» Si alzò in piedi borbottando qualcosa contro dei maledetti acciacchi. «Se ti senti bene sarà meglio andare, sembra essere successo un gran casino.»
Roy si alzò, anche se a fatica, e raccattò la propria giacca, abbandonata esattamente dove lui l’aveva lasciata la notte prima. Forse, dopotutto, non era cambiato niente.
«Ehi, Roy.»
«Cosa?»
«Felice San Valentino!»
O forse, dopotutto, qualcosa era cambiato. «Ma finiscila.» E sorrise.
«Una cosa è certa,» continuò Hughes, seguendolo fuori dalla tenda, nell’aria ancora scura che non si era ancora liberata del torpore della notte. «Questo San Valentino farà veramente schifo. L’anno prossimo, te lo dico io, organizziamo qualcosa di divertente.»
L’anno prossimo. «E dovrei passarlo con te, il prossimo San Valentino?»
Hughes lo guardò, offeso. «E questo che mai vorrebbe dire?»
«Che piuttosto che ubriacarmi come una vecchia spugna con un tizio vecchio e noioso preferirei passare una serata con una bella ragazza, ti pare?»
«Questa poi! Vecchio e noioso, ma sentilo.» Si passò una mano sulla nuca, continuando a borbottare: «Ok, facciamo così: invece del quattordici ci vediamo il quindici e chi ha avuto il San Valentino più schifoso paga da bere.» Sorrise, allungando una mano perché lui gliela stringesse: «Andata?»
Roy spostò lo sguardo e, all’orizzonte, vide i primi deboli raggi del sole fare capolino, a testimone che anche quel giorno stava nascendo. Chiuse gli occhi. Era veramente un’idea stupida.
Guardò la terra bruciata sotto i suoi piedi e si chiese se l’avrebbe rivista così anche l’indomani: forse quella guerra sarebbe durata ancora tanto, troppo tempo. Come potevano sapere che, da lì a un anno, sarebbero stati nuovamente a casa, senza nessuna preoccupazione nella mente se non il trovare la ragazza migliore con cui passare la nottata.
Guardò Hughes e si concesse un sorriso ampio, quasi furbo, sincero.
In realtà non importava davvero cosa avrebbero fatto l’anno prossimo, era solo un modo per spingerli ad andare avanti, a restare se stessi. «Andata,» disse, stringendogli la mano.


  
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