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Autore: Harriet    08/02/2010    3 recensioni
Esiste una strada migliore di un'altra, quando nella vita avremmo potuto fare, essere qualsiasi cosa? Un'artista girovaga, di ritorno nel suo paese natale, si troverà di fronte la prova vivente di ciò che ha lasciato quindici anni prima. Avrebbe fatto meglio a restare? Oppure c'è un senso nel viaggio intrapreso?
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'La Compagnia della Giostra'
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Le strade possibili


L'amore lasciato sospeso
qualcuno ne approfitterà
Ma questo riguarda il ritorno
remota possibilità




C'erano negozi che vendevano cose di cui lei nemmeno sospettava l'esistenza. Si fermava a ogni passo, sbirciando nelle vetrine con un misto di curiosità e reverenza, qualche volta posandovi sopra la mano, quasi avesse potuto toccare quel che intravedeva oltre il vetro. Il negozio di casalinghi esponeva oggetti per la casa dalle forme tanto bizzarre che non si distingueva più quale fosse il loro uso originario. C'era una bottega di giocattoli con la vetrina stipata di scatole di mostri e macchinari, tutte piene di enormi scritte in inglese. A lei faceva passare la voglia di giocare. Ecco il negozietto dell'Alda: era diventato una boutique con un nome straniero, e in vetrina c'era un capo d'abbigliamento striminzito e spolverato di pietruzze: con tutta la sua buona volontà, non si capiva proprio dove uno dovesse infilarselo, quell'affare.
Quindici anni lontana da casa. Doveva essere anche un po' rincoglionita, oltre che invecchiata.
Di sicuro il paese si era imbruttito. Più di tutto la turbavano le scritte: le insegne, i manifesti, i cartelli, le pubblicità. Non che nel resto del mondo non ce ne fossero. Però vedere tutte quelle scritte lì, nel suo luogo natale, con i loro colori accecanti, pronte a dare informazioni non richieste... Ne era infastidita.
I cambiamenti dei luoghi erano sorprendenti, ma quella era una sorpresa messa in conto. Non puoi sperare di partire ventenne da casa tua, vivere girando il mondo con una compagnia di artisti di strada e poi tornare e pretendere di trovare tutto come prima.
I posti speciali c'erano sempre, però. Quelli non vengono distrutti da niente: basta saperli riconoscere sotto gli strati del tempo e le trasformazioni. E lei senza dubbio ne era capace.
Finalmente un negozio che sembrava simile al se stesso di quindici anni prima. Infilò la testa dentro, senza pensarci troppo, e mosse la mano in un cenno di saluto. Marina, la libraia, lasciò perdere la merce da prezzare e la raggiunse, guardandola con sospetto.
- Desidera qualcosa?
- Te lo ricordi chi sono?
Marina la studiò per qualche momento, dandole la possibilità di guardare a sua volta. Marina si era rimpicciolita e raggrinzita, però aveva sempre quell'aura di gentilezza che non svaniva mai, nemmeno quando veniva dai bambini a dire di smetterla di sfogliare i libri con le mani sporche di cioccolato.
- Sei la figlia dell'Isabella?- Indovinò infine la libraia, spalancando gli occhi per lo stupore. - Sei l'Agata?
- Davvero.
- Oh, Dio, ma da quanti anni non tornavi a casa?
- Ero già tornata, ma solo per salutare la mia mamma, un paio di giorni e via. Questa volta mi fermo. La mia compagnia porta il suo spettacolo qui vicino.
- Come sei cambiata.
Lei non rispose se non con un sorriso. Era una gentile ovvietà, quella detta da Marina. Tutti cambiano, in quindici anni. Soprattutto le ragazzine timide, spettinate e non proprio attraenti. Soprattutto se vendono l'anima alla strada e all'ispirazione.
- E dimmi un po', come ve la cavate, con la vostra compagnia?- Le domandò Marina, allungando la mano quasi volesse scompigliarle i corti capelli scuri, come faceva quando Agata era piccola. Però si fermò prima di compiere il gesto.
- Ce la caviamo.- Rispose lei. Alzò le spalle, fece una risatina imbarazzata. Si può essere felici di vedere una persona, eppure avere così poche cose da dirsi? - Verrai a vederci? Domani, giù al Ponte. Alla piazza dove ci facevano le sagre.
- Perché no? Mi farebbe piacere.
- Bene. Ti aspetto. Ciao.
Agata sgusciò via dal negozio e saltellò lungo il marciapiede, inseguendo il motivo nella sua testa, dimentica di tutto. C'erano altre vetrine, ma non le interessavano più. I vetri rimandavano frammenti della sua danza, immagini di una donna alta e magra, con le braccia lunghe, il seno piatto e la schiena un po' curva, un burattino sgraziato che non si faceva problemi a passeggiare per il paese come fosse stata una regina straniera in visita, anziché una povera girovaga che tornava a casa dopo troppi anni.

C'erano torce e lanterne, c'era la musica già nell'aria, e la gente si affollava intorno al furgone del venditore di bevande e schifezze dolci. Allo spettacolo mancava una mezz'ora almeno. Agata era pronta e aspettava in un angolo della tenda adibita a spogliatoio: ascoltava le risate e gli scambi dei suoi compagni, guardava fiori di trucco germogliare sui visi, fiocchi che si stringevano attorno a piccole vite eleganti, cravatte annodate e stivali allacciati. Respirava l'atmosfera piena di voci e aspettative. Solitamente prendeva parte a quel rito rumoroso che esorcizzava la paura del palco, ma quella sera aveva voglia di restare in silenzio. Non c'era un motivo preciso.
A un certo punto abbandonò la tenda e sgattaiolò tra la gente che aspettava lo spettacolo. La maggior parte degli spettatori chiacchierava distrattamente: pochi notarono l'abbigliamento insolito della donna che s'infilava nella folla e si guardava attorno. Riconobbe amici, nemici e indifferenti, quelli che avevano colmato, adornato o ferito la sua vita quindici anni prima.
Si fermò solo quando due occhi chiari agganciarono i suoi. Si fermò, incuriosita dalla forza di quello sguardo. Le ci volle qualche momento per capire che la persona di fronte a lei era un bambino, concentrata com'era sugli occhi. Un bimbetto che poteva avere quattro o cinque anni, con i capelli castani un po' lunghi e degli splendidi occhi azzurri. La fissava con interesse. Lei accettò lo scambio di occhiate e si mise di fronte a lui, seria. Alla fine il bambino esplose in un sorriso che partì dalla piccola bocca e raggiunse gli occhi e tutto il viso, illuminandolo completamente. Agata sorrise a sua volta, entusiasta. Poi mosse la mano, in un cenno di saluto.
- Ciao.- Le disse lui.
- Come ti chiami?- Gli chiese, chinandosi appena per parlargli meglio.
- Michele. Perché sei vestita da clown?
- Perché sono una specie di clown.- Rispose lei, felice che finalmente qualcuno si fosse accorto della sua lunga giacca a toppe colorate e delle sue scarpe spaiate.
A Michele la cosa sembrò piacere, passato un primo momento di perplessità.
Agata stava per dirgli qualcos'altro, quando una signora attempata si fece largo tra la gente e recuperò il bambino.
- Mi scusi, eh...- Disse la signora. - Ci è scappato.
- Elvira? Se lo ricorda di me? Sono Agata. La figlia di Isabella.
- Agata.
La signora parve avere una sorta di illuminazione divina. Sgranò gli occhi e portò le mani alla bocca, in un gesto particolarmente comico. Agata aveva imparato a riconoscere il potenziale comico dei movimenti e pensò che la signora Elvira fosse diventata ancora più ridicola, dopo quindici anni. Anche ai tempi in cui Agata era fidanzata con Giulio, suo figlio, Elvira era sempre stata un tipo involontariamente buffo.
Agata all'improvviso ebbe un'intuizione.
- Michele è il bambino di Giulio?
- Sì.- Rispose la donna. - Si è sposato sette anni fa. Con Serena. Serena Lorni.
- La ragazza bionda che abitava sopra il bar.- Mormorò Agata. Un ricordo fugace le riportò alla mente l'immagine sgradevole di Serena, della sua risata sempre un po' troppo maliziosa e dei suoi denti non così belli. Ma non ci prestò attenzione: il suo pensiero era stato preso da qualcos'altro.
Tornò a guardare Michele.
Il bambino accennò un sorriso.
C'era Giulio, agli angoli di quella bocca, nel modo in cui erano formate le guance e il naso, nel colore dei capelli.
Lo guardò e rabbrividì.
Una strada esclude l'altra, sempre.
Avrebbe potuto esserci il castano dorato dei suoi occhi, invece dell'azzurro regalato da Serena, nel viso di quel bambino. Michele avrebbe potuto chiamarla “mamma”, se Agata avesse scelto una strada diversa, quindici anni prima. Se non se ne fosse andata, inseguendo un richiamo sconosciuto. Le strade possibili erano molte, e una l'avrebbe condotta a Giulio, quel ragazzo buono, pragmatico, semplice, concreto. Ci sarebbero potuti essere giorni al sicuro in una piccola casa, giorni pieni di città, sapone, lenzuola, pasta, giardinaggio, giocattoli sparsi per le stanze, amici che si accoglievano in una stanza, incontri dall'altra parte della strada. Giorni buoni, sorretti dalle mani di un uomo saggio e illuminati da quel bambino che sorrideva.
Invece lei aveva preferito la strada incerta di una vita fatta di canzoni e viaggi, senza un punto fermo, senza la rassicurante semplicità del suo paese. Si era presa i disagi del continuo spostarsi e il destino del nomade che alla fine è straniero un po' dappertutto. La fatica di imparare brandelli di lingue diverse. L'impegno di ricordare i nomi dei posti in cui si è passati, attaccandoci la memoria di qualche immagine e almeno un incontro. I pianti e le risate sotto la distesa infinita del cielo, con il trucco di scena che si scioglie e una percezione precisa e tagliente di quel che significa inseguire un desiderio.
Le strade possibili erano quelle e lei aveva deciso quale imboccare quando già i suoi passi la stavano percorrendo.
C'era una via migliore dell'altra?
- Sei sempre stata una brava ragazza.- La voce malinconica di Elvira interruppe i suoi pensieri.
Agata tornò a guardare la donna. - Una brava ragazza, tranquilla, cortese. Non ho mai capito perché te ne sei andata.
- Era... Io lo volevo.- Mormorò Agata, a disagio.
Per la prima volta si sentiva completamente messa in discussione. Ed erano bastati gli occhi di un bambino: quelli che aveva, quelli che avrebbe potuto avere.
- Avresti potuto avere un figlio anche tu.- Sospirò la donna, quasi addolorata, come se davvero le dispiacesse che Agata si fosse persa qualcosa.
Una strada esclude l'altra, sempre.
Una manciata di sentimenti strani le si aggrovigliarono nel petto. C'era un po' di senso di colpa immotivato. Il bisogno di giustificarsi per qualcosa che non aveva fatto. E un briciolo di orgoglio per quello che invece aveva fatto. Fu quel briciolo a sciogliere quel tumulto di pensieri.
Una strada esclude l'altra, sempre.
Però questo non significa che per forza una strada sia migliore dell'altra. Le strade possibili sono ugualmente piene di doni e fatiche, di sassi e di erba, di orrori e meraviglie, e tutte portano inaspettate ricchezze e storie meravigliose.
Tutto sta nello scegliere l'unica strada che possiamo fare: non perché è la migliore, ma perché è la nostra.
- E' vero.- Rispose Agata. - Non ho un bambino. Però...
Si chinò di fronte a Michele ed estrasse dalla tasca un'armonica. Fece un buffo inchino e una smorfia. Cantilenò un motivetto con la voce distorta, e infine regalò al piccolo spettatore una strofa suonata sull'armonica.
Michele la ripagò con una risata.
- Però so farlo ridere, un bambino.
E fu di nuovo nient'altro che un burattino sgraziato, o una regina straniera in visita in un piccolo paese. Si inchinò alla signora, strinse la mano al bambino e corse via, verso il palco, verso l'unica strada possibile.






***

Terza classificata al contest Teatranti, girovaghi e cantastorie indetto da Alaide. Grazie a lei per aver proposto un tema a me così caro!
Questa storia è parte di una raccolta dedicata ai membri di una compagnia di artisti girovaghi, che conoscerete pian piano. La raccolta è accompagnata dai meravigliosi testi dei Mercanti di Liquore: la citazione iniziale e il titolo di questa storia vengono dalla loro “Il viaggiatore”.
Ciao!
   
 
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