Casa loro è
innaffiata da una luce arancione e sciolta, tenue e caldissima, che viene dalle
mille candele che Feliciano ha imposto di mettere per la notte di Natale.
Ludwig finisce di accendere l’ultima, soffia sul fiammifero e lo butta nel
sacchettino che si è portato appresso per tutta le stanze: ovviamente,
nonostante fosse una richiesta piagnucolata e insensata di Italia, ha dovuto
pensarci lui a fare tutto.
“Italia, ci sono le candele da
sistemare.”
“Le cosa?”
“Le candele. Le hai volute tu.”
“Ah, sì? Me lo sono già scordato…”
“Italia, ne abbiamo comprate cento la
settimana scorsa.”
“Ma non mi vaaaaaa…
mettile tu, non abbiamo mica soldi da sprecare, dobbiamo usarle!”
Ma se ne lamenta fra sé e sé, e neppure tanto,
perché è oramai abituato a quel tipo di comportamento da parte del suo ragazzo,
tanto entusiasmo nella teoria e la pigrizia che lo prende appena si tratta di
alzare un dito.
Controlla che tutte le candele siano a posto,
che la ceramica sia messa bene perché raccolga tutta la cera che colerà (quella
con cui poi giocherà Feliciano, che riesce a trovare qualcosa di divertente e
infantile in tutto quel che guarda e tocca, e che ha invocato la neve per
giorni e giorni, sbuffando e lamentandosi), e torna in salotto, dove ha
lasciato Feliciano a crogiolarsi davanti al camino acceso come un gatto
randagio, ed esattamente così lo ritrova: sdraiato davanti al fuoco, che
allunga e ritrae gambe e braccia come per sgranchirsi le zampe. Fuori nevica e
c’è un silenzio assoluto, e a pensarci gli pare molto strano che non sia fuori
a giocare, a invadere l’ovattato silenzio bianco col suo cicalare continuo, a
fare pupazzi e obbligarlo ad una lotta che sarebbe finita nel momento esatto in
cui avrebbe cominciato a lamentarsi del troppo, ovvio, freddo.
Ludwig si
china su di lui e gli bacia la guancia rossa e bollente. “Non esci?”, domanda
vicinissimo al suo orecchio, poiché teme che, altrimenti, la sua voce sarebbe
stata sovrastata, nella testa di Italia, dallo scoppiettare allegro del fuoco.
“Mh, no, non mi va…”, biascica con
poca convinzione l’altro, con un tono che potrebbe far tutto tranne imbrogliare
Germania.
“Non dire
scemenze. Cosa c’è? È impossibile che non ti vada, hai passato due settimane
praticamente solo fuori in giardino.”
Ludwig lo
tira su a forza, ignorando le deboli proteste dell’altro che preferirebbe di
gran lunga continuare a riscaldarsi fino a diventare un pezzetto di carbone,
(“Italia, è impossibile che gli umani diventino pezzi di carbone.” “Ma io
voglio diventarlo, niente me lo può impedire!” “La fisica te lo impedisce.” “Io
posso imbrogliare la fisica!” “Io te lo impedisco.” “Ma Luuuuuudwiiiig…”)
e lo obbliga a sedersi sul divano e a guardarlo negli occhi, ma Feliciano si
rifiuta tenendo lo sguardo basso e di lato, così tutto vede tranne la figura
autoritaria del suo uomo – osserva i vasi con le stelle di Natale, così belle e
rosse; i quadri con le riproduzioni delle sue opere d’arte preferite, quelle
due o tre foto di lui insieme al tedesco che è riuscito a strappargli dopo
lamentele e ricatti (il suo viso di solito bianchissimo rosso fino alle
orecchie, in una ha un sorriso talmente forzato da essere quasi inquietante),
il grande orologio super tecnologico, regalo di Austria-san,
che gli ricorda che manca una piccola manciata di minuti alla mezzanotte. La
neve fuori dalla finestra fiocca lenta e leggera, come stelline di zucchero.
“Dai, non
fare lo stupido. Dimmi.”
Germania
vorrebbe avere una voce un po’ meno severa, ma la sua voce lo è di base, e più
di tanto non riesce ad attenuarla, neppure dopo i vari tentativi di Feliciano
(“Su, Doitsu, imitami! Miagola!” “… e questo a cosa
dovrebbe servirmi…?” “Hai mai sentito un gatto col
vocione da tedesco grande e grosso? Io no! Se riuscirai ad imitare un gatto la
voce ti diventerà di certo meno spaventosa!”).
“Davvero,
non ho nulla.”
È più la
fermezza del suo tono che altro a mettere Doitsu in
allarme. Italia è sempre stato quello delle parole tutte attaccate o
intervallate da lunghissime pause, quello delle vocali allungate all’infinito e
del ciondolare con la testa mentre parla, con le parole che sembravano
rimbalzare, lettere che svaniscono piano dell’indeterminatezza delle sue frasi.
E invece ora pare che lo imiti, usando un tono quasi duro e senza degnarlo di
uno sguardo. Ha le mani in grembo che si stringono in pugni, anche questi
appena accennati, teme di infilarsi le unghie nei palmi e farsi male – la pelle
si lacererebbe e sanguinerebbe, e lui ha un sacco paura del sangue –, il labbro
inferiore di fuori e un broncio che cerca invano di nascondere. In fondo, anche
Italia sa benissimo che è impossibile nascondere qualcosa a quell’uomo che,
nonostante non sia il maggior rappresentante della delicatezza, sa benissimo
come riconoscere in lui qualcosa che non va. Sa farlo solo con Italia, ma è
sempre qualcosa. (e poi a lui piace che Doitsu sia
così attento solo con lui.)
“Non è
vero.”
“Te lo
giuro.”
I rintocchi
della campana annunciano la mezzanotte e arrivano ovattati, e per Feliciano
sono rombi di tuoni e si butta al collo di Ludwig, che lo stringe con forte
sorpresa, e si ritrova automaticamente ad accarezzargli i capelli.
“Non vai a
messa?”, gli chiede, ricordandosi nel momento in cui lo dice che c’è la messa
di mezzanotte, la notte di Natale, e gli pare fosse sua abitudine andarci.
“No, sai, a
me non piace tanto la Chiesa, è più Lovino quello religioso…”
Nel
pronunciare il nome del fratello, è come se la voce si rendesse vetro e tanti
piccoli sassolini vi si scagliassero contro.
I rapporti
tra loro sono andati peggiorando, da quando Feliciano vive con Ludwig. Italia
del sud non ci è mai andato per il sottile, e non l’ha fatto neppure nel
momento in cui ha scoperto la loro convivenza, quando non si è neppure degnato
di prendere il fratello in disparte per esporgli il proprio parere ma, davanti
a Ludwig e Antonio, si è esibito in un penoso spettacolo in cui il copione
prevedeva solo insulti, dettati da una rabbia incontenibile, forse leggermente
alimentati dalla gelosia – qualsiasi cosa sia stata, ha lasciato Feliciano un
cumulo di tristezza tremante in mezzo alla casa (“Tu, tu, schifoso maledetto,
mi inviti a casa tua solo per dirmi che vivi con quello, vergognati!! Mi fai
schifo, mi vergogno di avere il tuo stesso sangue!! Non ti voglio più vedere,
non osare più farti vedere, non siamo più fratelli!! Non mi importa se sei vivo
o morto , né ora né mai, vedi di morire presto così ti togli dai coglioni,
rifiuto!!”), dopo aver tentato invano di spiegarsi e abbracciare il fratello,
che ha risposto con un ceffone e insulti ancora più pesanti – e la porta che
sbatte così forte da creare una leggerissima crepa nel muro. Da quando i due
convivono, i fratelli italiani non si sono mai sentiti; Ludwig ha sorpreso più
volte il suo ragazzo appostarsi vicino al telefono, sospirando di tanto in
tanto, con gli occhi un po’ lucidi di tristezza mista a speranza.
Il tedesco
accarezza i capelli di Feliciano fino a quando i singhiozzi, cominciati appena
ha chiuso bocca, non si placano, lasciando spazio ad un respirare profondo,
interrotto da alcuni respiri frettolosi e spezzati. Lo guarda, ed è quasi
straziante vederlo così distante dal solito Italia, quello che è sempre così
luminoso ed allegro, quello che lo obbliga ad accogliere gattini abbandonati
finché non trovano padrone, quello che riesce a fargli amare svegliarsi a
mezzogiorno, perché a quell’ora lui comincia a cucinare, il più delle volte
solamente con la sua enorme canottiera addosso, ed è tremendamente bello
vederlo concentrato ai fornelli.
“Su, su.”, e
nel tono marziale inserisce una forzata nota tenera, che comunque Feliciano
riesce ad apprezzare tantissimo. Si sforza, perché la sua Italia ha davvero
bisogno di tutto fuorché di tentativi da apprezzare, ma di qualcosa di
concreto,. “È tutto a posto…”, che finalmente riesce a sfumare in calore e baci
accennati.
Ludwig non
sa assolutamente come comportarsi. Le lacrime di Italia solitamente sono
consumate in silenzio, quando lui non c’è, e con lui condivide solo gli occhi
rossi che sono facili da guarire, due carezze e un film stupido sul divano – e
poi Italia non ha mai saputo piangere per qualcosa di serio, Germania era
sicuro che il suo cervello non fosse neppure troppo sviluppato per qualcosa di
veramente serio, solitamente lui piange per i film strappalacrime o i fumetti
per ragazze, e lì sì ch’è tutto facile. Ma vederlo e sentirlo star male perché
suo fratello lo detesta, beh, è ciò che di peggio c’è al mondo (in generale,
Italia che soffre non dovrebbe esistere, porta solo del dolore così grande da
risucchiare tutto, se non ci sta attenti), e consolarlo diventa davvero
difficile. È complicatissimo, e per quanto lui possa analizzare il problema
mille volte nel modo più freddo e analitico possibile, trovare una soluzione è
davvero impossibile.
Prende il
problema con le pinze, lo appende ad un filo; lo osserva, lo gira, guarda ogni
suo lato ed angolo, ogni faccia. No, non c’è modo davvero. Diamine, qui bisogna
improvvisare.
“A te… piace il Natale, vero?”
Le domande
di Ludwig sono sempre inaspettate, anche perché lui è uno di quelli che non
chiedono mai perché sono sicuri delle proprie conoscenze.
“Sì che mi piace…” risponde, incuriosito da quella domanda strana, che
non avrebbe mai creduto uscire dalle labbra di Ludwig, ed è proprio riduttiva
la sua risposta: biscotti, canti, festoni, alberi, palline di vetro
costosissime volute con tanta forza, ama tutto e tutto lo esalta rendendolo
ancora più bambino di quel che già è. Un cercare di esorcizzare la solitudine
di non avere Lovino al fianco per il primo Natale
della sua vita, quel senso di mancanza e distanza che gli provoca il voltare la
faccia e non vederlo arrabbiarsi perché si sono bruciati i biscotti e poi
incolparlo perché lui i biscotti manco voleva farli, sono cose da femminuccia –
lui che a Babbo Natale non ci crede, ma che fa una letterina piccola piccola che infila tra gli aghi dell’albero ed è sempre
così felice quando riceve quello che vuole, anche se lo manifesta in un sorriso
appena accennato e poi lo maschera con lamentele su ogni cosa, come se si
vergognasse di essere contento.
“Cosa ti
piace del Natale?”, e nel parlare Ludwig diventa rossissimo, e Feliciano si
ritrova a ridacchiare perché è della stessa identica tonalità delle stelle di
Natale, gli viene l’idea di prenderne una e attaccargliela ai capelli, ma non
crede che il tedesco approverebbe, e poi non crede proprio lo lascerebbe andare
per mutilare una pianta – non lo farebbe andare via nemmeno per andare al
bagno, ne è praticamente sicuro.
“Mi piacciono…” comincia, pensieroso e un pochino dubbioso,
perché l’elenco è veramente lungo e ha paura che poi Doitsu
si annoi, “mi piace tanto la neve, e le luci in città…”,
tira su col naso e un po’ solleva la testa, guardando il suo ragazzo a tratti,
gli occhi che schizzano da mille parti, “e i dolci e il pandoro e il panettone,
e i maglioni caldi ed enormi e il caminetto acceso, e gli abbracci stretti stretti e caldissimi, lo sai?, veniva tutti gli anni il niichan Francia alla cena di Natale e ci portava tanto cibo
e tanti regali e ci abbracciava sempre, e i regali e i canti…
sai, io e Lovino li ascoltavamo sempre insieme, lui
mi convinceva sempre ad andare in chiesa perché così ci mettevamo in fondo alla
chiesa e li ascoltavamo in pace… così mi piaceva
andare a messa, non era noiosa per nulla con lui…”
E, prima che
il viso di Italia torni scuro (quel viso così tenero e dolce nel parlare di
piccole cose che lo esaltano da matti ed è così bello vederlo saltare come una
cavalletta, gli occhi liquidi e le guance colorate di pesca, sta assolutamente
malissimo col nero del dolore, è compito suo quindi impedirlo), Germania gli
stringe forte le mani e chiude gli occhi e apre un po’ la bocca. È qualcosa
assolutamente fuori dal suo personaggio, dal suo carattere, ed è la prima
azione della sua vita non calcolata fino a considerare anche il più piccolo
decimale fuori posto ma è anche la prima volta nella sua vita che ha qualcuno
così importante accanto.
Tossisce, si
schiarisce la voce.
È così
imbarazzate, anche solo il pensiero, ancora prima che una sola lettera esca dal
suo canto.
No, non ce
la può fare – ma appena lo pensa, Italia sta quasi per piangere, perché il
silenzio gli pesa terribilmente addosso, lo odia più delle urla perché è carico
di fraintendimenti, se si urla almeno si dice quel che si pensa, mentre quando
uno sta zitto può pensare qualsiasi cosa, ed è impossibile porvi rimedio.
Devo devo devo farcela, sì, devo. Per lui ce la devo e posso fare.
Sì, sì, sì, mein Gott.
Tossisce di
nuovo.
“A—”
S’interrompe.
Ma che diavolo, è così difficile buttare fuori due note? Non è il primo essere
umano al mondo a farlo, su. È un tedesco, lui, quando vuole fare una cosa la
fa, a costo di morire. Allora su,
Germania, impegnati e tira fuori le palle, almeno per lui. Fallo davvero.
Gli piacerà, lo sai benissimo che lo
adorerà, ed è una canzone che conosci, la sai cantare. E poi, l’importante –
puoi anche fare figure di merda, tu non c’entri ora, è il suo sorriso che devi
aver ben presente, il tuo obiettivo.
Sì, sì, ce la puoi fare.
Per
l’ennesima volta, un colpo di tosse. Se non si sbriga, Italia comincerà ad
agitarsi, a cercare di capire la radice della sua malattia tirando fuori mille teorie assurde
tutte diverse, e addio atmosfera. Per cui, bisogna cominciare presto.
Ed inizia.
“Adeste Fideles, Laeti triumphantes…”, comincia a
cantare con voce calda e profonda, sicura – e tutta la stanza si riempie di
lui, s’impregna delle sue note, delle parole ruvidamente accarezzate. Ha gli
occhi chiusi e non riesce a vedere la commozione e la meraviglia di Feliciano,
a cui è impossibile impedirsi di essere rapito ed innamorarsi di nuovo di un
uomo testardo ed orgoglioso, ma che riesce a riempirlo di meraviglia con gesti
assolutamente fuori di lui, e per questo di un amore e una sincerità e
profondità sconcertanti. Chiude gli occhi e sorride, e le palpebre si riempiono
di ricordi e immagini – la mano stretta a quella di Lovino
mentre cantavano con un latino perfetto e una voce non altrettanto all’altezza,
ma che trasudava impegno e gioia; l’ostia che non sapeva di niente e i suoi
lamenti e le sue idee, la pasta
attirerebbe un sacco in più di fedeli e gli schiaffi dietro la testa che
gli rifilava il fratello, irato per la sua mancanza di rispetto.
È a tratti un
po’ buffo perché si impegna come se fosse un canto d’amore, piuttosto che una
canzone da chiesa. A volte la sua voce si fa troppo profonda, graffiando un po’
troppo, ma Feliciano non se ne accorge perché nella sua testa viene tutto
filtrato ed è tutto perfetto.
“Venite,
venite in Bethlehem…”, Ludwig calca leggermente
sull’ultima parola, allungandola un pochino. Gli carezza le nocche con calma
infinita e ferma, con movimenti lentissimi, per farglieli ben entrare nella
carne. L’idea di partenza era quella di sostituire, nella testolina ora un po’
troppo piena rispetto al solito standard di Feliciano, l’immagine di suo
fratello, così da poter passare cento milioni di Natale senza che i suoi occhi
s’inumidiscano – è in un qualche senso rassicurante sentire Italia ridere,
cantare (e steccare), gridare, dire una marea di sciocchezze, perché è tutto
l’insieme che dà la sensazione di casa, di calore. È un concetto strano per
Germania, ma il suo compagno lo ha abituato così, ed ora è impossibile tornare
indietro. Che si prenda le sue responsabilità per una volta, e che torni
allegro, Doitsu ne ha estremamente bisogno (è terribile
come lo abbia abituato a quella sua allegria la maggior parte delle volte
immotivata; Ludwig oramai crede che nessuna giornata possa davvero iniziare
senza quella sua piccola meraviglia che sprizza felicità da tutti i pori per il
semplice fatto di svegliarsi accanto al suo uomo e potersi coccolare fra le
lenzuola ancora calde dei loro corpi, è sicuro che se avesse permesso che
Italia rimanesse giù, il mondo si sarebbe fermato, cristallizzato, e non
sarebbe più andato avanti fino a quando il Sole non avesse provato invidia per
il suo sorriso, così tanto più luminoso dell’astro). La voce trema leggermente
a metà canzone, ma Ludwig si riprende immediatamente, oramai ha fatto una
promessa e deve mantenerla; non apre mai gli occhi e continua a guidare Italia stringendogli
le mani più forte, come per paura che potesse scappare, volatilizzarsi, sparire
schiacciato da troppa tristezza.
Da parte
sua, l’italiano è il ritratto della commozione, della stupefazione, e non fa
nulla per impedire al suo ragazzo di guidarlo; si lascia andare, canticchia a
bassissima voce con lui, come un mormorio di sottofondo, e la voce di Germania
lo inonda e riempie.
Feliciano aspetta
che Ludwig abbia finito, e gli salta al collo e lo riempie di baci, e di grazie grazie grazie ripetuti all’infinito, e il suo cervellino
subito inizia a fantasticare su tutti i Natali meravigliosi che si
susseguiranno da lì all’eternità.