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Autore: Mikaeru    12/02/2010    1 recensioni
Ludwig detesta trovare la sua Italia triste, o depressa. Soprattutto il giorno di natale.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Casa loro è innaffiata da una luce arancione e sciolta, tenue e caldissima, che viene dalle mille candele che Feliciano ha imposto di mettere per la notte di Natale. Ludwig finisce di accendere l’ultima, soffia sul fiammifero e lo butta nel sacchettino che si è portato appresso per tutta le stanze: ovviamente, nonostante fosse una richiesta piagnucolata e insensata di Italia, ha dovuto pensarci lui a fare tutto.

“Italia, ci sono le candele da sistemare.”

“Le cosa?”

“Le candele. Le hai volute tu.”

“Ah, sì? Me lo sono già scordato…

“Italia, ne abbiamo comprate cento la settimana scorsa.”

“Ma non mi vaaaaaa… mettile tu, non abbiamo mica soldi da sprecare, dobbiamo usarle!”

 Ma se ne lamenta fra sé e sé, e neppure tanto, perché è oramai abituato a quel tipo di comportamento da parte del suo ragazzo, tanto entusiasmo nella teoria e la pigrizia che lo prende appena si tratta di alzare un dito.

 Controlla che tutte le candele siano a posto, che la ceramica sia messa bene perché raccolga tutta la cera che colerà (quella con cui poi giocherà Feliciano, che riesce a trovare qualcosa di divertente e infantile in tutto quel che guarda e tocca, e che ha invocato la neve per giorni e giorni, sbuffando e lamentandosi), e torna in salotto, dove ha lasciato Feliciano a crogiolarsi davanti al camino acceso come un gatto randagio, ed esattamente così lo ritrova: sdraiato davanti al fuoco, che allunga e ritrae gambe e braccia come per sgranchirsi le zampe. Fuori nevica e c’è un silenzio assoluto, e a pensarci gli pare molto strano che non sia fuori a giocare, a invadere l’ovattato silenzio bianco col suo cicalare continuo, a fare pupazzi e obbligarlo ad una lotta che sarebbe finita nel momento esatto in cui avrebbe cominciato a lamentarsi del troppo, ovvio, freddo.

Ludwig si china su di lui e gli bacia la guancia rossa e bollente. “Non esci?”, domanda vicinissimo al suo orecchio, poiché teme che, altrimenti, la sua voce sarebbe stata sovrastata, nella testa di Italia, dallo scoppiettare allegro del fuoco.

Mh, no, non mi va…”, biascica con poca convinzione l’altro, con un tono che potrebbe far tutto tranne imbrogliare Germania.

“Non dire scemenze. Cosa c’è? È impossibile che non ti vada, hai passato due settimane praticamente solo fuori in giardino.”

Ludwig lo tira su a forza, ignorando le deboli proteste dell’altro che preferirebbe di gran lunga continuare a riscaldarsi fino a diventare un pezzetto di carbone, (“Italia, è impossibile che gli umani diventino pezzi di carbone.” “Ma io voglio diventarlo, niente me lo può impedire!” “La fisica te lo impedisce.” “Io posso imbrogliare la fisica!” “Io te lo impedisco.” “Ma Luuuuuudwiiiig…”) e lo obbliga a sedersi sul divano e a guardarlo negli occhi, ma Feliciano si rifiuta tenendo lo sguardo basso e di lato, così tutto vede tranne la figura autoritaria del suo uomo – osserva i vasi con le stelle di Natale, così belle e rosse; i quadri con le riproduzioni delle sue opere d’arte preferite, quelle due o tre foto di lui insieme al tedesco che è riuscito a strappargli dopo lamentele e ricatti (il suo viso di solito bianchissimo rosso fino alle orecchie, in una ha un sorriso talmente forzato da essere quasi inquietante), il grande orologio super tecnologico, regalo di Austria-san, che gli ricorda che manca una piccola manciata di minuti alla mezzanotte. La neve fuori dalla finestra fiocca lenta e leggera, come stelline di zucchero.

“Dai, non fare lo stupido. Dimmi.”

Germania vorrebbe avere una voce un po’ meno severa, ma la sua voce lo è di base, e più di tanto non riesce ad attenuarla, neppure dopo i vari tentativi di Feliciano (“Su, Doitsu, imitami! Miagola!” “… e questo a cosa dovrebbe servirmi…?” “Hai mai sentito un gatto col vocione da tedesco grande e grosso? Io no! Se riuscirai ad imitare un gatto la voce ti diventerà di certo meno spaventosa!”).

“Davvero, non ho nulla.”

È più la fermezza del suo tono che altro a mettere Doitsu in allarme. Italia è sempre stato quello delle parole tutte attaccate o intervallate da lunghissime pause, quello delle vocali allungate all’infinito e del ciondolare con la testa mentre parla, con le parole che sembravano rimbalzare, lettere che svaniscono piano dell’indeterminatezza delle sue frasi. E invece ora pare che lo imiti, usando un tono quasi duro e senza degnarlo di uno sguardo. Ha le mani in grembo che si stringono in pugni, anche questi appena accennati, teme di infilarsi le unghie nei palmi e farsi male – la pelle si lacererebbe e sanguinerebbe, e lui ha un sacco paura del sangue –, il labbro inferiore di fuori e un broncio che cerca invano di nascondere. In fondo, anche Italia sa benissimo che è impossibile nascondere qualcosa a quell’uomo che, nonostante non sia il maggior rappresentante della delicatezza, sa benissimo come riconoscere in lui qualcosa che non va. Sa farlo solo con Italia, ma è sempre qualcosa. (e poi a lui piace che Doitsu sia così attento solo con lui.)

“Non è vero.”

“Te lo giuro.”

I rintocchi della campana annunciano la mezzanotte e arrivano ovattati, e per Feliciano sono rombi di tuoni e si butta al collo di Ludwig, che lo stringe con forte sorpresa, e si ritrova automaticamente ad accarezzargli i capelli.

“Non vai a messa?”, gli chiede, ricordandosi nel momento in cui lo dice che c’è la messa di mezzanotte, la notte di Natale, e gli pare fosse sua abitudine andarci.

“No, sai, a me non piace tanto la Chiesa, è più Lovino quello religioso…

Nel pronunciare il nome del fratello, è come se la voce si rendesse vetro e tanti piccoli sassolini vi si scagliassero contro.

I rapporti tra loro sono andati peggiorando, da quando Feliciano vive con Ludwig. Italia del sud non ci è mai andato per il sottile, e non l’ha fatto neppure nel momento in cui ha scoperto la loro convivenza, quando non si è neppure degnato di prendere il fratello in disparte per esporgli il proprio parere ma, davanti a Ludwig e Antonio, si è esibito in un penoso spettacolo in cui il copione prevedeva solo insulti, dettati da una rabbia incontenibile, forse leggermente alimentati dalla gelosia – qualsiasi cosa sia stata, ha lasciato Feliciano un cumulo di tristezza tremante in mezzo alla casa (“Tu, tu, schifoso maledetto, mi inviti a casa tua solo per dirmi che vivi con quello, vergognati!! Mi fai schifo, mi vergogno di avere il tuo stesso sangue!! Non ti voglio più vedere, non osare più farti vedere, non siamo più fratelli!! Non mi importa se sei vivo o morto , né ora né mai, vedi di morire presto così ti togli dai coglioni, rifiuto!!”), dopo aver tentato invano di spiegarsi e abbracciare il fratello, che ha risposto con un ceffone e insulti ancora più pesanti – e la porta che sbatte così forte da creare una leggerissima crepa nel muro. Da quando i due convivono, i fratelli italiani non si sono mai sentiti; Ludwig ha sorpreso più volte il suo ragazzo appostarsi vicino al telefono, sospirando di tanto in tanto, con gli occhi un po’ lucidi di tristezza mista a speranza.

Il tedesco accarezza i capelli di Feliciano fino a quando i singhiozzi, cominciati appena ha chiuso bocca, non si placano, lasciando spazio ad un respirare profondo, interrotto da alcuni respiri frettolosi e spezzati. Lo guarda, ed è quasi straziante vederlo così distante dal solito Italia, quello che è sempre così luminoso ed allegro, quello che lo obbliga ad accogliere gattini abbandonati finché non trovano padrone, quello che riesce a fargli amare svegliarsi a mezzogiorno, perché a quell’ora lui comincia a cucinare, il più delle volte solamente con la sua enorme canottiera addosso, ed è tremendamente bello vederlo concentrato ai fornelli.

“Su, su.”, e nel tono marziale inserisce una forzata nota tenera, che comunque Feliciano riesce ad apprezzare tantissimo. Si sforza, perché la sua Italia ha davvero bisogno di tutto fuorché di tentativi da apprezzare, ma di qualcosa di concreto,. “È  tutto a posto…”, che finalmente riesce a sfumare in calore e baci accennati.

Ludwig non sa assolutamente come comportarsi. Le lacrime di Italia solitamente sono consumate in silenzio, quando lui non c’è, e con lui condivide solo gli occhi rossi che sono facili da guarire, due carezze e un film stupido sul divano – e poi Italia non ha mai saputo piangere per qualcosa di serio, Germania era sicuro che il suo cervello non fosse neppure troppo sviluppato per qualcosa di veramente serio, solitamente lui piange per i film strappalacrime o i fumetti per ragazze, e lì sì ch’è tutto facile. Ma vederlo e sentirlo star male perché suo fratello lo detesta, beh, è ciò che di peggio c’è al mondo (in generale, Italia che soffre non dovrebbe esistere, porta solo del dolore così grande da risucchiare tutto, se non ci sta attenti), e consolarlo diventa davvero difficile. È complicatissimo, e per quanto lui possa analizzare il problema mille volte nel modo più freddo e analitico possibile, trovare una soluzione è davvero impossibile.

Prende il problema con le pinze, lo appende ad un filo; lo osserva, lo gira, guarda ogni suo lato ed angolo, ogni faccia. No, non c’è modo davvero. Diamine, qui bisogna improvvisare.

“A te… piace il Natale, vero?”

Le domande di Ludwig sono sempre inaspettate, anche perché lui è uno di quelli che non chiedono mai perché sono sicuri delle proprie conoscenze.

“Sì che mi piace…” risponde, incuriosito da quella domanda strana, che non avrebbe mai creduto uscire dalle labbra di Ludwig, ed è proprio riduttiva la sua risposta: biscotti, canti, festoni, alberi, palline di vetro costosissime volute con tanta forza, ama tutto e tutto lo esalta rendendolo ancora più bambino di quel che già è. Un cercare di esorcizzare la solitudine di non avere Lovino al fianco per il primo Natale della sua vita, quel senso di mancanza e distanza che gli provoca il voltare la faccia e non vederlo arrabbiarsi perché si sono bruciati i biscotti e poi incolparlo perché lui i biscotti manco voleva farli, sono cose da femminuccia – lui che a Babbo Natale non ci crede, ma che fa una letterina piccola piccola che infila tra gli aghi dell’albero ed è sempre così felice quando riceve quello che vuole, anche se lo manifesta in un sorriso appena accennato e poi lo maschera con lamentele su ogni cosa, come se si vergognasse di essere contento.

“Cosa ti piace del Natale?”, e nel parlare Ludwig diventa rossissimo, e Feliciano si ritrova a ridacchiare perché è della stessa identica tonalità delle stelle di Natale, gli viene l’idea di prenderne una e attaccargliela ai capelli, ma non crede che il tedesco approverebbe, e poi non crede proprio lo lascerebbe andare per mutilare una pianta – non lo farebbe andare via nemmeno per andare al bagno, ne è praticamente sicuro.

“Mi piacciono…” comincia, pensieroso e un pochino dubbioso, perché l’elenco è veramente lungo e ha paura che poi Doitsu si annoi, “mi piace tanto la neve, e le luci in città…”, tira su col naso e un po’ solleva la testa, guardando il suo ragazzo a tratti, gli occhi che schizzano da mille parti, “e i dolci e il pandoro e il panettone, e i maglioni caldi ed enormi e il caminetto acceso, e gli abbracci stretti stretti e caldissimi, lo sai?, veniva tutti gli anni il niichan Francia alla cena di Natale e ci portava tanto cibo e tanti regali e ci abbracciava sempre, e i regali e i canti… sai, io e Lovino li ascoltavamo sempre insieme, lui mi convinceva sempre ad andare in chiesa perché così ci mettevamo in fondo alla chiesa e li ascoltavamo in pace… così mi piaceva andare a messa, non era noiosa per nulla con lui…

E, prima che il viso di Italia torni scuro (quel viso così tenero e dolce nel parlare di piccole cose che lo esaltano da matti ed è così bello vederlo saltare come una cavalletta, gli occhi liquidi e le guance colorate di pesca, sta assolutamente malissimo col nero del dolore, è compito suo quindi impedirlo), Germania gli stringe forte le mani e chiude gli occhi e apre un po’ la bocca. È qualcosa assolutamente fuori dal suo personaggio, dal suo carattere, ed è la prima azione della sua vita non calcolata fino a considerare anche il più piccolo decimale fuori posto ma è anche la prima volta nella sua vita che ha qualcuno così importante accanto.

Tossisce, si schiarisce la voce.

È così imbarazzate, anche solo il pensiero, ancora prima che una sola lettera esca dal suo canto.

No, non ce la può fare – ma appena lo pensa, Italia sta quasi per piangere, perché il silenzio gli pesa terribilmente addosso, lo odia più delle urla perché è carico di fraintendimenti, se si urla almeno si dice quel che si pensa, mentre quando uno sta zitto può pensare qualsiasi cosa, ed è impossibile porvi rimedio.

Devo devo devo farcela, sì, devo. Per lui ce la devo e posso fare. Sì, sì, sì, mein Gott.

Tossisce di nuovo.

“A—”

S’interrompe. Ma che diavolo, è così difficile buttare fuori due note? Non è il primo essere umano al mondo a farlo, su. È un tedesco, lui, quando vuole fare una cosa la fa, a costo di morire. Allora su, Germania, impegnati e tira fuori le palle, almeno per lui. Fallo davvero.

Gli piacerà, lo sai benissimo che lo adorerà, ed è una canzone che conosci, la sai cantare. E poi, l’importante – puoi anche fare figure di merda, tu non c’entri ora, è il suo sorriso che devi aver ben presente, il tuo obiettivo.

Sì, sì, ce la puoi fare.

Per l’ennesima volta, un colpo di tosse. Se non si sbriga, Italia comincerà ad agitarsi, a cercare di capire la radice della sua  malattia tirando fuori mille teorie assurde tutte diverse, e addio atmosfera. Per cui, bisogna cominciare presto.

Ed inizia.

Adeste Fideles, Laeti triumphantes…”, comincia a cantare con voce calda e profonda, sicura – e tutta la stanza si riempie di lui, s’impregna delle sue note, delle parole ruvidamente accarezzate. Ha gli occhi chiusi e non riesce a vedere la commozione e la meraviglia di Feliciano, a cui è impossibile impedirsi di essere rapito ed innamorarsi di nuovo di un uomo testardo ed orgoglioso, ma che riesce a riempirlo di meraviglia con gesti assolutamente fuori di lui, e per questo di un amore e una sincerità e profondità sconcertanti. Chiude gli occhi e sorride, e le palpebre si riempiono di ricordi e immagini – la mano stretta a quella di Lovino mentre cantavano con un latino perfetto e una voce non altrettanto all’altezza, ma che trasudava impegno e gioia; l’ostia che non sapeva di niente e i suoi lamenti e le sue idee, la pasta attirerebbe un sacco in più di fedeli e gli schiaffi dietro la testa che gli rifilava il fratello, irato per la sua mancanza di rispetto.

È a tratti un po’ buffo perché si impegna come se fosse un canto d’amore, piuttosto che una canzone da chiesa. A volte la sua voce si fa troppo profonda, graffiando un po’ troppo, ma Feliciano non se ne accorge perché nella sua testa viene tutto filtrato ed è tutto perfetto.

“Venite, venite in Bethlehem…”, Ludwig calca leggermente sull’ultima parola, allungandola un pochino. Gli carezza le nocche con calma infinita e ferma, con movimenti lentissimi, per farglieli ben entrare nella carne. L’idea di partenza era quella di sostituire, nella testolina ora un po’ troppo piena rispetto al solito standard di Feliciano, l’immagine di suo fratello, così da poter passare cento milioni di Natale senza che i suoi occhi s’inumidiscano – è in un qualche senso rassicurante sentire Italia ridere, cantare (e steccare), gridare, dire una marea di sciocchezze, perché è tutto l’insieme che dà la sensazione di casa, di calore. È un concetto strano per Germania, ma il suo compagno lo ha abituato così, ed ora è impossibile tornare indietro. Che si prenda le sue responsabilità per una volta, e che torni allegro, Doitsu ne ha estremamente bisogno (è terribile come lo abbia abituato a quella sua allegria la maggior parte delle volte immotivata; Ludwig oramai crede che nessuna giornata possa davvero iniziare senza quella sua piccola meraviglia che sprizza felicità da tutti i pori per il semplice fatto di svegliarsi accanto al suo uomo e potersi coccolare fra le lenzuola ancora calde dei loro corpi, è sicuro che se avesse permesso che Italia rimanesse giù, il mondo si sarebbe fermato, cristallizzato, e non sarebbe più andato avanti fino a quando il Sole non avesse provato invidia per il suo sorriso, così tanto più luminoso dell’astro). La voce trema leggermente a metà canzone, ma Ludwig si riprende immediatamente, oramai ha fatto una promessa e deve mantenerla; non apre mai gli occhi e continua a guidare Italia stringendogli le mani più forte, come per paura che potesse scappare, volatilizzarsi, sparire schiacciato da troppa tristezza.

Da parte sua, l’italiano è il ritratto della commozione, della stupefazione, e non fa nulla per impedire al suo ragazzo di guidarlo; si lascia andare, canticchia a bassissima voce con lui, come un mormorio di sottofondo, e la voce di Germania lo inonda e riempie.

Feliciano aspetta che Ludwig abbia finito, e gli salta al collo e lo riempie di baci, e di grazie grazie grazie ripetuti all’infinito, e il suo cervellino subito inizia a fantasticare su tutti i Natali meravigliosi che si susseguiranno da lì all’eternità.

  
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