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Autore: itsmemarss    14/02/2010    0 recensioni
Hayley è una ragazza come tante altre che non crede per niente di essere speciale.
Ma un giorno arriveranno a scuola degli studenti nuovi e da allora la sua vita cambierà per sempre.
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Come al solito, stavo percorrendo quella stradina buia e deserta. Non vi era anima viva in giro e solo i latrati dei cani si sentivano in lontananza, a smorzare quel silenzio. Il mio passo era silenzioso, attutito dalle ballerine nere che portavo ai piedi. Una mantellina rossa mi svolazzava intorno, ad ogni mio minimo movimento e grazie anche al vento, che soffiava con la sua brezza da Nord. Il mio povero cerchietto nero non riusciva granché a domare la mio chioma scura, quasi rossiccia, lasciando sfuggire alcune ciocche. Cercavo di rimetterle indietro, sbuffando aria dalla bocca, ma niente da fare. Dovetti usare le mie sole manine, lasciando per qualche attimo la borsetta di paglia alla stretta del gomito.
In quel momento un ululato cupo fendette l’aria, facendomi venire la pelle d’oca. Possibile che tutte a me dovevano capitare? Ero stata mandata dalla mamma a comprare qualcosa al supermercato, per poi portarlo alla nonna. Già questo mi aveva leggermente scombussolato i piani per la giornata… e ora ecco che grazie alla mia grande idea di deviare per il tratto del bosco mi ritrovo con un lupo – chissà quanto affamato o arrabbiato – che tenterà di sicuro di seguirmi, attirato dal cibo e soprattutto da me.
Aumentai il passo, cercando di non perdere la scarpetta. Non era certo nuova, ma era l’unica che mi era rimasta, dopo che le mie compagne di dormitorio mi avevano gettato tutte le altre nel fiume a ridosso della costruzione scolastica.
Le persone a volte potevano essere davvero cattive. Forse, se quel lupo le avesse incontrate prima di me…
Scossi la testa. Anche se loro erano perfide, non dovevo abbassarmi ai loro livelli.
Un altro ululato. Iniziai quasi a correre, cercando di ricordarmi bene dove fosse il liceo. “Destra, la prima a sinistra, dritto e arrivata.”: queste erano state le parole della tutor che mi era stata affidata per quell’anno.
Essere nuovi in una città piccola come Coven non è poi così bello. Appena arrivata, sei l’unica attrazione del momento e di conseguenza nessuno si fa gli affari suoi, cercando in tutti i modi di conoscerti. Che mai potevo avere di così interessante da offrire? Forse dovevo chiederlo a quel predatore che mi stava seguendo.
Il vento sembrò rinforzarsi e le foglie, accumulate lungo il marciapiede nella mattina, mi stavano venendo contro. Era come se la natura mi fosse contro e stesse aiutando quel lupo a raggiungermi.
A volte pensavo di essere davvero matta, come affermava Jamie Collins con la sua voce nasale, ma ora ne ero certa più che mai.
Ero fin troppo presa dai miei pensieri che non guardavo dove mettevo i piedi e per poco non rischiai di cadere per terra. Misi il piede in una radice – tutte a me? – e mi ritrovai a terra, sola e con nessuno che mi aiutasse. Mi ero salvata la faccia grazie all’appoggio dei miei palmi sulla terra del sentiero. Cercai di alzarmi, ma la caviglia mi doleva. Mi girai a pancia in su e mi appoggiai sui gomiti. Ormai, la mia divisa era rovinata: sporca di fango e acqua. Nel pomeriggio aveva piovuto e larghe pozze d’acqua si erano formate negli avvallamenti di terra. E proprio io ne avevo beccata una. Sospirai e fui pronta a rialzarmi, quando vidi un paio di occhi dorati.
Sembravano come dei fari, nell’oscurità della sera. Il giorno stava per cedere presto il posto alla notte. Era il momento del crepuscolo. Il cielo si stava tingendo di tinte scure, dal viola al rosso scuro, e il sole stava tramontando dietro le colline.
Stava fermo dietro i cespugli, senza fare il minimo rumore. Nessun respiro, né battito di cuore. Era come se fosse irreale. Me, vestita con un manto rosso, sola nel bosco, con un cestino per mia nonna, mandata da mia madre, scorciatoia, lupo che mi seguiva. Sembrava la parodia di Cappuccetto Rosso, ma in chiave moderna.
Guardai verso di lui di nuovo, ma quegli occhi erano già scomparsi, insieme al suo proprietario. Sospirai. Salvata appena in tempo.
Mi voltai e corsi. Corsi, fino a quando non arrivai davanti all’edificio grigio, in mattonelle scure. Il mio dormitorio.
Appoggiai i palmi delle mie mani alle ginocchia e mi chinai in avanti. Chiusi gli occhi e tentai di riprendere fiato. Non ero mai stata molto sportiva e anche solo una piccola corsetta mi stancava, come se avessi percorso dieci chilometri invece che uno. Mamma aveva sempre detto che era per colpa del mio sangue, di qualcosa che vi era dentro e che mi provocava sempre un calo di zuccheri e uno sfinimento continuo per ogni cosa sportiva o che richiedeva troppa fatica al mio corpo.
Salgo gli scalini in pietra, stando attenta alle pozze che vi si sono formate e che con le mie scarpe consumate rischiano di diventare una trappola mortale.
Faccio tutto in fretta. Ormai sarò già in ritardo: il coprifuoco sarà già scoccato.
Ma sono sorpresa nel vedere che le luci dell’ingresso freddo e austero, per niente adatto ad una scuola, sono ancora accese. Mi affretto ancora di più, rischiando di farmi venire un fiatone perenne.
Raggiungo la porta a vetri e spingo con forza la maniglia, vecchia e arrugginita. Il gracchiare dei cardini vecchi e bisognosi di un’oliata immediata mi accoglie.
L’aria calda del loco mi giunge al viso, reso rosso dal freddo dell’esterno. Socchiudo gli occhi, inebriandomi di quella sensazione così bella. Ma prima che possa davvero godermela ecco che una voce, non gracchiante come quella di Jamie, ma alla pari quasi. È riconoscibile ovunque. Forse, persino i sordi riescono a trovarla familiare e sinonimo di guai.
La direttrice, nel suo completo nero, sta scendendo le scale che portano ai piani superiori. Le scarpe con il leggero tacco delle scarpe da infermiera degli anni ’50 è l’unico rumore che si sente. Tiene le mani dietro la schiena, unite l’una sopra l’altra. I capelli sono acconciati in uno chignon classico, vecchio stile. Ormai tutto di lei lo è.
<< Haley, ancora in ritardo! Possibile che le regole non le impari mai? >> tuona, guardandomi da sotto gli occhiali cerchiati in corno.
Alzo gli occhi al cielo. Ormai è sempre la solita storia. Non le va mai bene niente. Né come mi vesto, né come mi comporto. Non so più cosa fare, se non sopportare in un religioso silenzio.
<< certo, nonna. Ma sono dovuta andare a fare la spesa per portarti questi. Te li manda la mamma… >> dico, con tono basso. Lo sguardo cerco di non rivolgerlo ai suoi occhi, scuri e infuriati con me, ma mi catturano. Non sopporto quando mi guarda in quel modo. È sempre mia nonna, ma a volte vorrei proprio dirle quello che penso, sempre. Eppure non posso, anche solo per il grande rispetto che provo per lei e per quello che fa per le persone che bisognano di aiuto. È infatti la direttrice dell’istituto privato per orfani o ragazzi bisognosi di un temporaneo aiuto.
Mi prende dalle mani il cestino, con la parte superiore avvolta in un panno a quadretti rossi e bianchi, fatto a mano dalla mamma.
<< grazie per esserti resa gentile nei confronti di tua madre, ma la prossima volta vedi di spicciarti. >> mi dice, cercando di farmi un mezzo sorriso, ma solo per un attimo, prima di riprendere a salire le scale e tornare nel suo ufficio, dal quale era scesa apposta per me.
Questa è mia nonna, Judith Cassidy Maver.
<< ah, dato che sei arrivata dopo il coprifuoco dovrò lo stesso darti una punizione. Anche se sono tua nonna, non vuol dire che debba trattarti in modo diverso. Quando indosso questo tailleur divento la direttrice della tua scuola. Domattina fatti trovare davanti alla porta del mio ufficio. Non tollero ritardi. >> continuò, prima di girarsi un’altra volta e scomparire dietro alla porta in legno verde.

Salgo le scale, appoggiandomi al muro con una mano. È freddo, ma quasi non lo sento. In fondo, sono fredda anchio.
Arrivata al mio piano, dopo due rampe di scale, percorse nel poco spazio di un corridoio, vedo due figure davanti alla mia porta. Non le riesco a scorgere bene, poiché sono nella penombra della colonna. chiudo gli occhi e conto fino a dieci…
Fatto, riapro le palpebre ed ecco che davanti a me non c’è nessuno. Sono solo stanca: tutto qua. Tiro fuori dallo zainetto scuro le mie chiavi. Le tengo per qualche momento in una mano, giocherellandovi. Sorrido al vedere il portachiavi che ho messo: un piccolo ciondolo con sopra una croce in argento. Un regalo di papà. Quanto mi manca… E’ morto l’anno scorso, durante una spedizione scientifica. Faceva il ricercatore per una strana società farmaceutica o roba simile. Sinceramente, ogni volta che provavo a chiederglielo, si metteva a spiegare con troppi termini scientifici e latini quello che faceva con il risultato che non ci capivo nulla e lo facevo fermare. Lui mi sorrideva e mi mandava a letto, dandomi una pacca sulla spalla. Ah, quanto mi manca…
Una lacrima solitaria mi solca la guancia. L’asciugo in fretta e furia con la manica della camicia.
Inserisco nella serratura quell’affare di metallo e con un clang metallico la porta si apre. Faccio per entrare, ma qualcosa che vedo di sottecchi alla mia destra attira la mia attenzione. Mi volto, ma quella sagoma nera è scomparsa. Forse sto diventando matta. Accendo la luce e mi chiudo dentro. Becky, Alex e Jamie stanno dormendo alla grande. Nessun rumore proviene dalle loro stanze, se non il ticchettare delle sveglie. Spengo immediatamente la luce e, attenta a non far rumore, sparisco in camera mia, chiudendo con attenzione la porta.
Mi appoggio alla superficie della porta e sospiro. Un'altra giornata sta finendo e io rischio ogni giorno di più l’espulsione. Perché, anche se sono la nipote della direttrice, mia nonna non mi può trattare come se fossi sua nipote anche quando lavora. E poi ci sono anche gli altri consulenti e docenti, che non tollerano affatto che io stia qua. Eppure mia nonna è riuscita a farsi valere almeno in questo e ora sono qua.
Butto lo zaino nell’angolino della stanza, sotto alla scrivania. Fortunatamente ognuna ha per sé una stanza e un bagno privato e condivide solo la cucina, perché se no sarei davvero impazzita.
Jamie non fa altro che farmi pesare il fatto della parentela tra me e la direttrice, dicendo che sono la “cocca dell’istituto”. So che è solo gelosa, ma a volte vorrei che la smettesse di dirmelo in continuazione.
L’unica di cui posso definirmi amica è Becky. Anche lei ha perso suo padre e sa sempre come mi posso sentire. È la mia migliore amica, fin da quando mi sono trasferita qua: due mesi fa.
Non è bello essere la nuova, per niente. Tutti ti guardano con curiosità, anche dopo più di quattro settimane.
Mi affrettai a levarmi i vestiti e ad infilarmi il pigiama: una semplice camicia da notte bianca e fin troppo larga per me. Erano tutti di mia madre, che mi supera decisamente in altezza.
Scosto le coperte e mi sdraio. Mi copro per bene: le notti qua al nord sanno essere davvero gelide. Mi rigiro e rigiro, finché non trovo una posizione adatta: con la schiena verso la porta e il viso rivolto alla finestra chiusa. Ho chiuso solo l’anta di vetro, quindi il cielo è ben visibile. L’orizzonte è praticamente buio, solo una traccia di arancione ancora rimane. Le nuvole sono poche e non coprono quei pochi raggi di sole che ancora illuminano e che devono cedere il posto alle stelle, che già si scorgono.
Il mio stomaco brontola. Non essendo arrivata in orario, la mia cena è saltata. Qui gli orari e le regole sono rigorose: o le rispetti o le rispetti. Non c’è altro da fare.
Ripenso alla frase che la nonna mi aveva rivolto, prima di andarsene. Accennava ad una punizione, al fatto che mi sarei dovuta trovare domattina alle nove davanti al suo ufficio…
Ma lentamente il sonno mi prende, facendomi sentire una sorta di torpore. Quei ricordi di frasi lasciano il posto a lettere e parole, insieme incomprensibili.
E così mi addormento, sognando ancora quella strana foresta. Tutto è troppo verde, intorno a me. La luce è verdognola. Socchiudo le palpebre per il fastidio di dover per forza sottostare a tutta quella tortura di luce. Un ululato in lontananza. Me, che corro scappando da qualcuno o rincorrendo qualcosa. La paura che ben presto si fa strada in me. Il respiro affannato. La mia mano che si stringe intorno a qualcosa di freddo. I miei vestiti, così strani rispetto ai miei soliti…
Poi più niente. Solo buio e la sensazione di stare per cadere in un tunnel nero, infinito.

   
 
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