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Autore: DilettaWCG    15/02/2010    10 recensioni
1974. La giovane Cecilia Menotti, diciottenne italiana, fugge a Barcellona in cerca di fortuna. Purtroppo però, non è tutto rose e fiori, e Cecilia non può far altro che andare a raccontare le sue disavventure alle simpatica commessa della libreria Sempere & Figli. Finchè un giorno dietro il bancone non troverà un ragazzo dai capelli rossi...
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il Principe della Nebbia ~
 
 
Ero arrivata a Barcellona facendomi trasportare da un gelido vento settembrino, che smuoveva le foglie giallognole facendole vorticare per le lugubri strade della città. Correva l'ormai lontano 1974 ed io portavo un foulard a fiori stretto intorno al collo e una valigia di cuoio consunto in mano, consapevole di urlare così in silenzio al mondo che la Spagna non era la mia terra, che venivo da lontano. Avevo lasciato l'Italia carica di speranza per un futuro migliore, leggendo sulle pagine dei pochi giornali ingialliti che riuscivo ad arraffare di una Barcellona piena di risorse e di lavoro, di una Barcellona che, quando calavano le tenebre, brillava ugualmente di luce propria, di una Barcellona che prometteva una vita agli antipodi di quella che stavo vivendo.
In Italia abitavo con mio padre in un terratetto dalle pareti troppo spesse per essere in regola coi canoni che lo stato avrebbe dovuto imporre. Mia madre era morta dandomi alla luce, e forse per questo mio padre non mi ha mai trattato come una figlia. Avevo ucciso la donna che amava e per questo dovevo essere punita. Aveva sempre ignorato la mia folle sete di sapere e la mia predisposizione naturale per le scienze umanistiche; preferiva strapparmi di mano i libri che prendevo in prestito in biblioteca e impedirmi di leggere i giornali usati sui tavoli della nostra piccola locanda, che spesso fungeva semplicemente da caffè. In tal modo, secondo lui, avrei prima o poi abbandonato le mie aspirazioni letterarie per convertirmi al suo motto riguardante il lavoro, ovvero "Colui che vendendo parole crede di fare un mestiere è semplicemente un furfante". Sbagliava, ma non l'ha mai saputo fino al giorno della mia partenza. Non si è mai dato la pena di andar oltre al bel faccino falsamente soddisfatto che mostravo quando mi dava una mancia di mille lire, consigliandomi di andare a comprare un bel gelato al cioccolato per far sì che le mie cosce diventassero tornite quanto quelle delle attrici che ammirava al cinema. Sbagliava.
Così la mattina del mio diciottesimo compleanno, appena sveglia, mi ricordo di aver pensato che non si è mai troppo vecchi per inseguire i propri sogni. Mi ero alzata ed ero corsa alla stazione, acquistando un biglietto in terza classe per Barcellona. La partenza era prevista per due giorni dopo.
Mai come in quei due giorni sentii il bisogno di parlare per la prima volta con mio padre, di parlarci veramente, di mettere per qualche secondo da parte l'ansia che mi procurava l'obbligo di pesare ogni parola. Ma non ci riuscii. Partii di notte, lasciando solo un biglietto scritto su un pezzo di carta da cucina sul tavolino da fumo in salotto che recitava la classica forma dell'addio. Da quel giorno non ho saputo più nulla di mio padre.
Ma Barcellona non mi aveva accolto a braccia aperte come aveva promesso. Poche ore dopo il mio arrivo, avevo cominciato ad intuire che in pochi erano disposti ad affittare case a stranieri con poca dimestichezza della lingua spagnola, paurosi forse di qualche grana con i contratti. Ero stata così costretta ad andare a vivere in una camera in una pensione in calle Monec, condividendo il bagno con un presunto studente universitario che però si faceva vedere così di rado che a malapena ricordavo il suo volto. E ancora nessuno mi aveva contattato per un lavoro, nonostante avessi spedito e affisso annunci in tutti gli angoli della città. Avevo quasi perso la speranza e in certi momenti sarei stata persino disposta a barattare la libertà che godevo al momento con il mio mal retribuito e poco gratificante lavoretto nella locanda di mio padre, sogno che avevo inseguito per diciotto lunghi anni.
L’unica cosa positiva che riuscivo a vedere in quell’ammasso di nubi grigie a cui si era ridotta la mia vita era che in quella città nessuno riusciva a impedirmi di leggere. Potrebbe sembrare la più sciocca delle azioni, ma era davvero troppo tempo che attendevo il momento in cui sarei stata capace di farla senza sentirmi in colpa. Non avevo i soldi per comprarmi i libri, ma mi ero fatta un’amica in una libreria chiamata Sempere & Figli, in calle Santa Ana, uno dei pochi luoghi in cui il tempo di era fermato a vent’anni prima e dove si respirava sempre aria buona, felice. La mia amica si chiamava Beatriz Aguilar ed era una donna sulla quarantina, dai lunghi capelli rossi e un corpo che mi faceva invidia nonostante fossi più giovane. Quella donna mi regalava sempre ciò che mi piaceva, ripetendo ogni volta che non tutto si può comprare col vil denaro. Io mi limitavo a sorriderle e a ringraziare, sperando che il giorno in cui avrei potuto realmente esserle riconoscente arrivasse presto.
E credevo fosse arrivato, in quel freddo pomeriggio di dicembre, quando il vecchio telefono di plastica color catrame posto sul comodino alla destra del letto nella mia stanza squillò. Era un certo signor Delgado, e diceva di aver letto un mio annuncio di desiderare un colloquio per valutare se quanto avevo scritto era vero. Dall'euforia accettai subito un appuntamento, senza nemmeno domandare che mestiere sarei dovuta andare a fare.
Mi recai all'incontro camminando ad una spanna dal suolo dalla felicità, ma fui presto costretta a tornare coi piedi per terra. Il signor Delgrado era un uomo viscido, dal collo taurino e la stazza di un lottatore di sumo, vestito di abiti fuori moda impregnati di puzza d'alcool e di tabacco. Annunciò di essere il proprietario di un bordello chiamandolo "rifugio per uomini desiderosi di coccole da parte di signorine dalla smisurata generosità" e aggiunse che aveva bisogno di ragazze con molta carne e poca inibizione. Un brivido mi corse lungo la schiena quando scoppiò a ridere nel pronunciare queste parole, mostrando una fila di dente gialli e storti. Declinai l'offerta accampando una scusa poco credibile a scappai alla velocità della luce dall'angusto locale in cui io e il mio possibile datore di lavoro c'eravamo dati appuntamento.
Non sapevo dove andare, ma i miei piedi decisero per me. Non ero lontana da calle Santa Ana, e nonostante fossero le sette di sera passate, sapevo che la libreria Sempere avrebbe lasciato le porte aperte per me. Quello era l'unico luogo degno di essere chiamato casa, in quella città che non riusciva a darmi alcuna felicità.
Immaginai di trovare Beatriz dietro al bancone, magari intenta a rimettere in ordine gli ultimi volumi arrivati per il giorno seguente. Le avrei raccontato tutto, come sempre. Mi sarei sfogata e lei, con la semplicità che la caratterizzava, mi avrebbe rivolto un sorriso triste sfiorandomi la guancia con le sue mani da pianista. Non desideravo fare altro.
Entrai nella libreria alle sette e ventidue in punto, spingendo una porta di vetro che fece suonare un campanello. Dietro al bancone non c'era nessuno, ma prima che potessi pronunciare il nome di Bea, un ragazzo dai capelli rossi sbucò da dietro gli scaffali.
Doveva avere più o meno la metà a giudicare dalla sua corporatura, anche se le efelidi spruzzate sul suo volto lo facevano sembrare ancora un bambino. Non l'avevo mai visto prima, ma c'era qualcosa in lui di vagamente familiare. Lo squadrai meglio, cercando di capire.
« Buonasera » disse educatamente.
« Buonasera » risposi, cercando di pronunciare le parole con più accuratezza del solito « cercavo Beatriz Aguilar... di solito è lei che serve, qui. »
« Mia madre è uscita per una consegna alle cinque e non è ancora rientrata, ma se cerca un libro posso fornirglielo io, signorina. »
Sua madre. Chissà perchè la cosa mi sorprendeva tanto. Non avevo mai immaginato una Beatriz già mamma di un ragazzo della mia età, ma riflettendoci, adesso si giustificava il suo atteggiamento protettivo nei miei confronti. E fissando negli occhi quel ragazzo dai capelli rossi, vidi quelli di sua madre, verdi e grandi, sinceri, profondi.
Sorrisi in maniera impacciata; quel giovane sembrava così allegro e desideroso di svolgere quella mansione che mi dispiacque ammettere che un libro non era ciò che cercavo. « Non ho un titolo ben preciso in mente » farfugliai, cercando di sembrare sicura di me.
Il figlio di Beatriz sembrò farsi pensieroso, come se la mia indecisione l'avesse colto alla sprovvista, come se avesse fino ad allora seguito un copione. Un copione che io avevo stravolto. « Potrei consigliarle qualcosa io? » domandò, stavolta timidamente.
Mi sentii responsabile del suo imbarazzo e mi venne naturale tendere la mano verso di lui e dire: « Ne sarei felice e puoi darmi del tu, mi chiamo Cecilia Menotti. »
Il ragazzo mi strinse la mano come se avesse avuto paura di romperla, di spezzarla, e mormorò: « Io sono Juliàn, Juliàn Sempere. »
Non mollò la presa finchè io non abbassai lo sguardo sulle nostre mani intrecciate, domandandomi come mai mantenevano quella posizione da ormai un minuto. Juliàn ritrasse il braccio, arrossendo, e comincio a guardarsi intorno, spostandosi da scaffale a scaffale, alla ricerca di un libro adatto a me.
« Niente di troppo complesso, non parlo ancora così bene lo spagnolo » dissi, rompendo l'imbarazzante silenzio che si era venuto a creare in quella stanza.
Juliàn continuò a cercare per qualche minuto, dopodichè tornò dietro al bancone, tenendo le mani dietro la schiena.
« Dalla tua pronuncia non sembrerebbe » disse.
Sorrisi a mo' di ringraziamento.
« Credo di non aver mai letto niente di meglio di questo » aggiunse Juliàn, mostrando ciò che nascondeva dietro la schiena. Era un libro molto vecchio, rilegato alla bell'e meglio con una copertina di pelle color vino sulla quale erano incisi piuttosto rudemente il titolo e l'autore: Il principe della nebbia, di Juliàn Carax. Sembrava un manoscritto ed ero certa di non averlo mai sentito nominare.
Un po' scettica, lo presi in mano e accarezzai quel cuoio trattato, ruvido e un po' polveroso.
« Non ti mangia, e puoi fidarti, perchè anche mia madre lo ha letto » scherzò Juliàn. Risi nervosamente, incapace di individuare il perchè quel volume mi metteva tanta angoscia.
Fummo interrotti dal suono della campanella posta sopra al portone e un rumore di passi.
« Cecilia? » domandò la voce familiare di Bea. Mi voltai verso di lei e automaticamente sorrisi.
« Mamma, scusa l'ora, l'ho trattenuta io qui. Aveva bisogno di un libro » rispose per me Juliàn, arrossendo. Bea sembrò divertita da quella scenetta.
« Ceni con noi? » mi chiese gentilmente, ma rifiutai l'offerta, nonostante il pensiero della misera razione di zuppa fredda che mi aspettava alla pensione non mi allettasse affatto. Beatriz incartò il mio libro e mi disse che sarei potuta passare l'indomani per spiegarle il vero motivo della mia visita a quell'ora della sera. Juliàn era sparito nel retrobottega.
Quando arrivai a casa, il mio stomaco brontolava per la fame, ma tacque appena i miei denti lanciarono un grido di protesta perchè il pane che mi avevano lasciato era vecchio almeno di tre giorni. Salii nella mia stanza e tentai di addormentarmi, ma Morfeo mi girava alla larga. Decisi allora di provare a leggere Il principe della nebbia, nonostante l'ansia inspiegabile che mi attanagliava le viscere alla sola vista del pacco che lo conteneva. Dopo sole dieci righe ero completamente immersa nella storia, incapace di staccarmi dalle pagine di quel manoscritto che odorava di incenso e di vecchio. Voltai l'ultima pagina solamente quando fuori dalla finestra cominciava ad albeggiare e solo allora, stanca e stremata, riuscii a prendere sonno.
 
***
 
Fu un sonno profondo e senza sogni, e mi svegliai solamente a mezzogiorno, con lo stomaco straziato dai morsi della fame. Decisi di andare a fare una colazione-pranzo in una locanda economica lì vicino, per mettere sotto i denti qualcosa di commestibile, dopodichè sarei andata alla libreria a ringraziare Juliàn e a confidarmi con Bea.
Erano le due quando varcai l'ingresso del negozio, e la mia amica mi sorrideva da dietro al bancone. Mi baciò sulle guance e mi indicò la poltrona di pelle nera su cui mi sedevo sempre quando parlavamo. Cominciai il mio racconto e non omisi un solo particolare. Quando conclusi, non mi ero accorta di aver cominciato a piangere. Bea mi abbracciò come avrebbe fatto mia madre, se mai ne avesse avuta la possibilità, e senza dire una parola, sparì nel retrobottega. Dopo qualche minuto, ricomparì con Juliàn a fianco.
« Come avrebbe detto mio marito Daniel se fosse stato qui anzichè di sopra a sonnecchiare, oggi è arrivato il tuo momento, Cecilia » annunciò.
La mia faccia dovette esprimere tutti i miei dubbi, perchè Bea si affrettò ad aggiungere spiegazioni, anche se poco chiare. Juliàn mi avrebbe condotto in luogo di Barcellona che non avevo mai visto e in cui di solito le guide non portavano i turisti, perchè non lo conoscevano. Ciononostante, la sua bellezza era unica e immensa, e meritava di andarci per non sentirsi mai più soli. Bea disse proprio così, per non sentirsi mai più soli.
Seguii Juliàn condiscendente e ancora un po' frastornata dalla tristezza che mi si era riversata addosso durante il racconto. Attraversammo stradine e vicoli nei quali non avevo mai messo piede fino ad arrivare di fronte a un immenso edificio che sembrava sul punto di crollare a pezzi, con le sue mura annerite dall'umidità e piene di crepe. Il portone era alto almeno un metro più di me e sembrava di legno massiccio. Juliàn bussò tre volte e ci aprì un uomo alto e stempiato, con un naso enorme.
« Juliàn, qual buon vento! » esclamò l'uomo, abbracciando il mio accompagnatore. Senza dargli il tempo di replicare, si rivolse a me con un gran sorriso.
« Vento di belle donne, eh, furbacchione? Mi ricorda tanto suo padre, quel finto ingenuo, che furfante! Molto piacere, madamoiselle, mi chiamo Fermìn Romero de Torres » disse, facendomi il baciamano. Arrossii violentemente e farfugliai il mio nome.
« Fermìn, non metta in imbarazzo la mia amica. Anzi, l'amica di mia madre » disse Juliàn, sottolineando le ultime tre parole.
« Dicono tutti così, piccolo Sempere. Non c'è mica niente di male ad ammettere che l'amore le sta scaldando il cuore » continuò Fermìn Romero de Torres, imperterrito.
Stavolta fu Juliàn ad arrossire, mentre scuoteva la testa in segno di diniego. « Siamo venuti perchè per Cecilia è arrivato il momento di trovare un amico » disse.
A queste parole, Fermìn ammutolì e ci lasciò passare. Juliàn mi condusse in una stanzina dalla quale si snodavano più corridoi. Mi guardò negli occhi e disse: « Sono stato qui per la prima volta otto anni fa. Mi ci ha portato mio padre, perchè mi aveva visto triste e solo. Le regole di questo posto, chiamato il Cimitero dei Libri Dimenticati, sono molto semplici. Chiunque vi entri è destinato a scegliere un volume e ad impegnarsi a proteggerlo per sempre. Dicono che i volumi conoscono già la persona che li adotterà, quindi la tua scelta non dovrebbe essere difficile. Anzi, dovrebbe essere il tuo libro a scegliere te. Credo che mia madre mi abbia detto di portarti qui perchè ti ha vista bisognosa di un amico che non ti tradirà mai... per me è stato così. A suo tempo, optai per Il principe della nebbia. »
Rimasi a bocca aperta nell'udire quell'improbabile storia, mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime. Bea e la sua famiglia mi trattavano come mio padre non aveva mai fatto. Per la prima volta, capivo che qualcuno si preoccupava per me e mi sentivo a casa. Juliàn mi guardò in maniera strana, probabilmente domandosi come mai stessi per piangere. Istintivamente, sfiorai le sue labbra con le mie e mi dileguai nel buio dei corridoi, fuori da quella piccola stanza.
 
Camminai per molto tempo, sfiorando con la punta delle dita il dorso di migliaia e migliaia di volumi. Persi l'orientamento e la cognizione del tempo. Mi fermai di fronte a uno scaffale, per un motivo che riuscivo a spiegarmi solo ricordando le parole di Juliàn: dicono che i volumi conoscono già la persona che li adotterà, quindi la tua scelta non dovrebbe essere difficile. Anzi, dovrebbe essere il tuo libro a scegliere te. Fissai il libro su cui le mie dietra si era posate e lo tolsi dallo scaffale. Era coperto da uno spesso strato di polvere che mandai via con un soffio. Ma le parole che lessi mi gelarono il sangue nelle vene.
 
Il principe della nebbia
Juliàn Carax
  
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