Sogno e Rinascita
Sono nudo, ma il caldo sole che sorge
sulle montagne lontane scaccia il freddo e la notte. Ma il gelo resta
dentro, e
nulla può portarselo via. Un ritmico dondolio mi culla, ma
non riesco ad essere
tranquillo. Piango. Chi è quest’uomo? Cosa vuole
da me? Mi tiene in braccio e
mi guarda con tenerezza, ma mi fa paura. I suoi capelli sono scuri e
lucenti,
come la sua pelle e i suoi occhi. La barba che gli copre la
metà inferiore del
viso sembra ispida, ricciuta. È diverso da qualunque uomo io
abbia mai visto prima
di adesso. Il
dondolio continua, e finalmente mi
addormento.
“Kamal,
Kamal, Kamal”.
Li
attraggo, li affascino, li attiro intorno a me come se fossero insetti,
e io il
fiore. Un fiore che non ha spine, è appena nato, ma
crescerà. Obbediscono a
tutto ciò che dico, fanno ciò che desidero. Mi
seguono correndo nel mercato, ma
le mie gambe sono più lunghe, più svelte,
più bianche delle loro. Li semino e
li riprendo, li scaccio e li accolgo, a mio piacimento.
Ho
sette anni, e mi sento il padrone del mondo.
Un
mondo che è il villaggio attorno alla reggia, le case
piccole e ordinate,
accoglienti. Un mondo che è le braccia di mia madre, e anche
quelle sono
piccole e accoglienti. Non le ho ancora chiesto perché sono
così diverso. Da
lei, da mio padre, da tutti. Ma non ce n’è
bisogno. «Sei un dono, Kamal. Gli dei ci hanno dato
in dono il figlio più bello. La perfezione. Come il tuo
nome». Me lo
ripete spesso, e nella mia mente di fanciullo mi credo un dio.
Andrò presto a
lavorare come paggio a palazzo, con gli altri, con mia madre.
Sarà divertente.
Vedrò il re, che mio padre nomina di rado con tanto rispetto.
Mi
lancia addosso la sua pelle di yak, unta di oli, con cui stava pulendo
una
coppa intarsiata. E ride. Ride. Si piega in due, tenendosi la pancia.
Ed è così
bello quando ride, gli compaiono due minuscole fossette ai lati della
bocca.
Resterei ad osservarlo, ma la vendetta e il gioco e il bisogno di
prenderlo a
pizzichi diventano insostenibili. Mi lancio contro di lui, cacciando un
urlo
che quando ci picchiamo è il nostro inno di battaglia. Aram
ride piano, ma non
prende parte al gioco: sa che non è bene intromettersi tra
me e Adel, sa che
finiremmo per coalizzarci contro di lui, così piccolo e
gracile. È calmo, come
il suo nome.
Tanto
per cambiare, Adel riesce ad atterrarmi. Non ha smesso un attimo di
ridere, e
appena vede che sto ansimando per il gioco e che ho bisogno di
riprendere
fiato, si lancia sui miei fianchi, mettendo in atto ciò che
avrei voluto fare
io, ovvero prenderlo a pizzichi. Ma è una tortura piacevole,
almeno fino a
quando le mie risa non giungono alle orecchie di un cortigiano di
passaggio.