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Autore: Sammael    23/02/2010    2 recensioni
Li attraggo, li affascino, li attiro intorno a me come se fossero insetti, e io il fiore. Un fiore che non ha spine, è appena nato, ma crescerà. Obbediscono a tutto ciò che dico, fanno ciò che desidero. Mi seguono correndo nel mercato, ma le mie gambe sono più lunghe, più svelte, più bianche delle loro. Li semino e li riprendo, li scaccio e li accolgo, a mio piacimento.
Ho sette anni, e mi sento il padrone del mondo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Bene! Prima storia che riesco a concludere. E ho pensato di divulgarla un po' nella speranza che piaccia a qualcuno leggerla quanto a me è piaciuto scriverla. Ordunque. Innanzitutto c'è un neonato e un buon cuore. E, poi, molti nomi. E quelli sono importanti, si sa. A volte condizionano la... vita delle persone. Irrimediabilmente. Ci troviamo in Persia, circa quattromila anni fa. La vita è bella e gioiosa come una donna incinta. Ma per quanto resterà così?

Sogno e Rinascita

Sono nudo, ma il caldo sole che sorge sulle montagne lontane scaccia il freddo e la notte. Ma il gelo resta dentro, e nulla può portarselo via. Un ritmico dondolio mi culla, ma non riesco ad essere tranquillo. Piango. Chi è quest’uomo? Cosa vuole da me? Mi tiene in braccio e mi guarda con tenerezza, ma mi fa paura. I suoi capelli sono scuri e lucenti, come la sua pelle e i suoi occhi. La barba che gli copre la metà inferiore del viso sembra ispida, ricciuta. È diverso da qualunque uomo io abbia mai visto prima di adesso. Il dondolio continua, e finalmente mi addormento.

Lei non è la mia mamma. Questa donna non è la mia mamma. Dove sono? Cosa è successo? Dov’è mia madre? Piango. Mia madre non c’è, e ho come la sensazione che non la rivedrò più. La donna mi culla dolcemente, mi stringe al petto, mi dice che sono suo, suo, suo, il suo Kamal, la sua preghiera esaudita dagli dei, il frutto di un dono divino che mi ha portato tra le sue braccia. Non smette di cullarmi e di baciarmi la fronte. Mentre una lacrima cade lungo il suo viso scuro, rigandole una guancia, io cado di nuovo nel sonno.

Un giaciglio allestito all’ultimo momento è il mio letto. Di tanto in tanto – forse sogno, forse ricordo, forse scherzo del dormiveglia – apro gli occhi e vedo il viso di quella donna. Che non è mia madre. Però mi vuole bene, e lo so perché me lo sussurra in continuazione. Vuole bene a me, al suo, suo, suo piccolo Kamal. Troppo stanco anche per mugolare. Mi nutre, mi rimbocca la coperta di lino candido attorno al corpo, mi accarezza, mi guarda. Chiudo ancora gli occhi.

Stavolta li apro davvero, ed è giorno, ed è oggi, è adesso ed è vita, vita vera, che mi strappa da un’età confusa e mi riversa tra gli altri bambini. Sono scuri, piccoli e in carne. Io no, io sono diverso. Li vedo osservare interessati i miei occhi chiari, la mia pelle candida. Ma non mi scacciano. Giochiamo insieme a rincorrerci, e mi cercano, quando non ci sono. Vengono a chiamarmi davanti casa e urlano il mio nome finché non metto la testa fuori dalla porta e con una risata li seguo.
“Kamal, Kamal, Kamal”.
Li attraggo, li affascino, li attiro intorno a me come se fossero insetti, e io il fiore. Un fiore che non ha spine, è appena nato, ma crescerà. Obbediscono a tutto ciò che dico, fanno ciò che desidero. Mi seguono correndo nel mercato, ma le mie gambe sono più lunghe, più svelte, più bianche delle loro. Li semino e li riprendo, li scaccio e li accolgo, a mio piacimento.
Ho sette anni, e mi sento il padrone del mondo.
Un mondo che è il villaggio attorno alla reggia, le case piccole e ordinate, accoglienti. Un mondo che è le braccia di mia madre, e anche quelle sono piccole e accoglienti. Non le ho ancora chiesto perché sono così diverso. Da lei, da mio padre, da tutti. Ma non ce n’è bisogno. «Sei un dono, Kamal. Gli dei ci hanno dato in dono il figlio più bello. La perfezione. Come il tuo nome». Me lo ripete spesso, e nella mia mente di fanciullo mi credo un dio. Andrò presto a lavorare come paggio a palazzo, con gli altri, con mia madre. Sarà divertente. Vedrò il re, che mio padre nomina di rado con tanto rispetto.

Ho nove anni, e sto pulendo gli ori nella sala d’ingresso. Con me ci sono Adel e Aram. Adel è il mio migliore amico, è l’unico che riesca a tenermi testa ed ad atterrarmi quando giochiamo alla lotta. Mi ha fatto mangiare la polvere, e da allora siamo inseparabili. Ha un anno in più di me, ma a volte sembra quasi che ne abbia molti, molti di più. Il suo sguardo è così diverso da quello di tutti gli altri.
Mi lancia addosso la sua pelle di yak, unta di oli, con cui stava pulendo una coppa intarsiata. E ride. Ride. Si piega in due, tenendosi la pancia. Ed è così bello quando ride, gli compaiono due minuscole fossette ai lati della bocca. Resterei ad osservarlo, ma la vendetta e il gioco e il bisogno di prenderlo a pizzichi diventano insostenibili. Mi lancio contro di lui, cacciando un urlo che quando ci picchiamo è il nostro inno di battaglia. Aram ride piano, ma non prende parte al gioco: sa che non è bene intromettersi tra me e Adel, sa che finiremmo per coalizzarci contro di lui, così piccolo e gracile. È calmo, come il suo nome.
Tanto per cambiare, Adel riesce ad atterrarmi. Non ha smesso un attimo di ridere, e appena vede che sto ansimando per il gioco e che ho bisogno di riprendere fiato, si lancia sui miei fianchi, mettendo in atto ciò che avrei voluto fare io, ovvero prenderlo a pizzichi. Ma è una tortura piacevole, almeno fino a quando le mie risa non giungono alle orecchie di un cortigiano di passaggio.

Kamal, come avrete intuito, significa "perfezione", in persiano. Aram invece ha il significato di "quieto, calmo". ^.^
  
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