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Autore: La Fleur    25/02/2010    6 recensioni
Nuova città, nuova scuola, nuova vita. Forse. Forse grazie ad un nuovissimo amico, tutto potrebbe andare per il meglio.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'I giorni del Paradiso'
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La moto.

La corsa, solo una corsa. Con la sua moto.
Sta lì il problema. Mo-to. O motorino, o quel che sia.
Deglutisco. Ho una paura folle.
Guardo fuori dalla finestrella della cucina, lo stomaco aggrovigliato da una specie di dolore, misto ad afflizione, misto ad autocommiserazione. Mi sembra di essere tutto qui, tutta la mia anima ridotta a questa massa di sentimenti neri che mi portano sull’orlo delle lacrime. 

Era così anche prima? Non lo ricordo.

<< Simone, che ci fai lì con il bricco in mano? Ancora non hai fatto colazione? E’ quasi ora di scuola!>>
Grazie mamma, lo so già. Grazie, davvero. Per essere così buona. Per essere così allegra, anche per me. Grazie.
Sull’orlo del vomito, torno a sedermi al piccolo tavolo da quattro al centro della nostra cucina minuscola, indeciso se darmi malato sul serio. In questo momento sento una varietà di sintomi tale da destare l’interesse di un’intera equipe di medici… Se in Italia fossero bravi come quelli di Dr. House. Lui l’avrebbe trovata la soluzione, dopo avermi mandato un paio di volte in fin di vita. Cosa che avrebbe comunque risolto il problema per un paio di giorni, come minimo. Lo preferirei. Un rash cutaneo sospetto. Il Lupus. Un microscopico pezzo di metallo di quando mi ero rotto la caviglia,a 5 anni, andato in circolo e finito nel cervello. Che roba, ragazzi. Preferire un’operazione al cervello da uno sfigato di dottore zoppo e cinico alla mia vita intera, è il top del patetico.
Il suono del citofono rompe il silenzio, se silenzio si può definire il canticchiare sommesso di mamma sulla musica allegra della radio.
Mi sento diventare più pallido e la morsa allo stomaco mi fa piegare in avanti.
Salvatemi! O uccidetemi, purché finisca in fretta.
<< Simone, è un certo Gian Mattia, è un tuo amico? Di già un amico, ma che bravo il mio bambin…>>
<< Mamma! Ssttt!>> le faccio segno con la mano perché taccia, mancando di un soffio il bricco di caffè che avevo in mano un attimo fa. Rischio un conato e mi alzo di botto, deglutendo a ripetizione perché la bile torni giù, dove dovrebbe essere. Mi risiedo.
Ed eccolo lì, Gian Mattia, in tutta la sua spettinata tranquillità, col suo sorriso da vincente, la faccia da bravo ragazzo adorato dalle mamme.
E il casco sotto il braccio.
<< Ma come sei scattante! – trilla la mamma – Due piani in mezzo minuto! Entra pure, io vado di là.>>
Scattante! Ti odio!
Non è vero e lo so. Gian Mattia, Giamma, l’ho incontrato sette giorni fa, e mi è subito stato simpatico. Eravamo nel parchetto sgangherato dove ero scappato a passeggiare, per conoscere la città nuova. Mi era arrivata la palla che uno dei suoi amici aveva calciato male e si era avvicinato a riprenderla.
<< Ci manca un giocatore, vieni?>> mi ha detto, come se fossimo amici di vecchia data. Le presentazioni le abbiamo fatte coi passaggi, gli scarti, i due goal. Tutta gente simpatica, ma chi mi ha teso la mano è stato lui, il leader.
Lo scoprire che andiamo nella stessa scuola, addirittura allo stesso anno anche se lui è più grande, era stata una fortuna in cui non avevo sperato.
Lo rivedrò a scuola, nell’intervallo, mi sono detto. Qualcuno con cui parlare. Piace alla gente, si vede. Magari è popolare, magari mi presenterà qualche ragazza carina…
E invece no, tutto rovinato. Prima ancora d’iniziare. Con solo una frase.

<< Abito qui dietro. Andiamo a scuola insieme, tanto ho il motorino.>>

E no, no!  No!
Sfiga nera!
Mi ha lasciato lì a bocca aperta come un idiota, senza il coraggio di dirgli che… Che…

<< Ehi, che tavola! Ti tratta bene tua madre! Ah, simpatica, tra l’altro…>> sta dicendo lui. Devo essermi perso i convenevoli, nella mia voragine di angoscia.
Sospiro e gli tengo un pacco. << Siediti e prendi un Corimbo.>> gli ingiungo con voce fioca.
Deve aver fame, perché si siede al volo, senza far caso alla mia espressione tetra né al tono di voce, decisamente poco incoraggiante.
Il senso di nausea monta ancora più in alto, afferrandomi alla gola.
<< Sì… Buoni. Simo, sono le sette e trentacinque, se non finisci arriviamo tardi…>> dice mentre mastica, bofonchia a bocca piena. Beato lui. Sereno.
Non ce la faccio. No, penso che potrei ruzzolare giù per la tromba delle scale…
E invece siamo nel cortile asfaltato sotto casa. Davanti al suo SH 150. Sì, perché lui ha diciott’anni anche se stiamo entrando oggi in quarto superiore. Un SH150 grigio argento. Argento come Asia, o come suo padre Dario. E tutti quei film horror non valgono un momento in cui la mia vita se ne va. Finita.

<< Giamma, senti… Io non ce la faccio.>>

Ha già tirato fuori il casco per me da sotto il sellino e si volta a guardarmi perplesso.
<< Non ce la fai a fare cosa?>> chiede con un sorriso, tendendomi il casco, ignaro.
<< A… A…>> balbettò. Se prendessero a modello me, la teoria dell’Homo sapiens sapiens sarebbe una favoletta tragicomica da raccontare ai bambini.
Mi guarda ancora più sorpreso, poi abbozza un sorriso saputo. << Non ti facevo così timido! Ma non ti preoccupare, sono il più grande della scuola e tutti mi conoscono, ti presento io della gente simpatica. Sono popolarissimo! Vedi quando saltare la primina serve a qualcosa, eh?>> parla a raffica, ma senza vantarsi sul serio. Ha già diciotto anni perché da piccolo ha sofferto di una lunga malattia, e si è iscritto alle elementari a sette anni, saltando a piè pari l’asilo. Me l’ha raccontato ieri.
<< No, non hai capito…>> bisbiglio scuotendo la testa, piano perché la nausea sale ancora e devo essere verde, ormai.
Allora mi guarda preoccupato.

<< Simo, ma cos’hai?>>

Deglutisco.

<< No… Sai...- inspiro – E’ che mio padre aveva una moto. Più lunga di questa qui. Una moto di quelle… - dico stentato, la bocca secca. Lascio cadere la frase e vado al sodo. – E’ morto su quella.>> concludo, abbassando la testa.

Perché doveva capitare a me, papà? Perché? E perché mi sono dovuto trovare l’amico perfetto, per perderlo così, di colpo, solo perché sono un codardo? Sono senza speranza, e non avrò amici, mai, mai più, perché ora anche Giamma mi guarderà con compassione o peggio, minimizzerà, e io non lo posso permettere, papà, lo sai, vero? Non potrò più parlargli né guardarlo e non perché mi vergogno, papà. Ma perché si vergognerà lui. Per me. Di me.

<< Quand’è successo?>> chiede con voce più bassa, più seria.

E io tengo gli occhi fissi sulle sue scarpe. Adidas di qualche modello fa. Blu elettrico, coi lacci bianchi.
<< L’anno scorso, a Febbraio.- rispondo rassegnato- La mamma ha voluto cambiare città perché lì non… non ci stavo più bene.>>
Avevo smesso di uscire, lì. Di stare con gli amici. Non  li volevo vedere, sui loro motorini, andare a morire, come mio papà.
Serro gli occhi già pieni di lacrime.
Lo so, papà, ora Giamma se ne andrà. 

Sai, papà, sto davvero male. 
Non credo che andrò a scuola, oggi, no. Domani dovrò, perché mamma non può chiedere all’azienda un trasferimento al giorno, per colpa mia.

<< Senti, Simo… - non voglio alzare la testa, mentre lui se ne va. Ma apro gli occhi – Mi sa che sono rimasto a secco, stamattina non possiamo andare col motorino a scuola.>>

Alzo di scatto la testa, con gli occhi e la bocca spalancati.
Una lacrima, traditrice, ha trovato la via per uscire. La sento larga sulla guancia. Calda.
<< Quanto sei pigro, mica c’è da piangere! Sono due passi, a piedi. Ehi, non è che la posso lasciare qui, la moto? Non è che la rubano?>> fa allegro.
<< No… non la rubano>> rispondo, balbuziente e lacerato.

E lui lo fa. 
Sorride. 
Solare.
Anche coi nuvoloni in cielo sembra che lui abbia un’estate cocente esplosa in viso.

<< E allora muoviti! – ha già risistemato entrambi i caschi, voltandosi un millisecondo. Scattante, come direbbe mia madre.- E corri! Non vorrai farmi entrare alla seconda ora già il primo giorno! Le più fighe sono già in classe alle otto meno dieci!>> geme, scattando in avanti, fuori dal cortiletto della palazzina.
E io lo seguo, correndogli dietro.
Intravedo la schiena, sotto lo zaino che sobbalza, le gambe fasciate dai jeans, e quelle Adidas assurde, appariscenti.

E penso: ho proprio incontrato il più grande della scuola... ma non nel senso che pensa lui.

  
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