La
moto.
La corsa,
solo una corsa. Con la sua moto.
Sta lì il
problema. Mo-to. O motorino, o quel che sia.
Deglutisco.
Ho una paura folle.
Guardo fuori
dalla finestrella della cucina, lo stomaco aggrovigliato da una specie
di
dolore, misto ad afflizione, misto ad autocommiserazione. Mi sembra di
essere
tutto qui, tutta la mia anima ridotta a questa massa di sentimenti neri
che mi
portano sull’orlo delle lacrime.
Era così anche prima? Non lo ricordo.
<<
Simone, che ci fai lì con il bricco in mano? Ancora non hai
fatto colazione? E’
quasi ora di scuola!>>
Grazie
mamma, lo so già. Grazie, davvero. Per essere
così buona. Per essere così
allegra, anche per me. Grazie.
Sull’orlo
del vomito, torno a sedermi al piccolo tavolo da quattro al centro
della nostra
cucina minuscola, indeciso se darmi malato sul serio. In questo momento
sento
una varietà di sintomi tale da destare l’interesse
di un’intera equipe di
medici… Se in Italia fossero bravi come quelli di Dr. House.
Lui l’avrebbe
trovata la soluzione, dopo avermi mandato un paio di volte in fin di
vita. Cosa
che avrebbe comunque risolto il problema per un paio di giorni, come
minimo. Lo
preferirei. Un rash cutaneo sospetto. Il Lupus. Un microscopico pezzo
di
metallo di quando mi ero rotto la caviglia,a 5 anni, andato in circolo
e finito
nel cervello. Che roba, ragazzi. Preferire un’operazione al
cervello da uno
sfigato di dottore zoppo e cinico alla mia vita intera, è il
top del patetico.
Il suono del
citofono rompe il silenzio, se silenzio si può definire il
canticchiare
sommesso di mamma sulla musica allegra della radio.
Mi sento
diventare più pallido e la morsa allo stomaco mi fa piegare
in avanti.
Salvatemi! O
uccidetemi, purché finisca in fretta.
<<
Simone, è un certo Gian Mattia, è un tuo amico?
Di già un amico, ma che bravo
il mio bambin…>>
<<
Mamma! Ssttt!>> le faccio segno con la mano
perché taccia, mancando di un
soffio il bricco di caffè che avevo in mano un attimo fa.
Rischio un conato e
mi alzo di botto, deglutendo a ripetizione perché la bile
torni giù, dove
dovrebbe essere. Mi risiedo.
Ed eccolo
lì, Gian Mattia, in tutta la sua spettinata
tranquillità, col suo sorriso da
vincente, la faccia da bravo ragazzo adorato dalle mamme.
E il casco
sotto il braccio.
<< Ma
come sei scattante! – trilla la mamma – Due piani
in mezzo minuto! Entra pure,
io vado di là.>>
Scattante! Ti odio!
Non è vero e
lo so. Gian Mattia, Giamma, l’ho incontrato sette giorni fa,
e mi è subito
stato simpatico. Eravamo nel parchetto sgangherato dove ero scappato a
passeggiare, per conoscere la città nuova. Mi era arrivata
la palla che uno dei
suoi amici aveva calciato male e si era avvicinato a riprenderla.
<< Ci
manca un giocatore, vieni?>> mi ha detto, come se fossimo
amici di
vecchia data. Le presentazioni le abbiamo fatte coi passaggi, gli
scarti, i due
goal. Tutta gente simpatica, ma chi mi ha teso la mano è
stato lui, il leader.
Lo scoprire
che andiamo nella stessa scuola, addirittura allo stesso anno anche se
lui è
più grande, era stata una fortuna in cui non avevo sperato.
Lo rivedrò a
scuola, nell’intervallo, mi sono detto. Qualcuno con cui
parlare. Piace alla
gente, si vede. Magari è popolare, magari mi
presenterà qualche ragazza carina…
E invece no,
tutto rovinato. Prima ancora d’iniziare. Con solo una frase.
<< Abito qui dietro. Andiamo a scuola insieme, tanto ho il motorino.>>
E
no, no! No!
Sfiga nera!
Mi ha
lasciato lì a bocca aperta come un idiota, senza il coraggio
di dirgli che…
Che…
<<
Ehi, che tavola! Ti tratta bene tua madre! Ah, simpatica, tra
l’altro…>>
sta dicendo lui. Devo essermi perso i convenevoli, nella mia voragine
di
angoscia.
Sospiro e
gli tengo un pacco. << Siediti e prendi un
Corimbo.>> gli ingiungo
con voce fioca.
Deve aver
fame, perché si siede al volo, senza far caso alla mia
espressione tetra né al
tono di voce, decisamente poco incoraggiante.
Il senso di
nausea monta ancora più in alto, afferrandomi alla gola.
<< Sì…
Buoni. Simo, sono le sette e trentacinque, se non finisci arriviamo
tardi…>> dice mentre mastica, bofonchia a
bocca piena. Beato lui. Sereno.
Non ce la
faccio. No, penso che potrei ruzzolare giù per la tromba
delle scale…
E invece
siamo nel cortile asfaltato sotto casa. Davanti al suo SH 150.
Sì, perché lui
ha diciott’anni anche se stiamo entrando oggi in quarto
superiore. Un SH150
grigio argento. Argento come Asia, o come suo padre Dario. E tutti quei
film
horror non valgono un momento in cui la mia vita se ne va. Finita.
<< Giamma, senti… Io non ce la faccio.>>
Ha
già
tirato fuori il casco per me da sotto il sellino e si volta a guardarmi
perplesso.
<< Non
ce la fai a fare cosa?>> chiede con un sorriso,
tendendomi il casco,
ignaro.
<< A…
A…>> balbettò. Se prendessero a
modello me, la teoria dell’Homo sapiens
sapiens sarebbe una favoletta tragicomica da raccontare ai bambini.
Mi guarda
ancora più sorpreso, poi abbozza un sorriso saputo.
<< Non ti facevo così
timido! Ma non ti preoccupare, sono il più grande della
scuola e tutti mi
conoscono, ti presento io della gente simpatica. Sono popolarissimo!
Vedi
quando saltare la primina serve a qualcosa, eh?>> parla a
raffica, ma
senza vantarsi sul serio. Ha già diciotto anni
perché da piccolo ha sofferto di
una lunga malattia, e si è iscritto alle elementari a sette
anni, saltando a
piè pari l’asilo. Me l’ha raccontato
ieri.
<< No,
non hai capito…>> bisbiglio scuotendo la
testa, piano perché la nausea
sale ancora e devo essere verde, ormai.
Allora mi
guarda preoccupato.
<<
Simo, ma cos’hai?>>
Deglutisco.
<< No… Sai...- inspiro – E’ che mio padre aveva una moto. Più lunga di questa qui. Una moto di quelle… - dico stentato, la bocca secca. Lascio cadere la frase e vado al sodo. – E’ morto su quella.>> concludo, abbassando la testa.
Perché doveva capitare a me, papà? Perché? E perché mi sono dovuto trovare l’amico perfetto, per perderlo così, di colpo, solo perché sono un codardo? Sono senza speranza, e non avrò amici, mai, mai più, perché ora anche Giamma mi guarderà con compassione o peggio, minimizzerà, e io non lo posso permettere, papà, lo sai, vero? Non potrò più parlargli né guardarlo e non perché mi vergogno, papà. Ma perché si vergognerà lui. Per me. Di me.
<< Quand’è successo?>> chiede con voce più bassa, più seria.
E
io tengo
gli occhi fissi sulle sue scarpe. Adidas di qualche modello fa. Blu
elettrico,
coi lacci bianchi.
<<
L’anno scorso, a Febbraio.- rispondo rassegnato- La mamma ha
voluto cambiare
città perché lì non… non ci
stavo più bene.>>
Avevo smesso
di uscire, lì. Di stare con gli amici. Non
li volevo vedere, sui loro motorini, andare a morire, come
mio papà.
Serro gli
occhi già pieni di lacrime.
Lo so, papà,
ora Giamma se ne andrà.
Sai,
papà, sto davvero male.
Non credo che andrò a
scuola, oggi, no. Domani dovrò, perché mamma non
può chiedere all’azienda un
trasferimento al giorno, per colpa mia.
<< Senti, Simo… - non voglio alzare la testa, mentre lui se ne va. Ma apro gli occhi – Mi sa che sono rimasto a secco, stamattina non possiamo andare col motorino a scuola.>>
Alzo
di
scatto la testa, con gli occhi e la bocca spalancati.
Una lacrima,
traditrice, ha trovato la via per uscire. La sento larga sulla guancia.
Calda.
<<
Quanto sei pigro, mica c’è da piangere! Sono due
passi, a piedi. Ehi, non è che
la posso lasciare qui, la moto? Non è che la
rubano?>> fa allegro.
<< No…
non la rubano>> rispondo, balbuziente e lacerato.
E
lui lo fa.
Sorride.
Solare.
Anche coi nuvoloni in cielo sembra che lui abbia un’estate
cocente esplosa in viso.
<<
E
allora muoviti! – ha già risistemato entrambi i
caschi, voltandosi un
millisecondo. Scattante, come direbbe mia madre.- E corri! Non vorrai
farmi
entrare alla seconda ora già il primo giorno! Le
più fighe sono già in classe
alle otto meno dieci!>> geme, scattando in avanti, fuori
dal cortiletto
della palazzina.
E io lo
seguo, correndogli dietro.
Intravedo la
schiena, sotto lo zaino che sobbalza, le gambe fasciate dai jeans, e
quelle
Adidas assurde, appariscenti.
E penso: ho proprio incontrato il più grande della scuola... ma non nel senso che pensa lui.