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Autore: Mikaeru    28/02/2010    2 recensioni
Ti farà bene, niisan, non venire più qui.
Genere: Malinconico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alphonse Elric, Edward Elric
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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C’è un bel cielo estivo, sopra i tetti di tutti i paesi e tutte le grandi città, come a dire che in fondo ogni dolore e ogni tristezza può essere colmata dall’azzurro. Giusto qualche nuvola qua e là; sono tracce di pittura ad olio talmente lievi e sottili da essere del tutto ignorabili, per una visione migliore e più limpida. Inspira a pieni polmoni, perché ha cominciato ad apprezzare queste piccole cose (“Eri tu che volevi che fossi un po’ più positivo verso questo mondo che ci odia”); l’odore della primavera, dell’erba appena tagliata;  il profumo dei fiori, che gli entra dentro e circola, ed è come se lo rendesse positivo nei confronti del mondo.

In realtà è solo una blanda teoria, una piccola speranza espressa dagli altri.

C’è un bel cielo estivo, ed è come se lo benedicesse, come se lo amasse. È sempre così limpido e così azzurro e così straordinariamente dolce, quando esce; il che implica che, per il mondo normale, sia sereno davvero pochi giorni all’anno.

È stato materialmente costretto a mettere i piedi fuori, Edward.

“Dai, Winry, non c’è motivo che io esca…”, ha cercato di giustificarsi, lui che ha sempre un libro enorme in mano perché la lettura sia ancora considerabile una giustificazione, “tanto è sempre lì, che cambia se ci vado o no? E poi non credo a ste stronzate, lo sai…

“Non mi importa un accidente, Edward.”, gli ha detto con le mani sui fianchi morbidi e lo sguardo, al contrario, fiero e duro. Non avrebbe accettato un no, come ha sempre fatto. Anche quando faceva finta di essere comprensiva, non passava momento in cui aprire bocca non significasse qualche frecciatina. Gli ha chiuso il libro davanti al naso e glielo ha buttato dietro il divano, senza minimamente ascoltare le proteste dell’altro (è così straziante vedere che non si ribella più fisicamente). Non è mai stata una tipa da mezze misure.

Lo ha preso per la collottola come fanno i gatti (“Quelli che ti piacevano tanto, tesoro mio”), e lo ha messo all’uscio di casa.

“Fai due passi, sgranchisciti le gambe… è davvero troppo tempo che non esci, Ed! Non può che farti bene, stupido testardo che non sei altro. Guarda che bel tempo c’è fuori, sembra che ti inviti, dai! Su, mi sto scocciando di averti sempre in giro per casa, sei asfissiante, e poi gironzoli qua e là come un fantasma, mi deprimi! Su, su, vattene! Non voglio vederti per più di un’ora.”

Gli automail hanno fatto male tutto l’inverno, mentre adesso cigolano leggermente ma senza colpo ferire. I passi che compie sull’erba sono pesanti e lenti, cortissimi. È come se non volesse arrivarci, come se non desiderasse altro che fare tutto il giro del mondo piuttosto che arrivare a quella sua dannata meta.

“Su, Ed. Non è la prima volta. Ce la puoi fare.”, ripete a voce alta ma è come se non lo dicesse lui, non gli sembra assolutamente il suo timbro. È una voce estranea che viene da un qualche altro corpo che gli parla, e parla al mondo, e tenta di convincerlo delle proprie parole.

C’è un silenzio talmente potente che il rumore delle ali delle farfalle è un rumore altissimo, ma il suo cuore, i suoi battiti velocissimi sono un boato (che se lo sta inghiottendo, lentamente.), un fragore straziante.

Cammina, cammina, si trova di fronte ad un bivio, ad un certo punto. Destra, sinistra, questa è la scelta (“Al mondo c’è il bianco o il nero, ed era una visione che non approvavi, perché la verità ha mille sfumature di grigio, e in fondo noi stessi eravamo fatti di sfumature grigie, bastava vederlo nel nostro corpo. Ma io che ho la testa dura non sono mai cambiato, e davanti a me ho sempre visto solo due possibilità nettamente distinte tra loro. Mi irrita l’ambiguità, e lo sai benissimo, vero?”). Se scegliesse il centro potrebbe riposarsi sotto un albero, dormire un paio d’ore, poi tornare da Winry. Avrebbe inventato qualcosa, e lei sarebbe stata contenta e in pace, e lo avrebbe lasciato stare per almeno un paio di mesi. Il suo cuore sarebbe stato più pesante, ma tanto lo è già talmente tanto che avrebbe fatto finta di niente, come sempre.

Inspira, espira. Inspira, espira. Regala al vento parole quasi mute.

Via a destra, poi svolta a sinistra, poi sempre dritto. La via la conosce a memoria, la ricrea negli occhi chiusi. E la percorre.

Sussurra il suo nome e arriva da lui. Lo saluta col più grande sorriso che riesce a dipingersi sulla maschera.

“Al, eccoti.”

Non che non sia felice di vederlo. Gli fa solo un po’ strano.

Gli si avvicina ma nonostante tutto i suoi passi hanno la mole di prima, anzi il corpo pesa ancora più di prima. Ma deve sforzarsi, in fondo è suo fratello, se lo merita.

“Ti piace qui, Al? Lo so, non è come stare a casa, però devi abituarti… no, non guardarmi così, lo sai che devi rimanere qua…

Ed è come se, nel momento esatto in cui pronuncia l’ultima a, il mondo gli crollasse addosso per l’ennesima volta, come ogni sacrosanta volta che viene qua. Ne avverte il peso, lo scricchiolio della sua schiena che minaccia di spezzarsi. Cade in ginocchio sull’erba – i pantaloni si sporcheranno e Winry si arrabbierà, ma non gli importa.

Le braccia pesano enormemente, come gli occhi. Sospira, ed è estremamente triste.

Deve cominciare ad evitare di venire a trovare la tomba di Alphonse; un’abitudine che, per quanto così saltuaria, sta cominciando davvero a diventare una dipendenza seria: va lì per non parlare a casa, perché solo davanti alla fredda pietra riesce a liberarsi. Accarezza con le dita le lettere in rilievo, e scoppia a piangere aggrappandosi alla lapide. Solo così riesce a sfogarsi. Solo su quei sassi sa ritrovare la sua anima.

“Mi dispiace di essere vivo, Al.”, e nel finire di parlare sente il rimprovero aspro e durissimo di suo fratello, che lo avrebbe volentieri preso a pugni per un’affermazione del genere, così stupida da sembrare quasi impossibile che l’abbia pronunciata uno come Edward. “Mi dispiace così tanto essere vivo io al tuo posto, di aver fallito. Non ti ho portato altro che guai, vero?”

Si siede sull’erba con le gambe incrociate, butta la testa indietro e tira su col naso, fortissimo. Si sforza di sorridere, perché sente la presenza di Al.

“Mi dispiace, davvero.”, con un tono che tenta di essere allegro e fa un contrasto stridente con l’espressione. “Non sono neppure riuscito a riprendermi il braccio e la gamba, eh? Sono proprio un fallimento. Sì, lo so, non è davvero da me parlare così. Eppure non riesco a non farlo, e questo è perché non mi sei vicino, non sei qui a rimproverarmi. Non ti do la colpa solo perché sono buono.”, una risata che di allegro non ha assolutamente niente.

Si sente sempre in colpa, quando piange. Sa che le lacrime che versa ora sono identiche a quelle che Winry mescola all’acqua dei piatti dopo aver litigato, dopo essersi presa l’ennesimo rifiuto riguardo lo sfogarsi, il liberarsi con loro – “Non ti serve a niente frignare su un mucchio di sassi, cazzo! Anche se Al fosse lì, a cosa ti serve?!”

E lui si è sempre rifiutato di pensarci. Perché se l’equazione Alphonse = fantasma avesse risultato positivo, significherebbe la morte di tutto il sistema.

“È perché non posso lasciarti andare via. Tu sei mio fratello. Sei una parte di me. La più bella parte di me. Come posso pensare di separarmene?”

Polline e petali sui vestiti.

“Suppongo che sia per il fatto che ti amo così profondamente da essere totalmente egoista. Non voglio essere privato di te, del mio Al. Se non venissi più vorrebbe dire che mi sono arreso alla realtà. E lo sai bene, è qualcosa che io non so proprio fare. Ne siamo una prova, io e te. E tutto il casino che ho creato.”

Sospiri di vento tra i capelli, brividi lungo la schiena. E una mano d’ossigeno che si infila nella maglia, ad accarezzargli la schiena. La presenza di Alphonse.

“Sei sempre stato bravo a consolarmi. Si vede che sei bravo ad osservare. Io non ne ero capace, almeno con le persone. Sei sempre stato tutto ciò che io non sono stato.”

Sospira.

“Tu che dici di fare, niichan?”, e lo pronuncia con un brivido, con un freddo acuto nelle fibre. “Perché davvero io non ne ho la minima idea. Sei il mio unico legame con la realtà. Se ti lasciassi andare, sarei finito. È quasi surreale, lo so. Anche solo, cazzo, il fatto che io ti parli adesso. Cioè, che io parli con un mucchio di sassi. Io manco ci credo a certe cose. All’immortalità dell’anima, eccetera. Cazzo, lo vedi? Solo tu sei capace di cambiarmi profondamente. Ecco, cazzo, non posso crescere se non ci sei tu. E ho solo diciassette anni, devo farlo. Non voglio rimanere intrappolato in questa età di merda. Ma non potrò fare altro, senza di te. E se mi arrendo, se mi arrendo davvero, all’idea che tu non ci sia, mi bloccherò. Più di quanto io non lo sia già.”

Quando Edward scoppia a piangere, non è mai rumoroso. È come se cadesse un albero in una foresta abbandonata: il boato c’è di sicuro, ma nessuno è in grado di sentirlo.

“Ho paura.”

Sono parole che stridono con quanto di solito afferma.

“Per quanto io abbia sempre paura di venire qua – ho paura di sentirmi rimproverare perché vengo così poco, ho paura di attaccarmi qui e non andarmene più, sono così terribilmente spaventato dall’idea dell’andare. Che sia io o sia tu. Non voglio che niente ci separi. Neppure la morte dovrebbe permettersi di farlo, vero? Due fratelli come noi non dovrebbero mai vivere uno lontano dall’altro. Dio, quanto ti amo. Dio quanta cazzo di paura che ho… - perché, cazzo, per quanto mi faccia male venire qui, per quanto sia difficile uscire di casa e dirigermi da qualche parte senza di te al mio fianco, fa immensamente meno male che non venire più qui… perché venirti a trovare mi dà uno scopo per uscire. Perché ti sento, Al, nonostante tutto, cazzo! Dio, che mal di testa, sto sparando una quantità così enorme di cazzate…. Dio, Dio, Dio, cazzo!! Al, io so perfettamente che sei qui, e non sei morto davvero, e io non sono questo fallito di merda – oh, quante stronzate, IO LO SONO, perché ti ho lasciato andare, ho permesso che qualcuno che non sia io ti prendesse e ti portasse via, ma tu sei qua, vero? Dio, sto impazzendo, sto impazzendo… Al, Al, Al, ho così terribilmente paura, e sto diventando pazzo, perché voglio e non voglio, chiedo e non chiedo, pretendo cose impossibili e do cose vuote, anzi non do proprio un bel cazzo. Voglio dare solo a te, solo tu sei degno di condividere il mio mondo, la mia visione, i miei occhi, le mie mani, le mie labbra. Solo tu, solo tu. E voglio venire qui sempre, tutti i giorni, vivere qui, portarti mille notizie di mille mondi di mille esperienze di mille e mille cose, così sarai felice – e non voglio venire, perché so che dopo questo delirio mi renderò conto di star parlando davvero con un mucchio di sassi e tu, tu sarai morto davvero, non sarà morto solo il tuo cuore, ma lo sarà il mio, tu non esisterai più e io smetterò di respirare. Forse sarebbe meglio che morissi ora, così la testa smetterebbe di farmi male e starei in pace. Non riesco neppure a capire cosa sto dicendo, cosa sto pensando, cosa cazzo voglio. No, non è vero, lo so cosa voglio: te. Voglio il mio Alphonse, il suo sorriso, il suo ridere allegro, il suo chiamarmi e donarmi speranza amore importanza. Voglio e non voglio venire qui. Sono ripetitivo, vero? Ti sarai stancato di sentirmi. Forse neppure lo stai facendo più. Naah, che scemo, ti conosco, tu ascolti sempre tutto e tutti, perché sei troppo dolce e troppo disponibile col mondo. Sei sempre stato scemo. Al, Al, Al. Ti amo. E altro non posso fare se non amarti con ogni cellula, protone, elettrone, fibra, tessuto del mio corpo. Ti amo, e venire qui mi da sollievo. E al contempo mi mangia da dentro. Se non venissi, sarei solo il solito stronzo che non visita i propri cari defunti. Mi sta. Scoppiando. La testa. Cristo. Dimmi cosa devo fare, sussurramelo all’orecchio.”

Ha le nocche che sanguinano, a furia di picchiare sui sassi.

Ancora un venticello; bacia lievemente le sue lacrime, facendolo rabbrividire per il freddo. Gli scompiglia i capelli, penetra nel suo corpo e lo abbraccia.

Sente perfettamente la voce di suo fratello – ma, anche se non la sentisse, lo sa bene cosa gli direbbe: andarsene, perché solo questa è la soluzione. Lo sa lui, lo sa Ed, lo sanno entrambi. Ha bisogno di una dose massiccia di realtà, ha bisogno di staccarsi. Di un’astinenza seria da ciò da cui è più dipendente, lo zucchero dolcissimo che lecca dalle illusioni e le speranze di cui si nutre.

“Al, ma come faccio ad andarmene? Non uscirei più di casa. Prima, venendo qua, stavo per cambiare strada, sai? Eppure mi hai chiamato. Se non dovessi più venire a trovarmi, significherebbe che non dovrei più uscire. Sì, lo so, è una risposta da debole. Mi hai tolto tutte le forze, nel momento in cui non ti sei svegliato.”

Davanti, gli passa la vita – l’incendio, le lotte, i viaggi, le lacrime, le preghiere, le speranze, “Svegliati svegliati svegliati”, gli automail che restano dove sono e l’armatura vuota e il corpo di Al freddo e immobile, così fragile che potrebbe trasformarsi in sabbia, le urla e le lacrime che sono troppo dure per uscire dagli occhi, il fallimento così pesante e assurdo.

Il vento gli chiude le palpebre con dita leggere, lo spinge a sdraiarsi; l’urto col terreno gli sporca i capelli, gli disfa per metà la coda. Al gli carezza il viso, il petto, gli bacia le guance gelate. Gli sussurra quei ti amo che non ha fatto in tempo a regalargli prima.

“Che ti credi, che non lo sappia da solo?”

Sbatte le ciglia un paio di volte, osserva il cielo azzurro sopra di lui, la calma estrema e profonda che gli suggerisce. Vede Al e i suoi occhi ugualmente limpidi.

Sente il cuore cessare di galoppare alla velocità assurda con cui lo faceva prima. Il mondo esterno e quello interno gli impongono quello che era il suggerimento di Al.

“Si vede che sei mio fratello. Le domande che sono imposizioni, tipo, vero?”

Pietra e metallo hanno la stessa radicata freddezza. Lo stesso tentativo di simulare qualcosa di impossibile – l’automail che recita la parte di un braccio, la lapide che imita un ricordo.

“Forse sono troppo pesante, e mi stai odiando. No, non è vero, sono io che sono troppo vittimista. Non sai cosa significa l’odio, figurarsi per me. Eri troppo bello per questo mondo, eri talmente perfetto che Dio ti ha voluto con sé, perché non avrebbe potuto sopportare che ci fosse qualcuno migliore di lui, a camminare su questa terra e renderla benedetta di sé. Ma ti rendi conto di quante imbecillità sto dicendo? Sono totalmente partito di testa. Dio, Al, ti amo. Ti amo ti amo ti amo. E sono un così grosso codardo che sono capace di dirtelo solo quando sei diventato ossa e polvere, quando il tuo respiro è quello del vento. Sono un tremendo imbecille.”

Stringe fra le dita d’acciaio l’erba. Si tira su e guarda la lapide.

“Credo di avere davvero bisogno di non venire più qua. Devo riuscire a capire che tu ci sei comunque. Sono un genio, vero? L’ho capito solo ora, quando tu me lo ripeti sempre, tutte le volte che mi vedi venire qua. Edward Elric, il grande alchimista di stato, il genio, il Fullmetal Alchemist dal nome pesante e mortale, arriva a certe considerazioni ovvie e banali così in ritardo.”

Qualcosa che fa più male del ferro e del sangue.

“È quasi un anno che sei morto, te ne sei andato in primavera, proprio quando sei venuto al mondo, e sarò venuto qua dieci volte. Eppure ogni volta è sempre la stessa, lo stesso fottuto dolore e le stesse fottutissime seghe mentali. Sono lo stesso idiota che va al cimitero a chiedere fortuna e pietà ai genitori defunti, quello che le chiede al suo dio inutile e inesistente in chiesa.”

È un singhiozzo fortissimo quello che gli scuote il corpo; si stringe la maglietta all’altezza del cuore, e preme come se volesse tenerlo a bada al suo posto, per paura che se ne vada, che gli trapassi il petto e fugga. Tanto, con Al che non c’è più, a volte non capisce a cosa gli serva, ancora.

Lo sente sorridere, mentre parla.

“È quello che vuoi, vero? Stare da solo senza questo rompiscatole di tuo fratello maggiore. Mi stai guardando, vero? Stai bene, senza di me? Beh, tanto sai dove abito, puoi sempre venirmi a trovare. Non credo ai fantasmi, se ne troverò uno saprò che sei tu, e ti preparerò da mangiare. Non lo farò fare a Winry, voglio essere io la tua unica fonte. Mi impegnerò e ti farò qualcosa di buonissimo, e anche se magari non potrai mangiarlo vedrai che mi sono tanto impegnato per te. Cazzo, sto impazzendo davvero, dico cose senza senso. Beh, davvero, se ti scocci di fare l’anima senza corpo, io sono sempre lì. Vieni, qualche volta. Ma solo in camera mia, Winry è una femminuccia e potrebbe spaventarsi. Voglio che tu stia sempre bene, quindi… beh, fatti vivo. E puoi mandarmi a fanculo per la battuta di merda, davvero.”

E lo sente ridere mentre davvero gli dice di andare a farsi fottere, e poi aggiungere che sarebbe geloso se lo facesse, ma che deve vivere la sua vita da solo, senza mai scordarsi di lui.

 

Ti farà bene, niisan, non venire più qui. Sarà come liberarsi dalla dipendenza degli insulti a Mustang, no? Ce la puoi fare. Così non interferirò più con la tua vita. Ti asterrai per sempre dal dolore che ti provoco, e così sia io che tu saremo felici, in un qualche modo.

  
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