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Autore: SyamTwins    01/03/2010    1 recensioni
[Kilari-Kirarin Revolution]
Questa fic è ispirata dal manga/anime Kilari!, e mentre la protagonista del manga è al concorso contro Fubuki( Artista viziata e montata) per aggiudicarsi il premio degli Idol, a Tokyo arriva la co-protagonista della fiction, ovvero Delphi. Delphi è italiana, confusa, arrabbiata, ma per un caso fortuito vedrà Kilari in tv e comincerà a seguirla con passione... anche lei si ocnvince di voler diventare un'Idol... e finalmente anche Seiji( componente del gruppo co-protagonista del manga/anime, gli Ships) troverà la sua dolce (sì, più o meno) metà.
Spero di avervi incuriositi, buona lettura!
DA SAPERE!
Non tutti conoscono Kilari! La storia è semplice: Kilari è una ragazza golosissima che un giorno per salvare una tartarughina sul ramo di un albero si spenzola troppo e viene riacciuffata per un pelo da un misterioso ragazzo travestito. Nel movimento il ragazzo perde il travestimento e sirivla essere il bellissimo Seiji, cantante insieme a Hiroto degli Ships. La artaruga Kame è l'animaletto da compagnia di Seiji, e per ringraziare Kilari di averla salvata le regala il biglietto per un concerto degli Ships. La ragazza ci va per incontrare di nuovo Seiji, di cui si è innamorata, ma si scontra con Hiroto, che le strappa il biglietto, affermando che non potrà mai stare con Seiji. E' così che allora lei sale per un ingresso "alternativo" che porta a sopra il palco, cade facendo così irruzione in scena. Per stare con Seiji può solo diventare una Idol, ed è così che il suo percorso comincia. Dopo tanteesperienze che se mi metto a raccontarle si fa notte, e dopo aver capito di essere in realtà innamorata di Hiroto, partecipa al concorso annuale di Miglior Idol dell'anno e si trova al ballottaggio con la perfida Fubuki. Pressapoco è qui che Delphi arriva in Giappone, spero che sia tutto chiaro!
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fuochi d'Artificio'
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Mi guardo attorno massaggiandomi le tempie. Davvero bella Tokyo, ma che ci faccio qui? Non capisco bene… forse non ricordo.
Due ragazzi passano e mi fissano. Li fisso anch’io, non con altrettanto interesse. I miei occhi azzurri si stanno perdendo nel vuoto, nel muro di un grattacielo, nelle crepe nel cemento…
Perché sono a Tokyo, davvero, non lo ricordo.
<< Delphi, prendi la tua valigia, su!>>. E’ una voce conosciuta.
Mi giro, sbattendo le ciglia, mettendolo a fuoco, un uomo di mezz’età, occidentale, come me. E io sono Delphi. Fin qui ci siamo.
<< Certo papà, scusami>>, rispondo riscuotendomi, prendo la valigia dal baule dell’auto, insieme alla mia borsa di jeans.
Papà è carico di valige, ancheggia in modo ridicolo per far tintinnare le chiavi appese alla sua cintura, mi fa cenno di prenderle per aprire casa.
Siamo in una zona residenziale, le strade sono stretti reticolati delimitati da cancelli in legno. Getto un altro sguardo, oltre le case, in alto, ai grattacieli, si sente da qui il suono dei clacson. Che caos, mi confonde. << Delphi! Ti senti bene?>>, domanda papà stizzito. Per la seconda volta mi riporta bruscamente alla realtà. Prendo le chiavi e faccio scorrere il pannello di legno che ostruisce il passaggio nella nostra nuova proprietà. Muovo qualche passo nel giardinetto ben curato, con il vialetto bianco al centro, appoggio le valige sul portico ostentando naturalezza, prendo una delle due sole chiavi appese al moschettone, quella da porta blindata, la inserisco nella serratura, mentre mio padre mi raggiunge e posa a sua volta i bagagli a terra. Si appoggia soddisfatto le mani sui fianchi, e mi guarda. Forse aspetta che giri la chiave nella toppa. Non ce la faccio, solo ora capisco davvero cosa significa questo trasferimento, e quel piccolo gesto, aprire quella porta, significherebbe davvero la mia rottura con il passato.
Io non voglio rompere con il passato. Sono ancora innamorata della mia Firenze, della campagna, dell’Italia. Sono ancora legata alla mia splendida cultura, ai miei ricordi. Quattordici anni di vita verranno cancellati con quello stupido gesto, e io non voglio, me ne rendo conto solo ora. Guardo a terra, la mia mano trema. Papà forse capisce, ma non mi consola. Lui è entusiasta del nuovo lavoro, sarà la svolta alla sua carriera, vivremo bene. Lui progetta gioielli ipertecnologici, e dopo aver lavorato allo sviluppo dei touchscreen donando un grande contributo è arrivata quest’offerta che lui non si è sentito di rifiutare. Anzi, che lui ha accettato immediatamente. Non ha pensato certo a me, o forse ha ritenuto che qui mi sarebbe piaciuto, a chi non piacerebbe? Tokyo… la città della musica, dello spettacolo, film, tecnologia, vita sfrenata… la città del divertimento.
Ma io, benché non sia mai stata una secchiona o un’amante della “roba vecchia”, preferisco di gran lunga la mia Firenze, la città dell’Arte e della Cultura.
Tokyo è falsa, mantiene tradizioni che si mescolano con valanghe di trovate per il business e il marketing e questa roba che ha a che fare solo con i soldi. Firenze almeno è una città seria… e… e… Firenze è la mia Firenze e basta. Sento le lacrime pungermi gli occhi.
Papà sbuffa spazientito, mi tira delicatamente da un lato, prende il mio posto, gira la chiave nella toppa e apre la porta scorrevole con un sospiro soddisfatto. Ecco, è fatta.
Appena entrerò in quell’ingresso di parquet il mio passato verrà cancellato con un castello di sabbia viene spazzato via dall’alta marea. Resterà solo la mia lingua totalmente inutile in Giappone e la mia situazione sociale pari a zero che mi complicheranno tutto. Dovrò imparare a scrivere con quei disegnini tutti uguali e a parlare pippirìppippì cin cin, e dovrò sempre ricordarmi di inchinarmi a destra e a sinistra… Stringo i pugni e digrigno involontariamente i denti.
<< Delphi, hai intenzione di rimanere in giardino tutta la notte?>>, domanda ironico mio padre, dall’interno della casa. Io non lo guardo, osservo il cielo sperando che un angelo arrivi ad aiutarmi, ma forse qua in Giappone non ci sono gli angeli, ci saranno draghi e strani rappresentanti mitologici di questa cazzo di religione qua, che non mi importa neanche di sapere come si chiama!
<< Resto qui anche per tutta la vita>>, rispondo a mio padre con voce ferma.
<< Ma la tua camera ti piacerà, ho fatto portare i vecchi mobili, ed è con vista! Ha anche il terrazzo, vedrai che bella>>, tenta di farmela piacere a tutti i costi questa casa. Non capisce niente.
<< La mamma sarebbe molto delusa da te, ti comporti come una bambina…>>, mi fa notare papà.
Usa la carta della mamma per convincermi, ma io so come vincere il nostro match personale.
Potrei sbalordirlo con una delle mie risposte acide, ma mi siedo sul gradone del portico, volgendogli le spalle, alzo il mento altezzosa e taccio. Sento i suoi passi sul parquet che si allontanano verso l’interno della casa.
Chissà, potrebbe anche piacermi… no ma che dico, che stupida, la detesterò questa casa. Ecco, l’aria malsana e puzzolente di cane fritto del Giappone mi sta già fondendo il cervello. A parte che a pensarci qui l’aria non sa di cane fritto, ma di pesche e ciliegie.
Sento due voci di ragazze che parlano fitto e mi chiedo in quale universo papà ha potuto sperare che io imparassi questa cavolo di lingua. Le vedo passare, avendo lasciato il pannello-cancello aperto, si voltano a guardarmi, passano oltre.
Ma che dite, che dite!?! Parlate di ragazzi, di musica? E’ un concerto a cui andrete stasera, non è così? Parlavate di questo, dev’essere per forza in questo modo. O forse stavate dicendo che vi siete comprate della roba fantastica questo pomeriggio, e che la maglietta nera risalta le vostre forme, giusto?
Ma chi diavolo prendo in giro? Emetto un breve sospiro, e mi domando se cambierà qualcosa in fondo passare la mia vita sotto un portico in giardino o in una casa. Farà schifo lo stesso.
Mi alzo lentamente, prendo la mia valigia ed entro nella nuova abitazione.
E’ divisa in tre stanze al pianterreno. Mi ritrovo in un ingresso-salotto già arredato, con delle scale che salgono al piano superiore. Da entrambi i lati c’è una porta,a destra dà sulla cucina, a sinistra sulla sala. Salgo le scale trascinandomi la valigia svogliatamente. Mi ritrovo ora in un corridoio stretto pieno di porte. Una è aperta, sento mio padre ansimare per la fatica degli spostamenti delle valige, credo. Allora sarà la sua stanza, probabilmente. Apro tutte le stanze una ad una.
Lo studio di papà, il suo bagno, lo sgabuzzino, e finalmente trovo la mia camera. Entro, e noto che tutte le mie cose, compresi letto, armadio, scrivania completamente in legno scandinavo (che giro di parole, per dire che li ho presi all’IKEA)sono al loro posto, e in un angolo ritrovo anche stereo e custodia del netbook (con il netbook dentro, si spera).
Non è male, non fosse che questi giapponesi hanno la mania di ricoprire ogni superficie piana con il parquet, accidenti, sembra una sala da ballo così!
Non ho molto vestiti, per fortuna, il che significa che in mezz’ora avrò sistemato tutto.
Mi sono accorta solo ora di quella porta, dev’essere il mio bagno personale. Non avevo mai avuto il bagno personale, ma papà mi aveva detto che la casa che aveva scelto per noi ne aveva uno tutto per me.
Apro la valigia sul letto, e comincio a tirare fuori i miei abiti. Nell’operazione tocco qualcosa di freddo e rigido, che mi fa venire un’improvvisa voglia di tuffare ancor più dentro le mani e prenderlo. Le mie dita si stringono attorno ad una cornice, sotto la mia felpa nera, e con cautela la sollevo.
E’ la foto con la mamma. Ci sono anch’io, che avrò sì e no cinque anni. Ero già grandicella, e nonostante tutto quella foto è l’unico ricordo che ho di lei. E’ un vero peccato che io abbia una memoria così pessima, mi sarebbe piaciuto ricordarmela,e avere storie interessanti con lei su cui rimuginare prima di addormentarmi, ma papà non me ne parla mai. Io so che si amavano tantissimo, se fosse stato per loro non si sarebbero lasciati mai… che sfortuna, proprio quando vorresti che le cose durassero per sempre ti vengono portate via.
Appoggio la cornice sul comodino, sorrido e torno alla mia mansione. Io non soffro la mancanza della mamma non ricordandola, e papà si è sempre impegnato per sostituirsi a lei; forse sbaglio a essere così dura con lui, se per una volta nella vita vuole dedicarsi a sé stesso io glielo devo. Ma questo è davvero troppo difficile, significa cambiare la mia vita.
Una volta sistemati i miei vestiti nell’armadio vado in bagno a darmi una rinfrescata, togliendomi i vestiti sporchi.
Mi guardo allo specchio, e noto ancora una volta come sono ridotta male. Io sono una ragazza bella, lo ammetto. Ho lunghi e morbidi riccioli biondi, un viso ovale liscio, grandi occhi azzurri da cerbiatto naso dritto e labbra simmetriche. E inoltre sono alta.
Ma la tensione mi fa corrugare la fronte e mi marca eccessivamente le rughe d’espressione intorno alla bocca, mi fa sembrare malaticcia, e i miei capelli cominciano a ungersi. Ci vorrebbe una bella doccia, peccato che mi manchino tutti i vari saponi... e poi… poi il fuso mi distrugge. Qua è sera, ma sono due giorni che dormo a orari improbabili e ho perso la bussola. E’ appena tramontato il sole, e io già mi sento gli occhi pesanti. Mi stendo sul letto, a pancia in giù, emettendo un gorgoglio di piacere nel sentire la morbidezza del materasso a cullarmi. Fortunatamente niente parquet su questa superficie piana, grazie giapponesi per averla risparmiata. A poco a poco mi abbandono all’oblio, chiudo gli occhi e…

Un raggio di sole mi bacia la schiena… ho dormito tutta la notte senza neanche il pigiama, da quanto ero stanca mi sono addormentata subito. Fortuna che siamo in estate o mi sarei presa la bronchite. Mi metto a sedere e mi stiracchio, vado in bagno a lavarmi, arrangiando una doccia senza shampoo e bagnoschiuma, mi avvolgo nel mio vecchio asciugamano e poi vado ad aprire l’armadio cercando dei vestiti puliti. Mi siedo sul letto per indossarli, poi infilo le sneakers, e scendo in cucina, ho un certo languorino.
Beh, se la mia vita in Giappone consistesse solo in questo sarebbe bellissimo, ma purtroppo dovrò fare un sacco di altre cose, compreso imparare la lingua. Di tutti gli ostacoli da superare questo è il più spaventoso in assoluto. Un brivido mi percorre la schiena mentre varco la soglia della cucina. Papà mi sorride, e mi dice qualcosa in giapponese.
<< Che? No, ti prego, non metterla sul piano del gioco, quello è per lattanti, e poi non c’è niente di divertente.
<< Scusa tesoro, ti ho solo augurato il buon giorno in giapponese, prova a ripeterlo con me…>>.
<< ALT!>>, lo fermo prima che possa continuare. << Senti questo giapponese: tazzushi lattushi e cerealesan!>>.
Lui ridacchia:<< Ecco qui la colazione, tutta roba italiana, tranquilla>>, mi porge la tazza e i cereali.
<< Arigatò>>, rispondo.
<< Farò finta che tu l’abbia pronunciato correttamente>>, mi sorride.
<< Che palle>>, lo liquido. Starà sicuramente pensando a quanto sono difficili le adolescenti, non lo capisce che è lui quello difficile.
<< Che vuoi fare di bello oggi? Che visitiamo? Vuoi fare shopping?>>, mi chiede. Io lo guardo sconcertata.
<< Credo che starò al pc, sperando che i server di Tokyo trasmettano anche i siti italiani>>, rispondo.
<< COSA?! Andiamo, puoi fare shopping a Tokyo e preferisci startene sola soletta al computer?>>, esclama mio padre facendo gli occhi a cucciolo.
<< Ehm, se l’alternativa è in compagnia con te, opto per il “sola soletta”>>, rispondo strafogandomi di cereali.
<< Ti prego!!!>>.
<< E va bene, ma voi padri siete dei rottori!!!>>, sbuffo infine.
Mezz’ora dopo siamo già pronti a uscire, io con la faccia alla “vi prego sparatemi” lui con la faccia alla “vi prego, ditemi che non è un sogno”. Patetici, vero?
Ci chiudiamo la porta e il cancello-pannello alle spalle e ci ritroviamo nella stratta stradina labirintica oppressa dai muri di legno, il genere di posto dove un claustrofobico scapperebbe urlando, piangendo e strappandosi i capelli.
Ci avviamo incrociando di tanto in tanto qualche passante incuriosito dai nostri tratti occidentali, gruppi di ragazze che stranamente mi guardano con invidia. E’ così bello qui un occidentale? Perfino mio padre? Scoppio a ridere da sola, e lui mi guarda interrogativo. Io gli faccio cenno di lasciar perdere mentre ancora mi sto torcendo in due dallo spasso.
Mio padre non può essere bello, non è pensabile. E’ un esserino magro con i capelli biondicci lunghi fino alle spalle, una corta barba spinosa, occhi azzurri stanchi e contornati da zampe di gallina e si cominciano a vedere i segni del tempo… ormai ha quasi cinquant’anni, il furbastro.
Prendiamo un autobus e ci sediamo accanto ad una vecchietta con i capelli bianchi tirati su in una stretta crocchia. Mi fissa e poi mi dice qualcosa, ha le palpebre così cascanti che non sembra neppure che abbia gli occhi aperti. Papà risponde compiaciuto, e io incrocio gli occhi confusi.
<< Papà, ma che dice questa vecchietta?>>, domandò sconcertata.
<< Dice che hai dei capelli bellissimi e che qui non ne vede mai ragazze con un colore così luminoso>>, mi risponde lui orgoglioso.
Arrossisco e tutto ciò che mi viene in mente di fare per ringraziarla è un inchino. La nonnetta sorride. Papà parla bene il giapponese, se l’ha imparato lui a quarant’anni posso farcela anch’io a quattordici.
La scuola comincerà ad ottobre per me, prima d’allora dovrò imparare velocemente uno straccio di lingua e anche a leggere quelle zampe di scarafaggio secche che usano per scrivere.
Infatti ho notato che a vederle da lontano sembrano orride zampette e antenne di scarabei stercorari e altri insetti disgustosi. Papà al contrario sostiene che da lontano gli sembrano tanti piccoli fotogrammi di vita… credo d’aver afferrato il punto, l’ho letto dietro i suoi occhi azzurri. Ha studiato giapponese con la mamma, anche se lei era già all’ospedale. Rivede tutti i bei momenti legati a quegli idiomi.
Praticamente è un’offesa alla mamma se ci si pensa bene. Lui si ricorda di lei osservando delle zampe di insetto, non c’è niente di romantico in tutto ciò. In che modo la mamma può ricordargli uno scarafaggio, che schifo!
Mi trascina in un negozio, e mi sussurra compiaciuto in un orecchio:<< Delphi, ti compro quello che vuoi se però parli tu con la commessa>>.
Getto uno sguardo distaccato agli abiti, senza dar segno di apprezzarli, anche se in realtà li trovo tutti bellissimi:<< Papà, questo negozio non mi piace>>, dico, mi giro ed esco.
Sento una mano calda e ruvida avvolgersi intorno al mio polso, la mano di papà. Stringo i pugni cacciando indietro le lacrime, e sento che anche lui stringe le sue, lo percepisco dalla forza con cui mi chiude il polso in una morsa serrata.
<< MI-FAI-MALE>>, dico, ma la mia voce rotta dal pianto non dà l’effetto desiderato. Sembro solo una bambina patetica.
<< Spiegami qual è il tuo problema>>, mi dice digrignando i denti. Allenta la presa, io mi divincolo ed esco. Papà mi segue, mi si para davanti con il suo sguardo che non ammette repliche. Sono in trappola, richiusa in una scatola fatta di grattacieli e padri infuriati. Una scatola chiusa dal cielo.
Qui il cielo per quanto azzurro non mi darà mai il senso di libertà che mi dava a Firenze, io sono in trappola! << Guardami quando ti parlo>>, dice mio padre. Io continuo ad ignorarlo.
<< Accidenti ma mi spieghi per quale motivo fai così? Non l’hai mai fatto, cazzo!>>, si arrabbia. E dice anche una parolaccia, una cosa che non è da lui, che vuole sempre darmi il buon esempio.
<< Ma ti sei guardato attorno? Questo non è il mio ambiente, questa non è la mia vita e la mia cultura! Io qua ci sto come il cavolo a merenda, e non mi piace, mi disgusta, mi fa girare la testa! E non l’ho scelto io, papà!>>, scoppio a piangere. Potrei dire davvero quello che mi passa per la testa, ma sono una stupida e riesco solo a lamentarmi pateticamente. Papà è arrabbiato, non è impietosito certamente dalla mia scenetta del cavolo.
<< Ti manca la città in cui sei vissuta finora, ma sei brava e sei portata per le lingue straniere, vedrai che andrà benissimo e ti ambienterai… Guardati bene intorno, è tutto bellissimo!>>, mi dice. Io non rispondo, resto a pugni serrati, senza guardarlo negli occhi.
<< Adesso, Delphi, io vado a prendere qualcosa da bere, fa davvero caldo, tu aspettami in quel parco>>; mi dice papà e si allontana. Dalla parte opposta della strada c’ un piccolo giardinetto pubblico pieno d’alberi. Attraverso attentamente e una volta arrivata nei pressi del parco do un’occhiata ai passanti, li studio.
Ci sono alcune vecchiette, gruppetti di amiche che starnazzano come oche, coppiette felici.
Voglio qualcuno che sia da solo e che magari abbia meno di ottant’anni. Non so perché, voglio condividere tutto il mio disprezzo per come va la vita con qualcuno altrettanto sfigato. INDIVIDUATO!
E’ seduto da solo su una panchina lontana, sotto l’ombra di un albero, ascolta la musica all’mp3. Chissà, forse ci vuole stare da solo, è fiero di essere un emarginato e di una stupida come me non gli importa. Ha sui sedici anni, capelli neri, occhi a mandorla, sono tutti uguali; però lui sembra diverso.
Al limite, se lo infastidisco, si alzerà e si troverà un’altra panchina, no?
Sono incerta se sedermi accanto a lui o no, poi decido che sì, mi siedo. Lo raggiungo lentamente, e con naturalezza mi accomodo sulla panchina, a debita distanza dal suo corpo, non vorrei pensasse che sono invadente. Appoggio i gomiti sulle ginocchia, mi reggo la testa con le mani e sbuffo, papà ci mette un sacco. Il ragazzo accanto a me si volta lentamente, mi osserva, poi si alza e si incammina altrove. Sospiro, stavolta non per mio padre, che sta arrivando con due bibite in mano. Mi si siede accanto:<< Non è fantastico questo posto?>>, mi domanda raggiante.
<< Sì, una forza, yuppy>>, rispondo con voce incolore. Mi porge la bibita e inizia a succhiare la sua rumorosamente con una stretta cannuccia verde fluo, e mio malgrado lo imito.
Se Dio esiste, mi salvi…
  
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