Ma poi ho deciso di provarci. Amo scrivere e in questa fan fiction ci ho messo parte di me stessa.
Ammetto di avere un pò di strizza e mi sto imponendo di non scappare e di cliccare il tasto: aggiungi una nuova storia.
Sarà un pò triste all'inizio, volevo avvisare, ma col tempo tutto si rimetterà più o meno apposto ;)
Ringrazio infinitamente Sharon (Shasha5) per la splendida immagine che mi ha fatto!
E vorrei dedicare a lei il capitolo e a un'altra persona per me molto speciale: Mary.
Lei sa chi è ;) Grazie ragazze, vi voglio un mondo di bene-
Grazie, grazie, grazie.
Ok, la smetto di blaterare, anche perchè se inizio non finisco! xD
Buona lettura!
Prologo
Di questo ne ero
pienamente sicura; la vita non aveva fatto altro che offrirmi emozioni
negative
e… dolorose. Tutto cambia, quando meno ce lo aspettiamo.
E ora, grazie a lui -
che era entrato a far parte della mia vita, rischiarando i miei giorni
– non
potei fare a meno di pensare a quanto ero stata stupida e cieca.
Perché avrei
trascorso ore ed ore ad ammirare il suo viso, senza mai stancarmi.
«Bella...», sussurrò
il mio angelo personale, posando una mano sulla mia guancia,
accarezzandola
dolcemente.
Chiusi gli occhi,
beandomi appieno del suo tocco caldo e gentile, che avrei tanto
desiderato non
avesse mai fine; perché una sua semplice carezza era in
grado di
destabilizzarmi completamente.
Prese a seguire il
contorno delle mie labbra, che al suo tocco si dischiusero leggermente.
Aprii gli occhi,
scontrandomi così con due pozze verde smeraldo, che erano in
grado di
penetrarmi l’anima. Mi persi nei suoi splendidi occhi e
sentii le gambe
cedermi, ma non ci feci caso, dopotutto quella reazione era
spontanea… accadeva
ogni volta che mi rivolgeva quello sguardo così carico
d’affetto, che mai e poi
mai mi sarei meritata.
«Edward io…», provai
a parlare, ma senza risultato; le parole non ne volevano sapere di
uscire dalla
mia bocca, tanta era l’emozione che provavo in quel momento.
«Tu non sei così
Bella. Tu non sei così», iniziò a dire
con voce dolce. «Io so come sei
veramente, mi hai dato modo di conoscere la vera te stessa»,
bisbigliò,
spostandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Aprii e chiusi la
bocca più volte, incapace di parlare.
«La vera te stessa…»,
sorrise gentilmente, intrecciando le nostre dita, «ha un
animo puro, dolce. E
tu Bella, hai un cuore grande, talmente grande che neanche ti
immagini», mormorò
avvicinandosi, posando la sua fronte contro la mia.
Sentii le lacrime
premere per uscire, ma con una grande forza di volontà
riuscii a ricacciarle
indietro.
Il mio occhio cadde
sulle nostre mani unite; le alzai e le posai sul mio petto, dove in
quel
momento vi era il mio cuore, che batteva all’impazzata.
«Lo senti il mio
cuore?», domandai retoricamente, con voce incrinata.
Annuì
impercettibilmente, accarezzandomi la guancia con la mano libera.
«Il mio cuore batte
solo per te», sussurrai flebilmente.
Le lacrime presero
a rigarmi il viso, ma non le fermai. Perché mai avrei dovuto
farlo? Le lasciai
scendere.
Sul suo viso si dipinse
un sorriso, quel sorriso che tanto amavo.
Le sue braccia
andarono a circondarmi la vita, stringendomi forte al suo
petto.
Posai
la testa
nell’incavo del suo collo, stringendomi a lui più
che potei; mentre il suo viso
andò ad immergersi nei miei capelli.
«Tu. Sei tu la mia
vita»,
mi sussurrò nell’orecchio,
posandomi poi un dolce bacio sulla fronte.
1.
Ricordi
indelebili
A volte entra in gioco il destino, in grado di cambiarti la vita e di farti provare sensazioni sconvolgenti, che non avresti mai voluto sentire.
La cosa migliore sarebbe andare avanti, perché la vita continua e ha il sopravvento su tutto… ma com’è possibile tutto ciò, se l’unica cosa che una persona desidera è affogare nel dolore?
«Signore
e signori allacciate le cinture di sicurezza, tra meno di cinque minuti
atterreremo all’aeroporto di Forks»,
annunciò una hostess; il suono della sua
voce mi destò dai miei pensieri e mi fece rinsavire.
Lentamente
aprii gli occhi e guardai l’orologio: erano quasi le tre, il
tempo era passato
abbastanza velocemente.
Guardai
fuori dal finestrino; il cielo era terso, segno che da un momento
all’altro
avrebbe iniziato a piovere. Dopotutto cosa mi sarei dovuta aspettare
dalla
cittadina più piovosa d’America?
Phoenix, la mia città natale, dove
avevo trascorso diciassette anni della mia vita. Tutto era perfetto,
avevo
molti amici e una famiglia su cui contare; mia madre Renée e
suo marito, Phil…
ma si sa, prima o poi tutte le cose belle finiscono.
Renée e Phil, due
semplici nomi all’apparenza, ma il solo
pensiero era in grado di causarmi un dolore indescrivibile, che mai e
poi mai
mi sarei aspettata di provare.
Mi tormentai il
labbro inferiore e rivolsi lo sguardo al soffitto, cercando in tutti i
modi di
fermare le lacrime che minacciavano di scendere da un momento
all’altro.
Non dovevo
piangere, era da deboli.
Sospirai rassegnata
e dopo minuti – che a me parvero ore – l’aereo finalmente
atterrò e alcuni
passeggeri si alzarono frettolosi,
smaniosi di essere all’aria aperta… come se fuori
ci fosse stato qualcosa di
interessante.
Come un automa
presi la valigia, scendendo dall’aereo e subito il leggero
venticello mi sferzò
il viso, scompigliandomi dolcemente i capelli. Portai una mano tra i
capelli,
frustrata e mi guardai in giro, in cerca della famosa auto della
polizia di…
Charlie.
Non avevo mai avuto
un buon rapporto con lui, era da tre anni che non avevo sue notizie ma
dopo
tutto quello che era successo si era fatto sentire, proponendomi
– forse a
malincuore – di venire qui da lui. Non ebbi scelta, era
l’unico parente che mi
rimaneva e se avessi potuto decidere non sarei mai venuta
qui… ma non potevo
restare a Phoenix, non dopo la loro morte.
Solo pronunciare il loro nome faceva male, maledettamente male;
così da codarda
scappai, rifugiandomi in questa – a mio parere –
schifosa cittadina.
Un sospiro mi sfuggì dalle labbra e con passo apparentemente deciso gli andai incontro.
«Ciao», risposi impassibile, indietreggiando; non volevo avere nessun tipo di contatto con lui… nessuno.
Ritirò la mano e guardò il suolo imbarazzato.
«Ti porto io la valigia», disse accennando un sorriso, con la speranza - forse - di spezzare quel silenzio che si era momentaneamente creato. Non feci nemmeno in tempo a rispondere, che con un gesto delicato e deciso mi tolse la valigia dalle mani e si recò in auto, dalla parte del guidatore.
Non mi preoccupai di ringraziare ed entrai in quel rottame, sbattendo la portiera. Mi sedetti e chiusi gli occhi, appoggiando la testa allo schienale; l’ultima cosa che volevo fare era pensare.
Per il resto del viaggio non volò una mosca; l’unico rumore era la radio, il cui suono riecheggiava nell’abitacolo, spezzando quell’odioso silenzio.
«Siamo arrivati», sussurrò Charlie, guardandomi di sottecchi.
Annuii leggermente e velocemente mi diressi in casa. Una volta arrivata in soggiorno il
Mi portai una mano al petto e una sensazione di vuoto m’invase, tanto che sentii le gambe cedermi e dovetti aggrapparmi al frigorifero per non cadere.
Sentii dei passi alle mie spalle. Scossi leggermente la testa e – seppur con scarsi risultati – cercai di riprendermi.
«Bells…?», mi chiamò con voce incerta Charlie.
Bells…
Bells…
Bells…
Il modo in cui mi aveva chiamata continuava a ripetersi nella mia testa, come un disco rotto.
Mi voltai furente. Non avrebbe dovuto chiamarmi così… Mai.
«Come mi hai chiamata?», domandai, cercando di regolarizzare la voce.
«Bells, ma ch-», iniziò, ma non lo feci finire; interrompendolo bruscamente.
«Tu non hai il diritto di chiamarmi così, né tu né nessun altro!», urlai, facendo un passo avanti.
«Ma…», tentò di dire, ma come poco prima non gli feci concludere la frase.
«Io non sono Bells, sono Isabella e basta. Odio sentirmi chiamare con quel nome, lo odio! », urlai. «Loro mi chiamavano così… Loro. Bells è morta il giorno di quel maledetto incidente, non dimenticarlo», dissi con voce incrinata. Fece per rispondere ma non gliene diedi il tempo, perché con uno scatto repentino gli tolsi la valigia dalle mani e corsi su per le scale. Arrivai in camera mia ed entrai, sbattendo la porta; lasciai la valigia in un angolo e – anche se avevo ancora i vestiti da viaggio – mi buttai sul letto, nascondendo il viso nel cuscino.
Perché io? Perché a me?
Queste domande continuavano a ripetersi incessantemente nella mia testa.
No, no, no. Non dovevo piangere.
Con un gesto secco della mano asciugai quella maledetta acqua salata, imponendomi di essere forte.
Mi recai vicino alla valigia e presi a mettere apposto le mie cose, molto lentamente; dopodichè presi l’occorrente e mi diressi in bagno… avevo bisogno di una doccia.
Il getto dell’acqua calda entrò a contatto con la mia pelle e in parte mi rilassai; chiusi gli occhi, lasciando la mente libera da tutto e da tutti.
Trascorsi un tempo indefinito sotto la doccia, minuti o forse ore… ma non m’importava.
In
salotto trovai
Charlie spaparanzato sulla poltrona, intento a guardare la televisione.
Il mio
occhio cadde sull’orologio appeso alla parete: erano le sette.
Non appena sentì i
miei passi strascicati si voltò di scatto, rimase a fissarmi
per un tempo
indefinito, dopodichè si decise a parlare.
«Be-. Ehm Isabella»,
si corresse subito. «Se hai fame ci dovrebbe
essere qualcosa nel frigorifero,
ci saranno poche cose perché come ben sai io sono un
disastro a cucinare».
Sorrise, cercando di alleggerire la tensione.
«Però domani potrei andare a fare
la spesa, così potrai mangiare qualcosa di
commestibile».
«Ok. Tanto non ho
fame», risposi con voce neutra.
«Dovresti mangiare
qualcosa, sai mi sono dimenticato di dirtelo ma domani sarà
il tuo primo giorno
di scuola a Forks e devi essere in forza…»,
cominciò.
«Domani?», domandai
leggermente stizzita.
«Sì, domani», rispose in un sussurro.
Feci per ribattere,
ma mi morsi la lingua, non era il caso di peggiorare la situazione, che
era già
schifoso di suo.
«Ok», sospirai. «A
che ora iniziano le lezioni?», chiesi, per niente interessata.
«Alle 8. Ma non
andrai a piedi», accennò un sorriso. «Ti
ho comprato una macchina, un Pick-Up
di seconda mano, dalla riserva dei Quileute. Non sarà nuovo,
ma è perfettamente
funzionante», disse fiero.
«Non ce n’era
bisogno», risposi con noncuranza.
«Sì che ce n’è
bisogno. Voglio che tu ti trova bene qui, come se fossi… a
casa tua», disse in
un sussurro.
«Casa mia, come se
fosse possibile», sorrisi amaramente. Casa mia era a Phoenix
e
sempre lo sarebbe
stata.
Lo vidi grattarsi
il capo imbarazzato e abbassare lo sguardo.
«Ma lo farò, tanto
cos’altro ho da perdere… Charlie?»,
domandai retoricamente.
Aprì la bocca per
rispondere, ma poi la richiuse, incapace di dire altro.
«Io vado a letto,
dopo tutto domani mi aspetta una giornata ricca di sorprese»,
dissi sorridendo
forzatamente e ciò a lui non sfuggì.
Non aspettai una
sua risposta, gli voltai le spalle e a passo lento mi diressi
nuovamente in
camera mia.
Mi
avvicinai alla
tenda e la spostai leggermente, così da poter guardare fuori
dalla finestra; mi
appoggiai di spalle al muro e osservai il cielo… non vi
erano stelle, erano
coperte da nubi. Cominciò a piovere; chiusi gli occhi e tesi
una mano, così da
poter sentire le gocce solleticarmi le dita, in una dolce carezza.
Aprii gli
occhi; il cielo era scuro, un po’ rispecchiava il mio umore.
Un sorriso triste
si dipinse sul mio volto, ma scossi leggermente la testa, come a voler
scacciare i brutti pensieri.
Decisi di dormire,
il giorno seguente mi aspettava una lunga giornata.
Mi sdraiai e mi
accoccolai sotto il piumone, stringendo le braccia al petto in cerca di
conforto. Chiusi gli occhi, liberando la mente, ma presto scoprii che
neanche
il sonno mi dava pace; perché, ogni singola volta che
chiudevo gli occhi, la
stessa scena si ripeteva nella mia mente come un disco rotto, come se
io fossi
lì a riviverla.
Di una cosa ero
sicura, ovvero che il destino era stato ingiusto e aveva portato via
due delle
persone più importanti della mia vita, lasciando il vuoto
dentro me.
Sarei
mai riuscita a superarlo?
Grazie a chi è stato così coraggioso da leggere e arrivare fino alla fine. Grazie!
Alla prossima ;) Spero qualcuno recensisca :D
un bacione
Elly