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Autore: Darklight92    05/03/2010    2 recensioni
Non sono mai andato d’accordo con mia madre, neanche quando vivevo con lei. Diciamo che pure che lei mi odiava.
Piccola storia introspettiva su Roy, un tuffo nella sua vita prima di entrare nell'esercito (secondo me), sulla sua giovinezza.
Accenno di RoyAi.
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Roy Mustang
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Make a Sign ~
Piove.
Ho sempre odiato la pioggia, perché mi faceva pensare.
Ogni qualvolta pioveva, ero costretto a restare chiuso in casa, e questo significava due cose:
o stare con mia madre, o fissare la pioggia che cadeva, che scivolava su tutte le cose e si protava via tutto.
Non sono mai andato d’accordo con mia madre, neanche quando vivevo con lei. Diciamo che pure che lei mi odiava.
Mio padre e lei si sposarono giovanissimi, e lei mi ebbe dopo pochissimi mesi di matrimonio: Si erano
sposati solo perché lei era incinta di me.
Per un anno o due sono stati felici, ma poi hanno cominciato a litigare sempre più spesso: Mio padre aveva
un’amante dopo l’altra, e mia madre passava le giornate a piangere, dentro il loro letto matrimoniale, che
ormai era occupato da una sola persona.
A quattro anni mio padre ci lasciò.
Fuggì di casa senza lasciare traccia, senza lasciare a mia madre dei soldi per me o per lei, senza lasciarmi
neanche un ricordo di lui.
Da quel momento, per mia madre, cominciò il vortice infernale.
Beveva e fumava anche davanti a me, iniziò a passare dalle braccia di un uomo all’altro, e se piangevo
i suoi uomini mi picchiavano fino a quando non smettevo, ignorava totalmente la mia esistenza.
Credo che sia da quel momento che è nata la mia sfiducia per le donne.
Si tratta di questo, sfiducia. O forse, più che nelle donne, è sfiducia nell’amore.
Una volta, quando avevo sette anni, chiesi a mia madre perché mi odiasse.
Lei mi rispose: “Perché ogni volta che poso il mio sguardo su di te vedo lui.” E uscì di casa, nel suo bel
cappotto nero, sulle sue scarpe rosse lucide, avvolta nel suo scialle rosso.
Un’altra persona avrebbe almeno finto che non fosse vero, avrebbe almeno negato come palese finzione.
Ma lei non smentì, né si sforzò di fingere di negare.
Quella sera, solo in casa, passai un’ora davanti allo specchio, a fissare il motivo dell’odio di mia madre.
Le ricordavo mio padre, con i miei capelli neri lisci e gli occhi color carbone.
Nel giugno di quell’anno, mia madre morì.
Una sera, dopo alcuni mesi da quella fatidica sera, lei uscì e non tornò più.
Lei e i suoi amici avevano bevuto troppo, e, nel guidare per tornare a casa, finirono fuori strada.
La loro macchina si cappottò e cadde nel fiume, dal quale fu pescata il giorno dopo. Nessuno di loro ce
l’aveva fatta.
Subito dopo il funerale di mia madre, mi trasferii a vivere con mio padre, con il quale rimasi fino a sedici anni.
In realtà non fu difficile da reperire, e se la mamma avesse voluto, avrebbe potuto riuscirci anche lei.
Mio padre era un uomo alto, bello, elegante.
Il genere di uomo con carisma e fascino.
Quando arrivai a casa sua, era il giorno del mio ottavo compleanno, la prima cosa che disse, quando mi vide fu:”Ah, sei tu”.
Parlammo per tutto il pomeriggio, insieme alla mia vicina di casa, l’anziana signora che mi aveva cresciuto
al posto di mia madre, lei gli raccontò dell’incidente, della mamma, dell’alcol, delle giornate passate a piangere.
Mio padre aveva ascoltato in silenzio, ricordo ancora il fumo che usciva dalla sua sigaretta e la cenere che si
era posata sulla sua camicia a righe grigie e blu quando l’anziana vicina gli disse: “E’ morta.”
Negli occhi carbone di mio padre era passato un lampo di sentimento, poi erano tornati due pozzi
inespressivi, vuoti.
Scoprii che si era risposato, ma non aveva avuto altri bambini, che sua moglie aveva sei anni meno di lui,
era una bella ragazza dagli occhi verdi.
Quando la sera tornò a casa, e mi vide, i suoi occhi smeraldo si assottigliarono, e quando fui andato a letto,
la sentii litigare con mio padre.
“Perché deve restare con noi?!” Aveva esclamato, a voce alta. “Abbassa la voce che ti sente.” Aveva
risposto incolore mio padre.
“Non mi interessa! Io non lo voglio, non lo voglio in questa casa e non lo voglio vedere! E la prova vivente
del mio e tuo disonore!” Continuò la donna.
Mio padre non le rispose, aprendo la porta e chiudendola poco dopo.
Non so se furono meglio li anni con mia madre o i primi con mio padre: Tutte e due le donne che avrebbero
dovuto amarmi (una come madre vera, l’altra con madre adottiva) mi odiavano, e mio padre non mandava
gesti di grande affetto, solo qualche buffetto sulla testa di rado o, quando fui più grandicello, delle pacche
sulla spalla.
Una sera, quando avevo dieci anni, la moglie di mio padre mi rovesciò l’acqua bollente a dosso.
Cercò di colpirmi sul viso, ma mi coprii e mi ustionò entrambe le braccia, che portai fasciate per più di due mesi.
“Tu non saresti mai dovuto venire!” Mi urlò.
“Se tu non fossi arrivato, quella maledetta mattina di due anni fa, non sarei coperta di ridicolo!” Continuò,
picchiandomi.
“Tutto il vicinato lo sa! Tutto il vicinato ride di me! Quando vado a fare la spesa, a buttare la spazzatura,
a comprare il pane o a portare il cane a passeggio, tutti, tutti mi bisbigliano alle spalle!
Quel bambino moretto è il figlio dei Mustang? chiede la prima No, non lo sai? E’ il figlio che il
signor Mustang ha avuto dalla ex moglie. Con l’attuale signora Mustang non hanno bambini
Risponde
la seconda. E perché mai? Ribatte ancora la prima. Ma non sai proprio niente? La signora
Mustang non può avere bambini! Probabilmente è per questo che il loro matrimonio non è roseo
.
Sono stanca di essere giudicata, di essere l’eterna seconda! E tutto questo è cominciato da quando sei
arrivato tu! Non saresti mai dovuto esistere!” Mi aveva urlato, tirandomi contro tanti utensili.
La sera la mia matrigna fece una scena del genere anche a mio padre, che, dopo la sua sfuriata, come
sempre, non rispose, e venne in camera mia.
Senza parlare mi prese in braccio, mi osservò le braccia e mi portò in ospedale, dove mi medicarono.
Il giorno seguente iniziò le pratiche del divorzio.
Il mio rapporto con le donne era sempre peggio.
Se prima ero sfiduciato, verso di loro e verso l’amore, ora ero guardingo.
Non mi fidavo di nessuna del sesso opposto, né intendevo legarmi o provare affetto verso qualcuno.
Quando ebbi dodici anni mio padre si sposò di nuovo, e io pensai che sarebbe ricominciato l’inferno.
La nuova moglie di mio padre non era certo bella come la seconda, e gestiva dei locali notturni equivoci,
ma se non altro era gentile verso di me.
Ride sempre e mi cucinava da mangiare, e un’estate andammo addirittura in campeggio tutti e tre insieme.
Per la prima volta mi sentii parte di una famiglia.
A quindi anni mi recai in uno dei locali della moglie di mio padre.
Provai a fumare, e, in una notte, ebbi quasi tutte le mie prime esperienze: La mia prima sigaretta, la mia
prima bevuta, il mio primo bacio, la mia prima esperienza sessuale.
Mi mancano solo due cose: Il mio primo amico e il mio primo amore.
“Puoi divertirti quanto vuoi” Mi spiegò il giorno dopo la moglie di mio padre. “Ma gli affetti non ti
arriveranno mai così. Per volere bene c’è bisogno di qualcosa in più, qualcosa che va oltre.
Volere bene significa soffrire. E tu non sei ancora pronto per questo.” Aveva tirato una lunga boccata
di fumo.
“O meglio: Non sei pronto per affrontare nuovamente il dolore.”
Una settimana dopo, inizia ad interessarmi all’arma.
Presi un modulo informativo, tanto per fare qualcosa.
“Anche tu vuoi entrare nell’esercito?” Mi domandò un ragazzo moro con gli occhiali.
“Anche io. Pagano bene, ed è un lavoro che farà sicuramente ricordare la gente di te.” Continuò.
“A proposito, mi chiamo Maes. Maes Hughes.” Mi porse la mano.
La guardai un attimo.
Ero pronto?
Credei dei si, e afferrai la mano.
Quattordici anni più tardi, scoprii che non si è mai pronti a soffrire.
Quando qualcuno a cui teniamo se ne va, noi siamo sempre colti alla sprovvista.
Inizia a frequentarmi con Maes, ad uscire, e dopo un paio di mesi a parlare, ad aprirmi con lui.
Pochi mesi dopo che conobbi il mio primo amico, mio padre morì.
La mi matrigna indossava un elegante completo nero, e tenne chiusi i suoi locali per una settimana.
Io portavo giacca e cravatta, i capelli pettinati indietro con il gel.
“Perché non mi avete detto che era malato?” Chiesi senza voltarmi alla mia matrigna.
“Te l’ho già spiegato. Perché non eri pronto a soffrire nuovamente.” Si accese una sigaretta.
“E poi lui non voleva. Temeva che tu gli avresti detto qualcosa, qualcosa che tenevi a dirgli prima di morire.
E lui temeva di affrontare con te questo discorso.” Aggiunse, respirando il fumo, e lasciando un alone rosso
sul mozzicone.
“Segui la tua strada Roy, e non voltarti indietro. Fai le tue scelte e i tuoi errori, vivi, ma non farti vivere.
Sii attivo, gioisci, piangi, ridi, soffri, ma evita di non fare.” Si girò verso di me.
“Lascia un segno.” E tornò verso casa.
La settimana dopo mi trasferii a vivere da uno strano maestro, che mi insegnò le basi dell’alchimia.
E poi.
Conobbi l’ultima delle mie prime esperienze che mi mancavano.
“Roy, questa è mia figlia. Ha pressappoco la tua età.”
“Ciao Roy.” Mi sorridesti, fissandomi con il tuo sguardo profondo.
Non so in che modo, ma avvertii una cosa sicura: Tu mi avresti sempre capito, anche più di me stesso.
“Come mai vuoi studiare alchimia?” Mi chiedesti, qualche giorno dopo.
Ci pensai un po’ su.
“Perché voglio lasciare un segno. Voglio migliorare il mondo.”

  
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