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Autore: Fissie    07/03/2010    11 recensioni
Un tentativo di andare oltre le apparenze che Misa ostenta, per scavare nel suo passato e indagare sulle ragioni che l’hanno condotta ad essere la ragazzina frivola e sciocca che tutti conoscono.
Ha vissuto in funzione dell'amore e vedeva la morte tanto bella quanto violenta. Si può dire che fosse una persona romantica. [Vol. 4, pag. 40]
La vita non fa credito ai morti e chi se ne va deve prima saldare i suoi debiti. Quando ti trovi faccia a faccia con la Morte e il tempo per procrastinare è finito, scopri che è arrivato il momento di chiudere i conti, pagare la mancia e scendere dal carro. Ma se Misa non fosse pronta ad abbandonare il set? Se non volesse svestire i panni del personaggio? Se non ricordasse più come indossare i propri? Misa non pensava che girare l’ultimo ciak potesse essere così doloroso e, per la prima volta, attenersi al copione si rivela più difficile del previsto.
La vita non fa credito ai morti e chi se ne va deve prima saldare i suoi debiti. Talvolta anche i più insospettabili nascondono scheletri nell’armadio e Misa non fa eccezione: ma se lo scheletro fosse lei?
[ Prima classificata al contest "Death's waiting you" di Globulo rosso | Vincitrice del "Premio Introspezione" ]
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Misa Amane
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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L'autrice blatera...
Sono talmente commossa che le mie - già effettivamente scarse - facoltà intellettive han deciso di ritirarsi a vita privata. Perciò perdonatemi se questo commento non denoterà una spiccata intelligenza, sono in crisi mistico-spirituale-para-psico-fisico-socio-quello-che-vi-pare, devo ancora realizzare il fatto e penso che trascorrerò i prossimi giorni vegetando con uno sguardo da sogliola *///* <--- sì, come questo.

Aaww, sono troppo felice *///*

Ringrazio a potenza ennesima la giudicia Globulo rosso che ha indetto il contest (Death's waiting you) e, oltre ad essersi sobbarcarta del compito gravoso di leggere tutte le nostre fanfic, ha anche stoicamente sopportato i nostri scleri (roba non da poco, ve l'assicuro). Santa subito! \ù_ù

Beh, cosa dire di questa oneshot che mi accingo a pubblicare per vostra sfortuna, mwahwahwahah!. È un tantino lunghetta - una cosa lieve, eh, proprio appena percettibile: sono 20 pagine ^-^ *osanna la giudicia che non è emigrata in Lapponia dopo averla vista*
Ve lo dico in anticipo così da risparmiarvi la sincope quando, arrivati a metà lettura, dovesse sorgervi il legittimo dubbio: "sì, ma per tutti gli gnomi da giardino, quando finisce???" XD
Ma andiamo ai dettagli tecnici, prima che i miei sproloqui eguaglino in lunghezza la fanfic! (perché leggo del terrore nei vostri occhi, eh? *patpatteggia*)
Verso la fine del testo troverete una frase colorata di bianco che, pertanto, potrete leggere solo evidenziandola con l'indicatore del mouse (ma và!). Questa trovata strepitosamente ingegnosa (date sempre ragione ai pazzi) è stata pensata in quanto temevo che i vostri occhi, scorrendo la pagina fino alla fine, potessero incappare proprio in quella "frase" che vi avrebbe spoilerato tutta la storia. Ad ogni modo la riconoscerete, perché è racchiusa dentro due trattini che invece sono visibili: - Così -
Adesso vi lascio alla lettura, sempre che ne abbiate il coraggio XD (riconosco di essere un tantino prolissa, ma lavorerò sulle mie capacità di sintesi, giuro!). Agli intrepidi che arriveranno fino in fondo, dico: noi ci vediamo alla fine! (che bello, posso avvertire l'aura della vostra gioia! *-*)
Perché ovviamente ci sono anche le note a storia conclusa, cosa credevate? *grin*





Valentine is done





Morire per amore è un bel modo di morire.
Le sue labbra tremano, l’aria fuoriesce in un rantolo strozzato e la gola si contrae dolorosamente.
Misa annaspa, come un pesce sul bagnasciuga. La sua bocca si deforma nella smorfia straziata del pianto, ma è muta.
Morire per…
Il bisogno di respirare le fa inarcare la schiena contro la parete del bagno e i muscoli annodati dell’esofago sembrano quasi strapparsi quando finalmente riesce a forzarne la chiusura. Misa inspira nuovo ossigeno e boccheggia affannata, col viso stravolto e lo sguardo fisso sulla lampada che penzola dal soffitto. I vestiti le si appiccicano addosso, aderendo al suo corpo madido di sudore.
È un bel modo…
Nuovi singhiozzi la scuotono e altre lacrime si mescolano sulle guance a quelle precedentemente versate. Ad ogni sussulto, le costole quasi s’incrinano, spossate dal contrarsi spasmodico dei muscoli.
Per amore…
La mano stretta a pugno tanto saldamente da farle dolere i tendini pulsa come se il cuore fosse strizzato proprio tra quelle dita, l’altra raschia istericamente una linea di cemento tra due mattonelle, incurante dello smalto che si scrosta.
Gratt, gratt, gratt.
È un bel modo di morire.
Le viscere si accartocciano su loro stesse e un improvviso fiotto di succhi gastrici rifluisce dallo stomaco su per la gola.
Non lo è?
Oh dio, non lo è, non lo è, non lo è?

Misa si piega di slancio sulla tazza del water, rigurgitando paura diluita in acido cloridrico.
Il suo corpo potrebbe sciogliersi da un momento all’altro, pensa, in un lampo di follia. Le punte delle sue dita goccioleranno sul pavimento – plic, plic, plic - e lei comincerà lentamente a squagliarsi, come una statua di cera corrosa dall’interno da una vorace lingua di fuoco.
Un altro violento conato la spinge a sporgersi sul water.
Giulietta non ha vomitato prima di trafiggersi il cuore con un pugnale.
Perdonami Light, perdonami se non sono in grado di morire bene. Non sono utile nemmeno ad onorare la tua morte con la mia.
Con la fronte debolmente poggiata sulla tavolozza di plastica e le mani aggrappate al bordo del water, Misa piange fino a sentire nuovi crampi alla gola. Light, però, affacciato dai bordi di carta di una foto che giace accanto alle sue ginocchia, continua a guardarla impietoso. Misa ha paura di quello sguardo, teme di potervi leggere tutta la delusione e il rimprovero che merita – neanche alla fine si sta dimostrando all’altezza, con la propria disgustosa viltà lo sta solo offendendo, e, oh, oh oh no!, è terrorizzata all’idea che lui possa credere di non essere amato abbastanza.
Io ti amo. Io ti amo, ti amo, Light, ti amo.
Misa lo pensa con tanta intensità da trovare il coraggio per socchiudere gli occhi ed incontrare quelli cartacei del suo amato, ma la disapprovazione che vi scopre la spinge a strizzarli nuovamente con forza. Tante lucine colorate ballano sullo sfondo delle sue palpebre, offrendole uno spettacolo psichedelico che le martella cattivo sulle pupille.
Andate via, andate via stupide palline!
Ginocchia e pugni cominciano a picchiare animosamente la base di ceramica del gabinetto, ma l’impeto rabbioso si esaurisce in fretta, così come era iniziato, lasciandole sulla pelle soltanto un principio di lividi che non vedrà mai.
Tirandosi le gambe al petto, Misa si ritrae verso la parete e si rannicchia nell’angolo tra il lavandino e la vasca. Avanti e indietro, avanti e indietro; cerca di trarre conforto dal dondolarsi monotono del suo corpo, avvinghiato su se stesso come nella più miserabile tra le imitazioni di un abbraccio - avanti e indietro.
La sua mente sembra sprofondare, scivola poco a poco verso il fondo di una voragine dalla bocca aperta che da troppo tempo aspettava di ingoiarla; la sensazione è quella di un’immersione, ma la coscienza è meno densa dell’acqua, ha la stessa nulla consistenza del vuoto, e il baratro sembra allungarsi all’infinito.
Il ricordo sfumato di una vecchia canzone – una sciocca canzonetta americana - echeggia d’un tratto nella sua memoria. Le parole, spoglie delle note che il tempo ha raschiato via dai suoi ricordi, affiorano nella sua bocca e ruzzolano giù dalle sue labbra screpolate, sbriciolandosi in una serie di tremolii incerti.
« All… all our times have come… » mormora.
Presto sarà tutto finito. Davvero. Tutto inesorabilmente finito. Niente più dolore, sensazioni, amore, niente più pensieri, niente più progetti, niente più sogni, niente più —
…soltanto una distesa illimitata di niente nella quale dissiparsi lentamente, come fumo.
« H-here but now… they’re gone… they’re gone… »
E cosa ne sarà del suo amore per Light? Nulla. E non ci saranno ricordi e non ci saranno emozioni. E tutto quello che ha vissuto, e tutto quello che non ha vissuto, e tutto quello che avrebbe potuto, e quello che non ha voluto, e tutto, tutto, tutto — nulla.
« Don’t fear… don’t fear the reaper… take my hand… don’t fear the reaper… don’t… »
Stringe i pugni contro le tempie, ansimando, mentre ripete le parole della canzone più volte, come una litania che accompagna il suo dondolio. Avanti – don’t fear… – e indietro – the reaper… - e avanti – don’t fear… – e indietro – the reaper.
Non aver paura, non aver paura, non… non devi avere paura…
…e, santo cielo, non è davvero un sacrificio se non puoi sottrarti. È soltanto una condanna.

Forse lo sapeva sin da allora che le sarebbe mancato il coraggio, per questo si è privata della possibilità di scegliere.
Le dita della mano sinistra, fino a quel momento contratte al punto che la pelle si spaccava dolorosamente sulle ossa delle nocche, si distendono poco a poco. Sul palmo aperto verso l’alto giace un pezzo di carta a righe, tanto martoriato da sembrare sul punto di sgretolarsi. Misa lo spiega per quanto è possibile e poi resta a fissarlo, con sguardo vacuo. Le scritte, minute a causa dello spazio ristretto, sono quasi illeggibili e l’inchiostro è sbavato per via del sudore di cui la carta è pregna.
Le dita si richiudono sul ritaglio di pagina in una stretta più debole che Misa accosta al petto.
Lo ha ritrovato per caso sul fondo di una borsa che credeva di avere perso da anni. D’un tratto, mentre rovistava al suo interno, le sue dita avevano sfiorato qualcosa che sembrava carta e l’attimo dopo il cielo era esploso dentro la sua testa, crollandole addosso in una miriade di ricordi.
Era accaduto un paio di settimane dopo la risoluzione del caso Kira, una notizia che gli agenti le avevano riferito in anteprima quando si era presentata alla stazione di polizia in cerca di Light. L’apprendere della cattura di Kira l’aveva resa quasi contenta. Un tempo aveva provato gratitudine per quel giustiziere che agiva nell’ombra, vendicando crimini rimasti impuniti e dispensando castighi a chi non meritava più il diritto di vivere; ma quei tempi erano finiti, perché lei amava Light e Light era un poliziotto e Light stava investigando per catturare Kira – era quello che si ricordava, ciò che le era stato detto, la prima pietra del suo castello di bugie. Un castello che si era sgretolato velocemente sotto i colpi di quelle verità rimosse che le erano piovute addosso, lasciandola sola e disperata tra le macerie, ancora una volta, con l’angosciante domanda che le martellava nel petto: e se Light era Kira, allora Light…?
…allora Light…?
…allora…
…allora…
…allora?

Le avevano detto che era dovuto partire improvvisamente per urgenti questioni di lavoro.
Era morto.
E lei aveva atteso fiduciosa che tornasse, chiedendosi perché in due settimane non l’avesse chiamata neanche una volta — nemmeno per il San Valentino dell’anno prima, nemmeno quel giorno, e lei ci era rimasta male, davvero male…
Era morto.
…però lo aveva perdonato, infine, perché era dovuto partire improvvisamente per urgenti questioni di lavoro.
Era morto.
Chissà quanto dovevano essere urgenti. D’altra parte il suo lavoro era così importante…
Era morto.
Le avevano detto che — e lei ci aveva creduto, quando glielo avevano detto…
…e in fin dei conti aveva semplicemente smesso di avere importanza, surclassato dalla scoperta di ciò che invece non le avevano detto.
Era morto.
Le sue mani avevano agito da sole, non appena il raziocinio si era spento, come una fiamma annegata dall’acqua di un fiume prorotta da una diga spaccata. C’era solo lei, il suo dolore, un amore ferito e mai degnato di considerazione, nemmeno dalla persona verso cui era rivolto, e c’era quel pezzo di carta, strappato direttamente alle pagine dei suoi maledetti ricordi.
Morire per amore è un bel modo di morire.
Mentre impugnava la penna a sfera e l’estremità bagnata d’inchiostro tracciava linee tremanti sulla carta, il suo cuore batteva impazzito, come celebrando l’apogeo di quella vita che, da quell’esatto istante, avrebbe iniziato a morire poco a poco.



14/02/2011


Ancora accovacciata sul pavimento, Misa reclina il capo all’indietro, contro le fredde piastrelle della parete del bagno.
Il respiro trema sulle sue labbra e uno strano formicolio ronza nella sua testa, oltre che lungo le gambe intorpidite.
Ha un enorme sottovuoto al posto della pancia, come se il suo stomaco si fosse trasformato in un palloncino al quale l’aria sia stata risucchiata tutta di botto. D’altra parte, non mangia da tre giorni. E a che servirebbe? Non fa più in tempo a morire d’inedia.
Deglutisce aria, contraendo la gola secca. La sua bocca è pregna del sapore acidulo e nauseabondo dei succhi gastrici e le ghiandole devono aver smesso di secernere saliva, desertificando l’area racchiusa tra mascella e mandibola. Cerca di umettarsi il palato con la lingua, ma anch’essa somiglia terribilmente a una spugna asciutta.
Ha bisogno di bere.
Misa si alza faticosamente in piedi, barcollando sulle gambe instabili, ma la testa compie un’improvvisa ruota panoramica del bagno, costringendola ad aggrapparsi al bordo del lavandino per non cadere. Indugia qualche secondo in quella posizione per riacquistare l’equilibro, dopodiché si dirige a passi malfermi verso il soggiorno.
La stanza è avvolta dalla penombra, che cola densa sulle pareti come inchiostro. Dalle tapparelle abbassate trapelano soltanto sottilissime lame di luce azzurrognola, che fendono la semioscurità senza, tuttavia, rischiararla.
Voltandosi appena verso l’ingresso, Misa incontra la propria immagine riflessa, imprigionata nel rettangolo dello specchio a parete. Per un attimo, può quasi immaginare quella gemella fittizia picchiare i pugni contro il retro della superficie riflettente e urlare al suo indirizzo: “che ne è stato di noi? Che ne è stato?”.
Già, che ne è stato?
Quasi simulando un vecchio atteggiamento ormai spoglio d’ogni vanità, Misa si sofferma con indolenza sulla propria figura. I capelli che non lava da giorni ricadono in ciocche scomposte e molli sulle sue tempie e incorniciano sgraziatamente un viso stanco da bambina invecchiata che ha del grottesco. La felpa di almeno due taglie più grande scivola informe sulle ossa delle sue spalle curve e cade come un sacco fino all’altezza delle ginocchia, fasciate dagli sgualciti pantaloni di una tuta.
Che ne è stato?
Dell’idol ventiseienne Amane Misa rimane solo lo scheletro, eppure è anche tutto quello che era sempre stata. Uno scheletro vestito e truccato al pari di una bellissima bambola da esposizione, rinchiusa dentro una teca di cristallo come il riflesso nello specchio.
Misa distoglie velocemente lo sguardo e prosegue oltre la vetrata scorrevole che separa il soggiorno dalla cucina.
Il respiro scivola e si arrampica ritmico lungo la sua gola, rientrando ogni volta un po’ più corto. L’aria sembra addensarsi attorno a lei, pressata dentro uno spazio che pare diventare più angusto ogni minuto che passa, come se le parentesi della sua vita si avvicinassero progressivamente, mentre si chiudono, riducendo l’area al loro interno. Si chiede se vivere, alla fine, non sia altro che questo: restare chiusi in una stanza che si restringe poco a poco, inesorabilmente, e aspettare di essere schiacciati dalle pareti allo scadere del tempo.
Misa individua nella penombra la sagoma della bottiglia d’acqua poggiata sul ripiano della cucina e trascina stancamente i suoi passi fino al mobile.
Le pareti che circoscrivono la sua vita, ormai, le premono su ogni centimetro della pelle, ricordandole che presto non ci sarà più spazio a sufficienza nemmeno per lei. Allora le sue ossa faranno crack simultaneamente, frantumandosi in tanti piccoli pezzi acuminati come coltelli che lacereranno la sua carne dall’interno.
e sbaglio, o qualcosa ha scricchiolato?
Le mani, tremanti come rametti scossi dal vento autunnale, corrono ad aprire la dispensa, allo scopo di prelevare un bicchiere e versarvi dell’acqua. Tuttavia, Misa si arresta, con la bottiglia di plastica appena inclinata sospesa a mezz’aria. Sulla parete, il calendario sembra animarsi di malvagità e ghignare beffardo, mentre è carnefice brutale dei suoi giorni, che precipitano dal bordo del riquadro di carta e vi restano appesi come tanti impiccati. Misa può quasi vedere ognuno di quei numeretti - date dei domani che non vivrà - penzolare penosamente dal proprio cappio, in attesa di cadere sul pavimento quando le Parche recideranno il filo.
Un orologio, da qualche parte, cantilena il suo tic tac monocorde ed ogni rintocco delle lancette è una goccia di sudore che scivola dal retro delle sue orecchie, solleticandole la base del collo. Il rubinetto che perde incrementa la sensazione di freddo e umido e viscido che si sta appiccicando alla sua pelle, come un soffocante strato di cellophane.
Tic, plic, tac, tic, plic, tac.
Tra non molto, lei sarà solo un mucchietto di carne putrida, incapace di percepire sensazioni, udire suoni, sentire sapori; i ricordi di ciò che ha vissuto, fatto, pensato, desiderato, tutto svanirà, dissolvendosi nel vuoto, e non proverà mai più nulla. Mai, più, nulla.
Improvvisamente, Misa ricorda che ha soltanto ventisei anni.
La plastica della bottiglia crocchia sotto le sue dita contratte e le mani tremano.
Tic, plic, tac.
Chissà quante cose si è perduta, e quante non avrà nemmeno il tempo di rimpiangere; sono talmente tante che l’immaginazione non riesce ad abbracciarle tutte.
E tra non molto non potrà neanche rammaricarsene.
La bottiglia le scivola di mano e l’acqua si riversa sul pavimento, schizzando sui mobili e sopra i suoi vestiti.
Tic, plic, tac, tic, plic, tac, tic, plic, tac.
Il fragore è come una bomba che scoppia nella sua testa, bruciando i suoi nervi e il suo raziocinio. Misa assesta qualche colpo violento al rubinetto, nel vano tentativo di farlo smettere, ma le gocce quasi aumentano la frequenza isterica con la quale si infrangono sul lavello.
Tic, plic, tac, plic plic, tic, plic—
Accecata da un lampo di rabbia, Misa attraversa la cucina e fa ritorno in salotto, dove aggredisce l’orologio a campana poggiato sul ripiano della parete attrezzata. Le lancette dorate segnavano le quindici e quarantatre minuti, prima di scoppiare in un’esplosione di vetro ai suoi piedi.
Misa si accascia per terra, scivolando in ginocchio con le braccia protese in avanti e le mani premute sul mobile di fronte a sé. I capelli piovono ai lati del suo viso, intrisi di sudore, mentre nuove lacrime precipitano dalle sue palpebre, infrangendosi tra i cocci dell’orologio rotto.
Morire per amore è un bel modo di morire, davvero.
Eppure lei non ha nessuna voglia di morire.
Le dita tremanti cercano alla cieca i pomelli delle ante, che vengono aperte quasi con urgenza. Una schiera di bevande alcoliche, ognuna nella propria bottiglia di colore e forma differente, si dispiega di fronte ai suoi occhi offuscati dalle lacrime. Misa allunga la mano verso la prima che le capita a tiro, senza indugiare neanche per indagare sul suo contenuto. Con gesti impellenti e nervosi stappa l’imboccatura della bottiglia, che impugna saldamente dal collo, e la accompagna alle labbra. Il sapore abrasivo dell’alcol invade presto la sua bocca e immediatamente brucia giù per la gola. I sorsi si susseguono l’uno dopo l’altro, intervallati solo da respiri corti e mozzi che annegano subito nel liquore.
Circa a metà bottiglia, la testa comincia a vorticare e i contorni della stanza si deformano, come colori ad olio sciolti dall’acquaragia.
Chissà quanto manca, si chiede, ai margini della coscienza.
I resti dell’orologio giacciono proprio accanto alle sue ginocchia, ormai incapaci di misurare alcunché. È buffo come gli orologi facciano del tempo e della facoltà di governarlo la loro arma; è buffo, perché il tempo, alla fine, scade anche per loro, senza attenuanti o trattamenti di favore, e questo le ricorda che lei si è arrogata il potere di somministrare la morte e tuttavia adesso sta morendo. Come tutti gli altri.
Misa deposita a lato la bottiglia e si sofferma ad esaminare i cocci di vetro quasi con scientifico interesse, apprezzandone i bordi taglienti e gli spigoli acuminati.
Quanto impiegherebbe a morire se li ingoiasse?
Ma non fa in tempo a formulare ipotesi di risposta, perché una risata stridula si leva all’improvviso da una zona imprecisata della stanza. Misa sobbalza e i frammenti di vetro piovono dai lati della sua mano, tagliando superficialmente la pelle morbida tra le dita.
« Chi…? » guaisce, mentre scatta all’impiedi, nonostante la stanza giri su se stessa come impazzita.
Un’altra risata, ancora più acuta della precedente, segue alla sua domanda.
« Non mi riconosci? »
Misa scandaglia gli angoli della stanza, in cerca della fonte da cui proviene la voce. Il cuore batte nervoso sotto le ossa della sua cassa toracica e le tempie pulsano ritmiche.
« Presto anche tu sarai morta. Morta! Morta! Morta! » esulta la voce, con una nota isterica e malvagia.
Misa preme le mani sulle orecchie, ma questo non attutisce l’eco di quella parola – morta! – nella sua testa. Compie un mezzo giro sui propri piedi, disorientata, e finalmente la vede.
« Ti sono mancata? » sibila sua sorella, incorniciata dal portaritratto sulla mensola. La bocca della ragazza immortalata nella fotografia è distorta in un ghigno mostruoso – ed è ancora come guardarsi allo specchio. « Non hai voglia di raggiungerci? Non ti siamo mancati, forse? O stai nascondendo qualche scheletro nell’armadio, Misa? »
Misa sgrana gli occhi, colpita in pieno petto da quell’allusione che sembra resuscitare l’eco del senso di colpa dalle sue viscere.
« E-ero spaventata… no-non è stata… » farfuglia, ma un fantasma d’ombra sguscia veloce dalla fotografia e si tuffa dentro la cornice di quella accanto, animandola.
« Non credevo saresti mai arrivata a tanto, » sua madre punta il dito accusatore verso di lei, col viso deformato dalla rabbia e dal disprezzo.
« Mamma, cosa dici, oh, io… »
« In tutti questi anni, te n’è mai importato qualcosa? Ci hai mai pensati davvero? » urla.
« Certo, mamma, come puoi… non dire… » balbetta, smarrita.
Ovviamente li aveva pensati, no?
Era stato l’odio cieco verso l’assassino che aveva ucciso la sua famiglia a spingerla tra le braccia di Light, l’uomo che finalmente aveva vendicato la morte dei suoi cari. Le cose erano andate così.
Stai mentendo, sibila una voce nei recessi della sua mente; somiglia terribilmente a quella di sua sorella. Stai mentendo e lo sappiamo entrambe.
Misa stringe le tempie tra le mani e scuote il capo, come volendo scacciare via qualcosa o qualcuno dalla testa.
Non è vero! Le cose sono andate così! , urla dentro di sé, mentre retrocede di qualche passo.
Continua pure a fingere. Ma dimmi, non si sta un po’ stretti nell’armadio? , la voce ride, scemando piano piano in un’eco distante, sempre più soffusa. Prima o poi dovrai uscire allo scoperto…
Misa indietreggia, ma nel farlo urta col tallone la bottiglia abbandonata per terra che adesso rotola sul pavimento, tintinnando in climax discendente. Il liquido denso si sparge a macchia d’olio sul parquet e inzuppa i suoi calzini bianchi. Immobilizzata dallo stupore, Misa osserva alcune scie di liquido risalire lentamente il dorso dei suoi piedi, insinuandosi fin sotto il bordo sgualcito dei pantaloni. Solo quando la morsa viscida e gelida di quelle spire serpentine si avvolge attorno alle sue caviglie, Misa sgrana gli occhi e sussulta, cercando concitatamente di ritrarsi.
La chiazza di liquido ancora sul pavimento comincia ad allungarsi, ricalcando i contorni appena distinguibili della sua ombra. Misa la osserva atterrita strisciare verso la base dello specchio a parete di fronte e attraversarlo come fosse d’aria, fino a raggiungere i piedi del suo riflesso. Quando alza lo sguardo sulla propria immagine, un gemito strozzato sfugge dalle sue labbra.
I vestiti sono incrostati di sangue. Scie vermiglie colano copiose dalle sue tempie lungo la linea magra della mascella, fino ad insinuarsi sotto il colletto della felpa, ormai zuppo. I capelli, intrisi di una melma grumosa e scura, si appiccicano ai lati della faccia come alghe, lambendo i contorni del volto cianotico. Il corpo ha una strana postura deforme e disarticolata, sembra un manichino al quale siano state rotte o slogate tutte le giunture.
Misa rabbrividisce, trattenendo in gola un conato di vomito, eppure non riesce a distogliere lo sguardo da quella visione raccapricciante.
Una domanda continua a martellarle nella testa, mentre osserva nauseata il cadavere del suo riflesso: che ne è stato di noi? Che ne è stato?
L’ombra liquida avvolge i suoi tentacoli attorno alle caviglie del riflesso, cominciando una lenta risalita lungo le gambe magre. Pelle e indumenti si sciolgono sotto il suo tocco, divorati da un acido che sembra risparmiare solo le ossa. L’ombra, densa come petrolio, si accumula ora tra le tibie sottili, colmando il vuoto lasciato dalla carne corrosa. Man mano che il corpo si consuma, l’ombra riveste lo scheletro, modellandosi plastica sopra di esso come un macabro abito di fango nero.
Quando l’ombra lambisce il ventre del suo riflesso, Misa si dimena a vuoto, cercando di scacciare qualcosa d’invisibile dalle sue gambe. Lentamente, ma senza perdere di vista lo specchio, comincia a ritrarsi, fino a sbattere con la schiena contro il mobile del televisore.
L’ombra sta divorando le spalle del cadavere, adesso, mentre le sue sono scosse da tremori inconsulti. Misa stringe in una mano il polso dell’altra, schiacciato contro la gabbia toracica sino ad avvertire il battito sottostante.
E non riesce a pensare, non riesce proprio a pensare, embrioni di spiegazioni razionali schizzano dappertutto nella sua testa come in una centrifuga, ma si spappolano contro le pareti della calotta cranica.
Nel momento in cui l’ombra avvolge le sue spire attorno al collo cadaverico del riflesso, a Misa manca il fiato. Il viso si tinge presto di nero, man mano che l’ombra si spande livida su di esso, e anche il cranio viene scarnificato e la pelle cola molle dagli zigomi come plastica sciolta. In poco tempo, l’ombra termina di ingoiare lo scheletro della bambola morta, della quale non resta altro che un’enorme larva.
Misa, pietrificata dal terrore, assiste immobile alla metamorfosi di quel baco di pece, plasmato come creta da mani invisibili fino ad assumere l’aspetto di un mantello consunto. Cinque rinsecchite falangi emergono da entrambe le maniche sdrucite dell’abito e i contorni affilati di un teschio affiorano appena dal buio pesto sotto il cappuccio. Il manto termina sul pavimento riflesso in numerose pieghe, che si sciolgono in una pozza d’acqua scura e densa ai piedi dello scheletro vestito d’ombra.
« Non mi inviti ad entrare? »
Misa sgrana gli occhi e copre le labbra dischiuse nello stupore con una mano, mentre la sua schiena aderisce ancor più allo schermo della televisione. La voce – una voce profonda, grave e rauca, eppure al contempo inequivocabilmente femminile – sembrava provenire dall’ombra, che ormai aveva assunto l’aspetto di un fin troppo noto e temuto archetipo dell’immaginazione collettiva.
« C-chi… oh mio dio, cosa… » balbetta, scivolando verso il basso. Perfino il suo sguardo, fisso sulla caverna buia che è il viso della creatura inumana, trema.
« Pensavo che le presentazioni fossero superflue, » sibila l’Ombra e se il mucchio d’ossa del suo teschio potesse ghignare certamente in quel momento lo farebbe. L’Ombra avanza verso di lei, fino a varcare lo specchio ed immettersi nella stanza, seguita dalla scia color pece da cui emerge il suo mantello.
Misa si raccoglie su se stessa, schiacciandosi contro il mobile ai limiti del possibile, nel tentativo di recuperare ogni centimetro di distanza tra sé e l’Ombra.
« C-cosa… perché sei… qui…? » farfuglia, col cervello talmente obnubilato dalla paura che fatica a comandare alla lingua di emettere fonemi senza balbettare.
« Hai in programma una scampagnata o un suicidio questo pomeriggio? » chiede serafica la Morte, con l’ovvietà di chi stesse domandando se in Alaska l’inverno sia freddo.
« È ancora presto… mancano almeno due ore… » cerca di ribattere. Due ore che avrebbe sprecato tormentandosi all’idea della morte imminente, ma pur sempre due ore nelle quali avrebbe ancora potuto pensare. La paura viene diluita da una rabbia improvvisa mista a delusione e impotenza.
« Ne sono consapevole. Ma mi sembravi d’umore un po’ nero, » il sarcasmo nella sua voce è abrasivo come carta vetrata, « perciò ho pensato di venire ad allietare le tue ultime ore. Non è quello che avrebbe fatto qualunque vecchia amica, d’altra parte? E noi siamo amiche, oh sì che lo siamo, mi sbaglio? »
Misa rabbrividisce, quando l’Ombra le si avvicina e il freddo emanato dalla sua aura insinua le dita ghiacciate sotto i suoi vestiti. Alcune volute di buio emergono dalla pozza d’oscurità che è la fonte stessa dell’Ombra e si diramano nell’aria come mani protese verso di lei.
« Quanto tempo hai passato a corteggiarmi? Ti sei circondata dei simboli che mi rappresentano, hai vestito il mio colore… »
Misa sussulta e si appiattisce ancor più contro il mobile, quando le spire di quel fumo nero si dipanano a pochi palmi dal suo viso, come figure danzanti di evanescenti ballerine. La Morte continua ad incombere su di lei, mentre tutte le ombre della stanza sembrano confluire verso quella Madre spettrale che, con voce antica, prosegue a denigrarla: « hai fantasticato sul mio aspetto, invocato spesso la mia venuta, accarezzato col pensiero il giorno in cui ci saremmo finalmente incontrate.»
Le volute di nebbia scura lambiscono la pelle del suo viso, si mescolano all’aria inspirata dalle sue narici dilatate dalla paura e si avvolgono alle braccia magre che, invano, cercano di scacciarle.
Misa scuote il capo, cercando di negare persino a se stessa quella verità impossibile da confutare.
La stanza sembra trasudare freddo e l’aria, satura di angoscia, s’impregna dell’odore della sua paura. Nel buio che dipinge il teschio della Morte, Misa riesce ad immaginare, quasi potendolo vedere, un sorriso crudelmente indifferente.
« Si può dire che la morte fosse una scelta di vita, per te. »
Quella frase ha un suono feroce. Come se la voce stesse incidendo ciascuna parola su una lastra d’ardesia con la punta acuminata di un coltello.
« Perché sei qui adesso? Torna più tardi! » avrebbe preferito che il tono risultasse un po’ più deciso e sicuro, ma aveva emesso soltanto un tremulo mormorio più simile a una preghiera che a un comando.
Per un attimo, la Morte tace, gustandosi quel silenzio carico di attesa, timore e pena dal sapore acre dell’ansia.
Misa trattiene il fiato, desiderando di rimangiarsi le parole appena pronunciate, mentre le spire delle volute d’ombra le accarezzano il collo, suadenti e letali al contempo, riducendo progressivamente il giro compiuto attorno alla sua gola.
« Lo scarso entusiasmo che dimostri nel ricevere la mia visita mi spezzerebbe il cuore, sai, se ne avessi uno. »
La voce, totalmente priva di inflessioni, non tradisce alcuna emozione, nemmeno lo sdegno. Misa rabbrividisce, raggelata da quella freddezza che nulla ha di umano e dal macabro contrasto creato tra il sentimento racchiuso nel significato della frase e la sua assoluta assenza nel tono con cui era stata pronunciata.
« Il nostro appuntamento è stato rimandato più del dovuto, non credi? Ed è curioso, davvero curioso, direi quasi divertente, che dopo essermi scampata tante volte sia stata proprio tu ad invitarmi. È un’ironica beffa a tutte le persone – oh, non soltanto le persone – che si sono sacrificate per te o che sono morte quando tu, invece, sei sopravvissuta. »
Le dita scheletriche della Morte cominciano a muoversi con grazia e brutalità allo stesso tempo, artigliando l’aria con le punte affilate delle sue falangi. Lembi di fumo nero danzano seguendo la guida esperta di quelle mani che lo ammaestrano e plasmano, pur senza toccarlo, come creta che si modelli sotto il solo sguardo dello scultore. Dalle volute di nebbia scura emergono rapidamente sagome antropomorfe, che volteggiano nell’aria e man mano assumono l’aspetto di figure conosciute: sua madre, suo padre, sua sorella, Jealous - che eppure non ha mai visto, ma adesso le appare così come, un tempo, lo aveva immaginato - e Rem.
Fantasmi di buio sottoforma di vapore condensato si librano a pochi centrimetri dai metacarpi aperti che lo scheletro volge verso l’alto, come predatori in attesa di agguantare una preda. Ed è quello che accade l’attimo dopo, quando le fauci delle mani scarnificate si chiudono fameliche sulle anime danzanti. Grida straziate come quelle di bestie in un mattatoio urlano il suo nome, tanto acute da essere forse in grado di lacerarle i timpani. Misa serra le palpebre e preme le mani sulle orecchie, ma le voci, seppur apparentemente emesse dalle figure di fumo, hanno origine dal centro stesso della sua mente.
« Basta! Basta! »
I pugni della Morte si stringono ancor più, le ossa stridono le une contro le altre e le urla aumentano d’intensità raggiungendo il loro apice, prima di spegnersi tutto d’un tratto.
Quando Misa riapre gli occhi, del liquido nero cola copioso dalle dita dello scheletro, gocciolando sul pavimento.
« Tu hai lasciato che morissero per te. Tu , che sei stata da me graziata più e più volte, hai deciso di gettare per capriccio la vita a cui altri hanno rinunciato per la tua salvezza. Tu non puoi concederti il lusso di avere paura, adesso. Non trovi? »
L’Ombra, per un attimo, sembra aumentare di statura, fino a saturare di buio l’intera stanza, e la sua voce è diversa da quella atona, eppure tangibile come se fosse vera, di poco prima. Adesso sembra provenire dai recessi della sua mente, echeggiare tra le pareti di quel vuoto da sempre racchiuso nel suo corpo, ed è brutale, brutale e feroce.
« Vattene! » urla, non sa bene se alla propria coscienza o al mostro di fronte a sé.
L’istante successivo, il buio si ritrae verso il grembo sterile che lo ha originato, come onde sul bagnasciuga risucchiate dall’oceano, e la penombra torna ad aleggiare nell’aria, sottile eppure pressante.
« Non è un modo gentile di trattare gli ospiti, sai? » commenta caustica la Morte.
Misa, accovacciata per terra con le gambe strette al petto, trema convulsa.
« Ad ogni modo, il tempo stringe, » l’Ombra si concede una pausa per assaporare il brivido che quell’allusione induce lungo la colonna vertebrale della sua prossima vittima, « perciò ritengo sia opportuno impiegare con diletto il tempo che ti resta. Dicono che rivedere tutta la propria vita prima di spirare sia uno dei momenti topici più pregnanti tra quelli che precedono l’ultimo. Oh, ti confesso di non poterlo confermare in prima persona, non mi sono mai trovata nella situazione. »
Il tono incurante di quell’ironia al vetriolo ha il potere di farle accapponare la pelle; Misa crede che non resisterebbe comunque, anche se non dovesse morire tra meno di due ore. Ogni minuto che passa, l’aria, sotto l’azione dell’angoscia, diventa più stopposa, come se si condensasse in nugoli di cotone idrofilo e, in questo modo, ostruisse le sue vie respiratorie. Non credeva che si potesse morire soffocati dall’ossigeno – ma, a ben vedere, è solo uno dei tanti controsensi che hanno costellato la sua vita.
« Ti va di vedere un film? » sibila la Morte, invitante quanto la prospettiva di abbracciare un aspide. La domanda, tuttavia, non attende risposta e, a un gesto impercettibile delle dita scheletriche, la televisione si accende.
Misa, colta di sorpresa, sobbalza quando lo schermo quadrato contro cui poggiava le spalle s’illumina e i suoni, amplificati dal precedente silenzio, esplodono appena dietro le sue orecchie. Gattonando sulle proprie ginocchia si allontana dal televisore e, solo quando ha guadagnato una distanza sufficiente, si volta a guardarlo.


« Ma che signorina deliziosa » sta dicendo in quel momento Ginko-san, la sorella di sua madre, alla bimba che, con grazia quasi adulta, le sta versando del tè. Le dita paffute della donna accarezzano il capo della bambina, che sorride compiaciuta mostrando la dentatura costellata di spazi vuoti. Ginko-san ride di gusto, arruffando affettuosamente i lucenti capelli neri della nipote.
« Hisako, Misa è davvero una bambina adorabile, » commenta, rivolgendosi alla donna che le siede di fronte, mentre sorseggia il suo tè. « Lei e Seiko sono proprio come la notte col giorno! »
Poco distante, seduta a gambe incrociate sul pavimento, un’altra bambina, del tutto identica alla prima, si adombra e sospende le cure amorevoli che fino a quel momento stava elargendo alla propria bambola. I piccoli pugni si stringono attorno alle braccia di porcellana, quando la gemella, facendo svolazzare le balze della gonnellina lilla, saltella verso di lei.
« Seiko, vieni a prendere il tè insieme a noi! » cantilena, con la vocina squillante, mentre dondola sulle scarpette e allaccia le mani dietro la schiena. Seiko alza gli occhi castani sulla sorella ed incontra quello sguardo che, pur essendo identico al suo, è più vivace; più vispo; più allegro; più dolce; più gaio; più luminoso. Più tutto.
Pochi secondi dopo, Seiko distoglie il proprio, sconfitta.

« Te la ricordi, tua sorella? Oh, ma certo che te la ricordi. »
La voce della Morte torna a insinuarsi velenosa tra le sue percezioni, catturando nuovamente quell’attenzione che era stata calamitata dallo schermo.
Misa, carponi sul pavimento, trema, sconvolta da quel pezzo di passato che aveva sempre negato a se stessa di riesplorare con la memoria.
Ricordava sua sorella. La ricordava tutte le volte che incontrava la propria immagine riflessa in uno specchio; ma ricordare forse non era il termine esatto. La riesumava.
« C-cosa… cosa significa? »
« Ho voluto saltare la parte dei primi passi e delle lallazioni. Spero non ti dispiaccia. »
Uno schiocco, seguito dal ronzio tipico delle interferenze, la inducono a volgere ancora lo sguardo allo schermo, che immediatamente si tinge di una nuova scena.


« Allora bambini, avete terminato i vostri disegni? » domanda l’insegnante del doposcuola, girando tra i banchetti cosparsi di fogli e colori a tempera. « Misa-chan, perché non ci fai vedere il tuo? »
La bimba, dai capelli raccolti in due codine alte, sorride euforica all’indirizzo della giovane maestra e, per nulla intimorita all’idea di esporsi per prima, mostra orgogliosa il proprio foglio pasticciato di mille colori.
« Queste siamo io e Seiko che raccogliamo dei fiori in un prato! » trilla, occhieggiando alla sorella seduta al suo fianco.
« Ma che pensiero carino! Davvero dolcissimo, Misa. Seiko-chan, tu invece cos’hai disegnato? » chiede la maestra, conciliante, chinandosi appena verso la bambina, ma Seiko si getta di scatto sul banco per coprire il foglio con il proprio corpo. « Non è ancora finito! », strilla.
L’insegnante si ritrae, turbata dalla sua reazione improvvisa, mentre Misa allunga il collo sopra la testa della sorella per cercare di sbirciare il disegno: « Dai, dai, fammelo vedere! » protesta, tentando di sfilare il foglio da sotto i suoi gomiti ben piantati.
« No! » Seiko stringe il disegno al petto con una mano e spintona Misa con l’altra, mandandola a sbattere contro il bordo del banco accanto.
« Seiko! » la redarguisce l’insegnante, con voce severa e l’espressione del viso indurita dalla disapprovazione.
« Non mi sono fatta niente. È solo che Seiko è timida— » si affretta a scusarla Misa, ma, prima che potesse completare la frase, Seiko stava già singhiozzando, stropicciandosi gli occhi con le dita che, di conseguenza, avevano lasciato cadere il foglio per terra.
« È carino, » commenta Misa, raccogliendolo e cinguettando allegra al suo fianco nel tentativo di consolarla, mentre esamina il disegno. Marcate linee di pennarello nero solcano il foglio, abbozzando quello che, per sommi capi, rappresenta un prato al cui centro svetta la figura stilizzata di una bambina.
« Abbiamo fatto lo stesso disegno! » esclama d’un tratto, meravigliata, cercando il sostegno dell’insegnante che tuttavia appare scettica. « Ti sei dimenticata soltanto una cosa, » dicendolo, Misa poggia il foglio sul banco, impugna un pennarello e scarabocchia sopra la carta. Seiko apre appena le dita che le coprono gli occhi per sbirciare l’operato della sorella, la quale, in quattro e quattr’otto, termina di apportare le proprie modifiche e fa scivolare il foglio sotto il suo naso. « Me, » constata con semplicità disarmante, puntando l’indice proprio accanto alla figura stilizzata che raffigurava Seiko, adesso affiancata da una gemella identica.
Misa sorride, ma Seiko, con le labbra ancora arricciate dal pianto, non è in grado di fare lo stesso.


« Perché mi stai facendo vedere tutto questo? »
Misa si volta di scatto verso l’ombra alle sue spalle. Il viso cinereo ha un aspetto stravolto, sembra essere invecchiato di trent’anni in mezz’ora. Lo schermo della televisione emana un trapezio di luce colorata che illumina uno spicchio del suo volto e mette in risalto le dense goccioline di sudore sulla sua fronte.
« Perché la vita non fa credito ai morti e chi se ne va deve prima saldare i debiti. »
Misa deglutisce aria, pesante come piombo. « Io ho già… » dice, senza riuscire a concludere la frase.
« Brava, Misa Misa , » sogghigna lo Spirito, con voce bassa e tetra che nulla ha di adulatorio. « Quante volte hai sentito questa frase? “Com’è disciplinata Misa Misa, com’è dolce… »
Misa geme, china in ginocchio con le dita strette tra le ciocche dei capelli.
« …com’è buona, com’è gentile… »
« Basta… basta, smettila… » implora, flebile, curvandosi sempre più sulle proprie ginocchia.
« …com’è allegra e simpatica, Misa Misa”, “Seiko, perché non somigli un po’ più a tua sorella Misa Misa?”. »
La voce perfida e serpentina della Morte si fonde con quella acuta, a sprazzi isterica, di sua madre, proveniente ora dalla televisione accesa.

« Se solo fossi meno ostinata, Seiko! »
La donna urla alla porta chiusa dinanzi alla sua faccia, assestando di tanto in tanto qualche colpo alla superficie di legno laccato di bianco.
« Mamma, lascia stare » Misa posa lieve una mano sul braccio della madre, invitandola a desistere.
« Ma… santo cielo! » mormora Hisako, addolcendo lo sguardo appena lo abbassa sul viso della figlia. « Vorrei che si comportasse meglio. Cosa le costa venire a salutare gli ospiti? Penseranno che sia una maleducata. »
« Diremo che sta male e capiranno. Seiko è solo un po’ solitaria, non possiamo costringerla a stare con la gente se non vuole. »
« Non ne posso più. In questo modo è insostenibile, saranno giorni che è chiusa lì dentro, » mugola la donna, massaggiandosi piano le tempie mentre volta le spalle alla porta. « Se solo ti somigliasse un po’ di più, Misa. »

« Certe volte penso che lei sia la punizione che ho ricevuto per compensare al dono immenso di avere te come figlia . Ha detto questo, dopo, ricordi? Tutti amavano Misa Misa, perché Misa Misa era un angelo, non è così? Un angelo. »
« Ti prego, ti scongiuro… » Misa serra le palpebre e affonda ancor più le mani nel groviglio informe di capelli che si attorcigliano alle sue dita.
« Ma Seiko era diversa, no? » persevera impietosa la Morte, indifferente alle sue preghiere supplici. « Eravate come il giorno e la notte, ve lo dicevano tutti, Misa era il sole e Seiko un cielo senza stelle. Eppure Misa voleva bene a Seiko, non è vero? »
Misa trascina le gambe contro il petto e si rannicchia su stessa, come cercando protezione da quell’implacabile carnefice.
« Non è vero? » rincara.
« Sì, » geme. « Sì, sì, sì. »
« Misa era proprio un angelo, » annuisce, freddamente.
Il silenzio, pressante come una cappa di nubi, piomba sulla stanza immersa nella penombra, che man mano diventa sempre più buia. Il ronzio ipnotico del televisore attraversa formicolando quell’atmosfera atrofizzata che le preme sulla pelle come un calco, o come una camicia di forza.
L’aria puzza di chiuso, di angoscia e d’inesorabile.
« Non ne posso più. Non ne posso più, non ne posso più, » mormorii rauchi, d’un tratto, si levano lenti e cadenzati, componendo il macabro ritornello di una nenia funebre. « Sono stanca, stanca, stanca, stanca, sono davvero stanca. »
L’Ombra, alle sue spalle, si sposta. Misa lo sa, anche se non può vederla, perché sente una voragine di vuoto e freddo aprirsi come un cratere nel punto in cui la Morte si trova e rimarginarsi laddove, invece, se ne va. Ogni singolo millimetro di distanza che si accorcia, tra lei e quel Destino ultimo a cui nessuno, infine, può sfuggire, è una cellula del suo organismo che entra in necrosi. La sola presenza della Morte ha il potere di annichilire lentamente tutto ciò che la circonda.
« Non sei certo l’unica, mia piccola umana. » L’aggettivo possessivo, penetrante come unghie conficcate nella carne, constata una verità tanto semplice quanto ineffabile: lei, ormai, le appartiene. « Esisto da quando esistono gli uomini. Credi che io non sia stanca, di questo lavoro? Perciò vediamo di concludere in fretta, ho un’altra morte a Singapore tra quarantasette minuti. »
La melodia di una canzone proveniente dai diffusori dell’audio della TV riempie d’improvviso la stanza.
Misa inorridisce e sgrana gli occhi, voltando le spalle al televisore.
« Non vogl— »
Le spire d’ombra si avvolgono attorno al suo corpo, condensandosi fino a raggiungere la consistenza di corde che la costringono a volgere nuovamente il capo verso lo schermo.
« Perdonami, ma la Morte non ha fama di essere indulgente, ed io ho una reputazione da difendere. »
Le parole aspre si confondono per un attimo a quelle della canzone, inquinando l’eco antico del ricordo.


« Valentine is done, here but now they’re gone! » canta a squarciagola Misa, sovrastando le note emesse dalla radio, mentre volteggia per la stanza abbracciata a un manico di scopa. Sotto le coperte di uno dei due letti qualcosa si agita in risposta con malagrazia, ma Misa prosegue imperterrita nella propria esibizione canora: « Romeo and Juliet are together in eternity! Romeo and Jul — »
« Ma sta’ un po’ zitta! E smettila di ascoltare quello schifo di musica americana! » Seiko, levatasi a sedere sul letto in un marasma confuso di lenzuola attorcigliate, la guarda con occhi di fuoco che lampeggiano di rabbia.
« Non è uno schifo di musica e non è nemmeno americana! » protesta Misa, pestando i piedi sul pavimento mentre, tuttavia, si accinge a spegnere la radio. « E se proprio ne vogliamo parlare, » prosegue, piccata, incrociando le braccia sul petto, « tu dovresti smetterla di leggere quei libri pallosi da vecchia pensionata in menopausa! »
Seiko sgrana gli occhi, che si accendono di collera ancor più di quanto già non fossero.
« Questo, » ribatte, posando il palmo sulla copertina rigida di un tomo affondato sul materasso, « non è un libro palloso, come lo chiami tu. È di Kikuchi Kan! Oh, ma che te lo dico a fare? Tu, stupida per come sei, non sai nemmeno chi è! »
Misa, ancora impugnando l’asta del manico di scopa, si muove incomoda sui propri piedi, sotto lo sguardo derisorio della sorella.
« Uhm, l’attrice? » azzarda, esitante, atteggiando le labbra in un mezzo sorriso conciliante.
Seiko scoppia in una fragorosa risata che nulla, però, ha di ilare.
« Sei proprio un’ignorante! » la denigra, godendo di quella vendetta.
La sorella, poggiando la guancia sulle nocche del pugno chiuso attorno all’estremità del manico di scopa, sbuffa e sporge in fuori il labbro inferiore.
« Lo sanno tutti che Misa Misa non è proprio una cima a scuola. Sei tu la secchiona, ma è inutile che te la tiri, » borbotta, gonfiando le guance di aria.
Seiko fa per voltarsi e quindi tornare a immergersi nella propria - intellettualmente gratificante - lettura, ma Misa, ancora una volta, le guasta i piani.
« Possibile che non ti piace proprio nessuno? » domanda, saltando a sedere con un balzo sul proprio letto, che geme accorato sotto il suo peso. « Cioè, dai, ci deve essere qualcuno in tutta la scuola che ti piace! »
« Tu sei già sufficiente a soddisfare l’intera popolazione maschile dell’istituto, corpo docenti incluso, non c’è bisogno che mi prodighi pure io, ti pare? » risponde, cattiva, ma la sorella ignora come se nulla fosse la sua frecciatina.
« Sì sì, bla bla bla, sempre le solite cose. Conosci a memoria il libro di quello, la storia dell’altro— »
Seiko la interrompe brusca, per precisare: « Non a memoria, scema. Io studio e capisco, a differenza tua che non capisci nemmeno le istruzioni per l’uso sul retro dello shampoo. »
Misa, ancora una volta, ignora il commento della sorella e prosegue imperterrita: « …ma non sai cosa si prova quando ti batte forte forte il cuore, quando ti tremano le gambe, quando lui si avvicina e ti senti sciogliere, e… »
« Per favore, risparmiami, » Seiko rotea gli occhi e leva platealmente le mani in alto in segno di resa.
« Brutta vecchia bacucca! » esclama Misa, balzando nuovamente in piedi a pochi passi dal letto della sorella. « Come fai a non emozionarti pensando, che ne so, a Romeo e Giulietta? Romeo and Juliet are together in eternity! » torna a canticchiare, stonata, sfarfallando le ciglia, mentre Seiko si massaggia le tempie, esausta, vagamente insofferente e con un principio acuto di mal di testa.
« La loro storia è così romantica! » sospira Misa, con aria trasognata, premurandosi di allungare tutte le vocali. « Morire per amore è un bel modo di morire. È triste, è drammatico, è romantico, è passionale, è… »
« È solo un altro fottuto modo di morire, » commenta Seiko, caustica.
« Ma immagina, lui, l’uomo che ami, che, ooh… ti tende le braccia mentre tu stai morendo per raggiungerlo! E ti dice… » Misa, sporta verso la sorella, assume la posa struggente dell’amato che parla alla propria donna in punto di morte, « Come on baby, don’t fear the reaper, baby take my hand, we’ll be able to fly, baby I’m your man! »
« Se ci tieni tanto a vivere una storia d’amore come quella di Romeo e Giulietta perché non ti cerchi un fidanzato, pianifichi un inutile quanto patetico suicidio da innamorati e finalmente schiatti, regalando a me il sospirato felice e contenta? »
Misa si arresta di botto al suono apro di quelle parole pronunciate con cruda ironia, l’allegria scivola repentina dal suo volto, come gesso cancellato da una passata di spugna, e per alcuni istanti resta a fissare, immobile, la propria gemella.
« Lo pensi davvero? » dice d’un tratto, a fil di voce, con gli occhi annacquati da una tale tristezza che Seiko è costretta a distogliere i propri. « Vorresti che io morissi? »
Il materasso si avvalla leggermente sotto il debole peso del corpo di Misa quando vi prende posto a sedere.
« Dicevi sul serio? » ripete.
« Sì, » risponde Seiko, senza guardarla.
« Non è vero. »
« Ti ho detto di sì. »
« Ma io so che non è vero. »
« Se ti dico— »
« Smettila, non è… »
« Ti ho detto di sì! Sì! Io ti odio! Ti odio, Misa, almeno questo lo capisci? Ti odio! Ti. Odio, » scandisce, gesticolando animosamente con le mani. Gli occhi dardeggiano e il viso è contratto in un’espressione di pura rabbia, e rancore, e astio, e l’ira la sfigura a tal punto che Seiko e Misa non sembrano più gemelle neanche nell’aspetto. « Detesto essere tua sorella. Lo detesto con tutta me stessa, perché dovremmo essere identiche e invece non lo siamo. Tu sei sempre così maledettamente più… più… più… più… »


…più ogni stramaledettissima cosa.
« Avresti preferito che tua sorella non esistesse, vero… Seiko? »
Misa porta entrambe le mani a coprirsi la bocca e sbarra gli occhi, mentre lacrime silenziose rigano le sue guance, disegnando linee traslucide sulle quali si riflette la luce artificiale dello schermo.
« No, io non… »
« Cosa? Non volevi ucciderla? »
Le parole affondano come stilettate sul petto, una a una lacerano la sua carne, penetrano lo sterno e le trafiggono il cuore.
« Non l’ho uccisa, non l’ho… non l’ho uccisa, io… » mormora, con la voce ridotta a un soffio, strozzato dalle fitte che le sconquassano il petto.
La Morte si avvicina al suo corpo rannicchiato sul pavimento. Misa sente il fiato mancarle, come se l’aura nera alle sue spalle avesse il potere di risucchiare l’aria dai suoi polmoni, oltre che la vita.
« Non hai fatto nulla per impedire che morisse, non hai voluto aiutarla, quindi è come se l’avessi uccisa. »
« Non… non è vero, non… »
« Hai bisogno che ti rinfreschi la memoria? » sibila, feroce.
Un rumore, seguito da un urlo lancinante, prorompe violento dalla televisione e Misa sussulta, col cuore che pulsa impazzito e i battiti che si accavallano gli uni sugli altri per lo spavento, come animali imbizzarriti.
A trenta centimetri e dieci anni di distanza, oltre lo schermo, la Seiko del passato fa lo stesso.


« Che cos…! »
Seiko si leva a sedere sul letto, svegliata di soprassalto dal trambusto assordante proveniente dal piano inferiore.
L’attimo dopo la luce si accende e Seiko è in grado di vedere sua sorella, coi capelli scarmigliati, un’espressione confusa dipinta in viso e il braccio ancora teso verso l’abatjour sul comodino.
« Che succede… » bisbiglia Misa, facendo vagare lo sguardo tremante e smarrito da Seiko alla porta.
Il petto di entrambe si alza e si abbassa frenetico, il corpo è scosso da brividi e la mente accecata dallo sconcerto.
D’un tratto, un rumore di passi pesanti sopraggiunge sinistro dal corridoio.
Seiko scosta le coperte di lato e scatta in piedi, lanciandosi verso l’armadio a pochi passi dal proprio letto.
« Cosa fai? » la voce di Misa suona isterica, nonostante la bassa tonalità usata più d’istinto che per precauzione.
« Mi nascondo! Cosa vuoi che faccia! » soffia Seiko, mentre si rifugia dentro l’armadio e afferra i bordi delle ante per accostarle. Le dita di Misa s’infilano svelte nell’interstizio appena prima che si richiuda.
« Fa’ entrare anche me! » dice, combattendo con la sorella per mantenere aperte le ante.
Il “tap tap” dei passi in corridoio incalza, facendosi progressivamente sempre più vicino.
Seiko lascia d’improvviso la presa sui bordi delle ante e, spingendosi in avanti con le braccia, le assesta una spinta talmente poderosa da farla cadere sul pavimento.
« In due non ci entriamo qui dentro! » strepita. « Nasconditi sotto il letto! »
Nell’attimo in cui Misa si rialza, i bordi delle ante sbattono l’uno contro l’altro davanti ai suoi occhi sgranati e la porta della camera viene spalancata con veemenza.
Misa si volta di scatto, facendo appena in tempo a vedere la figura massiccia di un uomo in abiti scuri che irrompe nella stanza.
« Lasciami stare, ti prego! » strilla, incrociando le braccia davanti al viso come per proteggersi.
L’uomo avanza, stringendo saldamente l’impugnatura di un coltello tra le dita. La lama è attraversata da un sottile riverbero di luce, riflesso dall’illuminazione fioca che proviene dall’unica abatjour accesa.
« Dove cazzo tenete i soldi? » urla l’uomo, con la mano che impugna l’arma protesa verso Misa.
Seiko, da uno scorcio sottile tra le ante dell’armadio, assiste immobile alla scena. Può sentire il suo cuore pulsare fin nei polpastrelli delle dita, strette spasmodicamente attorno a un lembo della maglia del pigiama, mentre il suo corpo, oppresso dalla cappa di abiti, è attraversato da intense scariche di paura e freddo che bruciano sotto la pelle sudata.
Dallo spiraglio tra le ante, vede Misa ritrarsi spaventata.
« I-i-io… »
«Parla, stronza! »
Il suono acuto e insistente dell’allarme fende d’un tratto il silenzio compatto della notte.
Misa urla, il ladro l’assale furente, mentre Seiko, al buio del proprio nascondiglio, trattiene il fiato e schiaccia le mani sulla bocca, fino a ferirsi con i denti la parte interna delle labbra. Misa riesce a scostarsi e ad afferrare l’abatjour spenta dal comodino, il primo oggetto contundente nel raggio di un metro. L’uomo le si getta addosso, Misa si difende frantumando la lampada contro la testa del suo aggressore che per un istante si ritrae, tramortito.
Nella frazione di secondo che segue, Misa volge lo sguardo vibrante di panico oltre le spalle dell’uomo e, attraverso lo spiraglio, scorge quello della sorella. Il tempo si dilata, cristallizzandosi in quell’unico battito, quel tu-tum all’altezza del petto che non era mai stato sincrono, non una volta in quei sedici anni e nemmeno allora. Fuori fase, come sempre.
L’attimo successivo, l’uomo si lancia su Misa, col coltello proteso in avanti, e la lama affonda vorace nel suo stomaco.
Mentre la chiazza vermiglia si allarga sulla maglia rosa del pigiama, mentre la stretta delle dita sulla spalla dell’aggressore s’indebolisce poco a poco, mentre le ginocchia iniziano a cedere, mentre il corpo si affloscia lentamente su quello dell’uomo e l’ombra della morte scivola cinerea sul viso pallido di bambina, Misa non interrompe il contatto visivo. I loro sguardi restano incatenati, fusi come un unico fascio che fluisce dagli occhi dell’una a quelli dell’altra, in un muto dialogo che è il primo e l’ultimo della loro vita.


Misa ricorda con agghiacciante precisione cosa vi aveva letto.
Non c’era odio, non c’era rancore, non c’era nemmeno perplessità.
C’era solo quell’incommensurabile affetto che lei non aveva mai meritato né tantomeno era stata in grado di ricambiare, se non con l’invidia; invidia perché Misa era buona, lo era davvero, senza artifizi; invidia perché odiarla appariva disgustosamente sbagliato, eppure la odiava lo stesso; invidia perché ammetteva sempre tutti i suoi sbagli, anche quelli che non commetteva; invidia perché faceva di tutto per non darle ragione di essere invidiosa, perché era leale, gentile e sempre sincera; invidia perché avrebbero dovuto essere uguali e invece lo erano soltanto nella parte meno significativa, l’involucro, e perché questo non faceva altro che accentuare tutte le cose in cui erano diverse; invidia perché anche lei, per una volta, avrebbe voluto essere il sole, perché nessuno le aveva mai chiesto se preferisse davvero la notte al giorno, il nero ai colori, la solitudine alla compagnia; invidia perché aveva costruito se stessa ricalcando il negativo della sua immagine, solo per sfuggire alle morse dei paragoni che, comunque, c’erano stati lo stesso.
Invidia perché sua sorella non l’aveva tradita neanche alla fine, con un coltello piantato in pancia e gli occhi di chi non l’aveva aiutata davanti ai propri. Invidia perché lei non avrebbe fatto lo stesso.
E invidia perché era maledettamente buona e in quel maledetto mondo non c’era una sola maledetta persona, oltre lei, che trovasse la sua bontà un motivo maledettamente sufficiente per odiarla.
La testa le gira, la Morte depriva l’aria d’ossigeno sempre più e la gola si chiude e si apre convulsa attorno ai suoi respiri.
« Le hai rubato la vita, » constata, asciutta, l’Ombra che sta prosciugando la sua linfa vitale. « In tutti i sensi. Hai preso il suo nome, il suo futuro – ti sei presentata al casting indetto da quell’agenzia di moda di cui tua sorella aveva parlato in continuazione per un mese. Sei diventata tutto ciò che lei non ha potuto essere, vendicandoti di quello che invece era stata. Hai assunto i suoi modi di fare e di pensare, ti sei impadronita dei suoi sogni, hai emulato tutte le sue apparenze, ma ti sei trasformata soltanto nella sua copia artefatta, un facsimile palesemente falso, un guscio sterile e vuoto, un contenitore di finzioni alle quali tu stessa hai finito per credere, » conclude, formulando un’efficace quanto impietosa sinossi della sua storia.
« Non… Misa Misa… se lei non fosse mai esistita, questa sarebbe stata… la mia vita… » mormora, dondolandosi avanti e indietro con il busto piegato sulle ginocchia.
« Personalmente, amo avvalermi di un motto, formulato in lunghe ere di onorata carriera: giudica la vita di una persona dal modo in cui muore. Tu stai morendo perché sei troppo vigliacca per continuare a vivere, talmente vigliacca da issare a vessillo della tua causa il nobile nome dell’amore, perciò sì, temo che questa sarebbe stata davvero la tua vita… ma non quella di tua sorella, » conclude, dura come il granito.
Misa si volta di scatto e, con tutta la voce di cui è ancora capace, urla: « Perché? Lei è sempre stata più stupida, non sarebbe mai arrivata dove sono arrivata io. Io… io ho fatto meglio di quanto avrebbe potuto fare lei! Ho fatto meglio! » La sua voce s’indurisce nell’ultima frase, trasformandosi in parole di pietra che, in quanto tale, non sono in grado di scalfire le ombre né tantomeno quella contro cui sono state scagliate. « Ho fatto meglio, » ripete.
« Può darsi, » le concede, ma il tono ferino con cui lo fa induce la sua immaginazione a disegnare un ghigno brutale nel buio sotto il suo cappuccio. « Ma no, che dico, sicuramente. Hai fatto persino meglio di me. Tua sorella è solo il primo nome nella lunghissima lista delle persone che sono morte a causa tua e alcune non hai nemmeno dovuto ucciderle di tuo pugno, mi sbaglio? Jealous, Rem… incredibile, hai fatto fuori persino un paio dei miei rappresentanti. Oh, ma non illuderti, sciocchina, io non m’innamorerò di te. »
La risata della Morte ha il suono di un’eco proveniente dal baratro stesso del nulla ed è raccapricciante. La pelle le si accappona e i muscoli sotto di essa hanno uno spasmo.
« Loro erano diversi, » protesta, con i palmi delle mani pressati sul pavimento freddo. « Loro erano diversi, loro mi amavano! »
« Amavano tua sorella, il surrogato di lei che tu sei diventata. Ti avrebbero amata lo stesso se invece di Misa Misa fossi stata Seiko? Se fossi stata te stessa… »
« Basta! Zitta! »
« Loro avrebbero dato la vita per Misa. Avrebbero assistito impassibili alla tua morte attraverso la fessura di un armadio, ti avrebbero guardata sanguinare e morire, con un coltello affondato nella pancia. »
« Non è vero, smettila! » urla, coprendosi le orecchie con le mani.
« Sei talmente assuefatta dalla tua finzione da non riuscire a smettere di recitare. Sei come un’attrice che ha cominciato a vivere nei panni del personaggio che interpreta, dimenticandosi come vestire i propri. Sei falsa. »
« Perché mi dici questo? Cosa diavolo te ne importa? Tu devi solo accompagnarmi nel nulla o in qualunque altro posto ci sia dopo! » strilla, cercando di affondare le mani nell’Ombra che, tuttavia, si dissolve come fumo attorno alle sue braccia, ricomponendosi immediatamente solo quando le ritrae.
« E questo dove l’hai letto, di grazia? C’è un codice comportamentale sul quale non sono stata aggiornata? » chiede, serafica, con la voce iniettata di veleno. « Credi davvero che qualcuno un giorno si scomoderà ad allestire un tribunale dei Cieli per giudicare tutti uno a uno? Spiacente di deluderti, non c’è ancora abbastanza personale per un’operazione di tale portata, ecco perché l’ingrato compito di indurre i morenti a farsi un esame di coscienza è stato affibbiato a me, » dice, amichevole come un barracuda. « Devo essere sincera, il fatto che tu sia ancora più viva che morta mi sta complicando il compito. Sono abituata a trattare con soggetti meno vivaci, non so se mi spiego. Quindi, cosa ne dici di andare subito al dunque? Non siamo nemmeno arrivate alla parte migliore: Light. »
« Misa Misa amava Light, » afferma, con convinzione, aggrottando le sopracciglia.
« Non ho particolare dimestichezza con l’argomento, ma non ne dubito, Seiko. »
La protesta suscitata automaticamente da quel nome viene troncata sulle labbra di Misa dalla Morte, che prosegue insinuante come un serpente a sonagli: « In principio era stato naturale fingere di amarlo, no? Misa lo avrebbe fatto, Misa era talmente sciocca e ingenua che non ci pensava due volte prima di chiamare “amore” l’attrazione verso un ragazzo carino. Avevi sempre detestato la sua superficialità, quella stessa frivolezza che poi hai imitato, fino ad assimilarla completamente. »
« Io non fingevo di amare Light. »
« È una delle poche cose nelle quali, probabilmente, sei davvero sincera, devo concedertelo. Ti sei innamorata di lui non appena hai capito che lui non avrebbe mai amato Misa. Era la prima persona al mondo, oltre te, che si fosse dimostrata immune, se non addirittura intollerante, al fascino di tua sorella. Misa a Light non piaceva. Ecco perché Light piaceva a Seiko. Mai, mai, in nessun caso, Light avrebbe ricambiato i sentimenti di Misa, tu lo sapevi, non sei mai stata abbastanza stupida da non capirlo, e poco importava che Misa fossi tu stessa, perlomeno all’inizio. Lui la odiava. Per una volta qualcuno condivideva i tuoi sentimenti e alimentare la sua insofferenza, in un modo malato e perverso, ti rendeva felice. Nessun’altra persona, altrimenti, avrebbe accettato di vendere la propria vita a qualcuno che non sarebbe mai stato in grado di provare neanche della simpatia nei suoi confronti. »
Dei singhiozzi cominciano a scuotere il corpo di Misa, le cui spalle si alzano e abbassano seguendone il ritmo.
« Io lo amavo davvero. Lo amavo. Lui non lo capiva, ma a me non interessava, mi andava bene lo stesso, » dice, smozzicando le parole nel pianto. « Me ne sarei innamorata comunque. Mia sorella non c’entrava, era solo una parte. Lui era davvero… davvero… davvero… l’uomo che Seiko avrebbe amato. » La frase termina frastagliata nei gemiti e nei respiri interrotti che fuoriescono rauchi dalla sua gola.
Per alcuni istanti, il suono dei singhiozzi e dei rantolii ansanti riempie la stanza, impregnando l’aria stanca e viziata.
La Morte incombe sul piccolo corpo accovacciato ai suoi piedi e le volute d’ombra si snodano e articolano in morbide spirali attorno alla loro madre.
« Poi hai capito. » L’affermazione resta sospesa nell’aria un paio d’istanti, gravando sul capo di Misa come il montante superiore di una ghigliottina. « Lui non ti amava, è vero, ma non era la personalità di tua sorella a impedirgli di provare la benché minima stima nei tuoi confronti. Non era Misa ciò che odiava di te. Era Seiko. »
Misa sgrana gli occhi e abbassa le mani che prima le coprivano il volto, incredula.
« C-cosa… no-non dire… »
« Misa era una brava persona. Non avrebbe fatto la millesima parte delle cose che tu hai commesso e, benché lo sapessi, non sei mai stata in grado di imitarla fino in fondo. C’è sempre stato un residuo, una scheggia, un frammento della vera te stessa, incastrato sul fondo, nei recessi di quella personalità di cui ti eri bardata – quel vestito che ti copriva il corpo senza riempirlo. Eccetto che per un’unica parte, involontariamente sfuggita alla tua purga: il seme del male che contaminava quell’abito di bontà, macchiandone il candore. Hai capito di cosa sto parlando? » domanda, accompagnando quelle parole brutali con tono carezzevole.
« Io l’ho fatto solo per lui. » La voce è tesa, tremante come una corda di violino stonata.
« Hai ucciso in nome di un amore nel quale eri tu l’unica a credere. Hai ucciso milioni di persone, milioni di persone, senza alcuna crisi di coscienza. Scrivevi i loro nomi sul quaderno con la stessa flemma che avresti avuto nello stilare la lista della spesa. »
« Non erano innocenti! » strilla, alzandosi in piedi per fronteggiare l’Ombra che, tuttavia, continua a troneggiare sulla sua figura. Le ginocchia dolgono, ormai anchilosate nella posizione precedente. Lo sguardo di Misa affonda nel volto buio e imperscrutabile della Morte, ma il suo intero corpo sembra essere schiacciato dall’inesorabilità della sua presenza.
« Non lo eri neanche tu, » constata, freddamente. « Lui ti detestava perché eri un’assassina, di un livello persino più spregevole delle persone che intendeva eliminare. Eri un’infezione, eri sporca, eri malvagia. Eri un suo nemico. Lui non odiava l’innocenza di Misa, odiava la pochezza, la viltà e l’abiezione di Seiko. Odiava te. »
Il viso di Misa s’irrigidisce, assumendo un’espressione dura, di pietra.
« Non è vero! Non è vero, tu non ne sai niente, » soffia, come se anche la sua gabbia toracica fosse talmente contratta da impedirle di respirare. « Noi lo stavamo facendo per una giusta causa. »
« Lui lo stava facendo per una giusta causa, » la corregge. « O, perlomeno, una causa nella quale credeva, una causa alla quale aveva votato se stesso e la propria vita. A te importava solo di stargli accanto e i suoi ideali erano solo la cornice del quadro, un elemento a margine. Light aveva sposato una missione e tu speravi di sposare lui. È per questo che ti ha odiata fin dal primo istante: eri già un’assassina. »
« Ma io l’ho fatto per incontrarlo! »
« Appunto. »
La luce proveniente dalla schermata grigia del televisore, come quelle che si vedono quando termina il nastro di una videocassetta, crea netti e affilati contrasti nella stanza.
« Appunto, » ripete, asciutta. « E non trovi che sia ironico? Tu sei molto più biasimabile di Light, sei stata certamente più disumana. Hai ucciso con la freddezza di un automa, con la leggerezza e lo stesso vuoto sentimento che avrebbe potuto suscitarti un pomeriggio di shopping. Sei peggiore delle persone che hai giustiziato. Eppure è ironico, dicevo. »
L’alito cadaverico le accarezza il viso, ungendo la pelle del suo tanfo di morte. Misa si ritrae, come se la sua carne potesse putrefarsi al solo tocco di quel fiato.
« Light è morto, e tu no, » dice l’Ombra, avanzando di un passo. Misa indietreggia, facendo un debole cenno di diniego con la testa.
« Misa è morta, e tu no. »
« Smettila! » guaisce, mentre urta con le spalle il mobile della televisione. L’elettricità emanata dallo schermo formicola ora contro i palmi delle sue mani.
« Jealous è morto, e tu no, » la Morte prosegue implacabile la sua accusa, indifferente alle sue preghiere. « Rem è morta, e tu no. Devo continuare? »
Misa scuote il capo, serrando le palpebre e coprendosi ancora le orecchie con le mani.
« Basta… » rantola. « Basta! »
Misa si svincola dalla sua morsa e sguscia velocemente, affrettandosi a interporre una nuova distanza tra sé e l’Ombra.
« Infine hai decretato la tua morte in nome di quello stesso stupido amore. »
« Zitta! Non è stupido! Io lo amavo davvero! » Misa afferra un vaso dal mobile della parete attrezzata e lo scaglia contro l’Ombra, attraversandola senza, ovviamente, scalfirla. L’oggetto s’infrange sulla parete retrostante, in un’esplosione di frammenti di vetro, acqua putrida e fiori appassiti.
« Hai vanificato tutti i sacrifici che sono stati compiuti per la tua salvezza. Hai insultato la memoria di chi è morto per te. »
Le parole sembrano moltiplicarsi, come un’immagine in una stanza dalle pareti di specchi, e gli echi si ramificano in mille direzioni diverse, rimbalzandole attorno. Ora è la voce di Light, ora quella di Rem, ora quella di sua sorella, che si rincorrono da un luogo all’altro e tessono tele invisibili di onde sonore, intrappolandola.
« E per cosa? Per cosa lo hai fatto? Per Light? »
Per cosa, per cosa, per cosa? Per Light, per cosa? Per Light? Per Light? Per cosa?
Un portaritratto fende l’aria e colpisce una mensola sulla parete opposta, urtando ciò che era posato sopra di esso. Gli oggetti piovono dai bordi del ripiano e picchiano per terra, uno dopo l’altro, mentre lo squarcio nella veste dell’Ombra si rimargina, come una ferita senza sangue.
« Eppure hai paura. Non è vero? Hai paura, hai una maledetta paura di morire. »
Hai paura, hai paura, hai paura.
La voce di Light danza attorno alle sue orecchie, cantilenandole quel ritornello.
« No! » urla, afferrando oggetti alla cieca per scagliarli verso l’imperturbabile Ombra. « No! No! No! »
« Hai deciso di farlo per Light, perché la vita è diventata insostenibile senza di lui, ma non avevi considerato questo, vero? Sei un’infima, piccola, insignificante umana e hai paura. Hai governato tutte le tue emozioni, hai plasmato la tua personalità, hai fatto della finzione il tuo mestiere, ma, attricetta da quattro soldi, non puoi dominare la paura. Stai fallendo all’ultimo atto, il copione non prevedeva che tu piangessi e strillassi, non c’era scritto, mi sbaglio? »
Infima, piccola, insignificante, attricetta da quattro soldi, motteggiano le voci tutte in coro, ronzandole intorno come mosche.
Tutti i soprammobili del ripiano vengono scaraventati per terra, con rabbia. Alcuni colpiscono il dorso dei suoi piedi, altri s’infrangono in mille schegge sul pavimento che schizzano in ogni dove, graffiando l’aria e la pelle delle sue caviglie.
Misa urla, lo strazio le sfigura il viso, contorto nell’espressione del pianto, e le lacrime bagnano nuovamente le sue guance arrossate, sulle quali la stanchezza ha inciso i propri segni profondi.
« Così non rendi orgoglioso Light, » cantilena, con voce canzonatoria e insidiosa, la Morte.
« Basta! »
« Se frigni in questo modo gli fai solo un torto. Un altro. »
« Stai zitta! Stai zitta, basta! »
« Se Light potesse vederti… »
« Ti ho detto di stare zitta! » urla.
Le fenditure di luce sul pavimento hanno cominciato a tingersi di tonalità sul rossiccio e sembrano sangue traboccante da ferite incise nell’aria. Presto il sole tramonterà e il buio scivolerà inesorabile, come un sipario nero su un palcoscenico.
È l’ultima luce del giorno, l’ultima della sua vita.
« Se Light potesse vederti sarebbe disgustato dal tuo comportamento. Tu stessa vacilli nella tua decisione, sebbene sia ormai irrevocabile, » prosegue, derisoria. « Non sai nemmeno onorarlo con l’amore che tanto decanti. »
Misa dischiude le labbra, ma non ne esce che un alito muto, come se le parole si fossero incastrate a metà gola.
Colta da un’improvvisa intuizione, si scaglia verso la finestra dalle cui tapparelle trapelano gli squarci di luce e si aggrappa con entrambe le mani alla corda della serranda, cominciando a tirare con strattoni rabbiosi e disperati.
Una risata tetramente allegra solletica le sue orecchie. « Vedo che mi stai mettendo alla porta. Beh, manca poco più di un’ora al nostro appuntamento, ti raccomando di non mancare. Non transigo in fatto di puntualità. »
La luce rosata inonda la stanza, affluisce con irruenza dalle imposte spalancate e tinge ogni cosa del proprio chiarore.
« Ti accorgerai di quanto è stata mera la tua vita, » sentenzia in quel momento la voce alle sue spalle, emettendo la sua predizione con tono grave.
L’attimo dopo, una violenta corrente d’aria, erompendo dalla stanza verso la finestra, la investe.
Oppure no. No, te ne sei già accorta.
Le parole tuonano nella sua testa, urlate dal vento. Misa viene sbilanciata in avanti, col busto proteso sul davanzale, mentre la folata impetuosa indugia un istante sopra di lei, intenzionata a risucchiare l’aria dai suoi polmoni come le ombre dalla stanza.
L’attimo dopo, con uno strappo deciso, attraversa veemente il suo corpo e infine si dissolve in una nube di fumo a un palmo dal suo naso.
Misa, sporta oltre il bordo della finestra, boccheggia. Il freddo della sera gela improvviso le scie di lacrime sulle sue guance, facendole bruciare come stalattiti incastonate nella pelle, forse perché la consapevolezza che presto non proverà più nulla amplifica in maniera quasi dolorosa ogni sensazione. L’aria intrisa dello smog cittadino invade le sue vie respiratorie, cospargendole del proprio putridume untuoso, mentre satura i suoi alveoli come palloncini in procinto di scoppiare.
Probabilmente non mancano che pochi minuti; magari anche meno. Magari succederà adesso, o l’attimo subito dopo di adesso, o l’istante che seguirà all’ultima sillaba della frase, o appena finirà di contare fino a tre: uno, due e tre.
Niente. Magari fino a dieci?
Sul serio, chissà quanti secondi mancano. Non può essere certa di avere ancora a disposizione dei minuti, né tantomeno delle ore, ma i secondi, almeno un paio di secondi, quelli li deve avere per forza.
Potrebbe cercare un orologio con tutti gli ingranaggi ancora funzionanti e ottenere una misura esatta del tempo che le resta, ma non lo farà. In questo modo può ancora illudersi che ci sia qualcosa d’inaspettato, di non stare facendo un conto alla rovescia con i “tic tac” delle lancette in attesa del fatidico zero. Un po’ come l’ultimo dell’anno, appena prima della mezzanotte, solo che non sorgerà mai più nessuna alba e neanche un nuovo primo gennaio, e la fine ha davvero il sapore irrevocabile delle cose che se ne vanno per sempre.
La sua vita sta per finire. Inderogabilmente. Nessuna possibilità di revoca, nessun “però”, nessun “se”, nessun “forse”. Solo un enorme e gigantesco “mai”.
Mai più.
Misa si ritrae lentamente e si volta, vacillando instabile sulle proprie gambe.
Il centro della stanza è rivestito di cocci rotti e oggetti che, non potendosi frantumare, hanno riportato solo qualche lieve ammaccatura. Il liquido denso e ambrato, fuoriuscito dalla bottiglia dell’alcolico che giace riversa poco più in là, si è rappreso sul pavimento, amalgamandosi alla polvere e alla sporcizia abbondanti. Dalla cucina proviene ancora il tedioso “plic plic” del lavello, mentre una cornacchia gracida in lontananza e i motori delle macchine rombano dalla strada sulla quale si affaccia il modesto appartamento.
Improvvisamente, immersa nella luce calda del giorno che declina verso ovest, attorniata dalle cose che non muteranno di una virgola neanche dopo che lei se ne sarà andata, Misa ha una percezione dolorosamente vivida della propria impotenza. Le perdite d’acqua del lavandino non si attenueranno e le gocce continueranno a fare “plic plic” sul lavello, il tappeto di cocci rotti ricoprirà il pavimento almeno finché qualcuno non deciderà di portare via le sue cose e, possibilmente, darà una spazzata per terra, le macchine non cesseranno certo di trafficare per strada, le cornacchie planeranno morbide sull’orizzonte emettendo il loro malinconico verso, il sole sorgerà e tramonterà ancora e ancora e ancora, inarrestabile, mentre luce e buio, giorno e notte, si alterneranno ogni dodici ore, come è sempre stato e sempre continuerà ad essere, tingendo la consunta carta da parati dei loro colori. E mancherà solo lei, in piedi mentre volge le spalle alla finestra e proietta la propria ombra sul pavimento, con la luce dorata che ricalca i contorni della sua figura e il suono impercettibile del respiro che entra ed esce dalle sue narici, a testimonianza del fatto che è ancora viva, come circa sei miliardi di altre persone là fuori. E, come un numero infinitamente più grande di altra gente che l’ha preceduta sotto terra, presto sarà morta, ma la Terra non compirà un solo giro in meno del previsto.
Può quasi sentirla, quella voce scabra e spoglia d’ogni emozione che ormai si è scavata una nicchia nella sua mente, come una fossa nel cimitero. “La tua esistenza valeva quanto le altre. Ora che non vivi più il mondo continuerà a girare”, dice, prendendosi beffe di lei, ma Misa non ha più le forze per reagire e dichiara la resa.
Vorrebbe concentrarsi su qualcosa di bello, adesso, qualcosa a cui valga la pena tributare i suoi ultimi pensieri. La sua mente continua a correre verso Light, come le braccia affannate di un naufrago annaspano in direzione dell’unico pezzo di legno rimasto a galleggiare sull’acqua, ma il suo ricordo continua a sfuggirle e la corrente trascina sempre più in là il sospirato appiglio, ogni volta che le dita sono a un tanto così dall’afferrarlo.
Light non c’è e non ci sarà nemmeno alla fine del tunnel.
Eccetto che per quella fitta all’altezza del petto, alla quale in fondo dovrebbe essere abituata, ormai, ammetterlo fa meno male del previst—
Tutto d’un tratto, il suo cuore perde un battito.
Morire per amore è…
L’ombra dell’incoscienza scivola sugli occhi di Misa, che divengono vacui, come biglie di vetro.
…solo un altro fottuto modo di morire.

E non resta altro che annegare, scivolare verso il fondo della gola del buio, e lasciarsi ingoiare.





- Amane Seiko -
Suicidio
14 Febbraio 2011
Ore 17:32
Fa una doccia, si trucca, indossa il suo abito migliore, dopodiché esce da casa e prende la metropolitana alla stazione di Shibuya, linea 3, ore 16:22. Scende ad Asakusa, si reca al centro commerciale Kappabashi, sale sul terrazzo e scavalca la ringhiera. Si toglie la vita gettandosi dal cornicione.












Valentine is done
(Il giorno di San Valentino è finito)*



























































*frase tratta dal testo della canzone più volte citata nel corso della one-shot








...e continua a blaterare NOTE

(1) Come spero sia chiaro, Misa si è uccisa scrivendo il giorno, l'ora e i dettagli del proprio suicidio sul frammento di Death Note. Questo è avvenuto un anno prima dal giorno della sua morte effettiva e... uhm, non sapevo se una cosa del genere fosse possibile. Ricordavo l'esistenza di una regola che ponesse un limite al tempo che può passare dal momento in cui si scrive il nome alla data della morte, perciò mi sono spulciata tutte le regole del Death Note, ma non ho trovato nulla T__T
Solo quella dei 23 giorni, che però si riferisce alle morti per malattia. Beh, nel caso avessi clamorosamente cippato, mi scuso, chiedo venia e spero di essere assolta XD

(2) Perché mi son inventata la storia della sorella? Domanda legittima, ma è possibile passare alla successiva? XD Bakosità a parte, mi serviva un espediente narrativo per giustificare la vuotezza di Misa. Sarò forse l’unica a crederlo, ma ho sempre considerato Misa una folle, persino più pazza di Light, che perlomeno era mosso dai suoi ideali. Misa è così… di plastica. Ogni sua emozione, reazione, azione è sempre esasperatamente semplice, priva di quelle sfaccettature che sono proprie della psiche umana. Sembra falsa come un personaggio recitato male. È stato quest’ultimo pensiero a far incontrare le mie uniche due sinapsi, che hanno illuminato Pablo il Neurone come una lampadina. E ho pensato: eureka! Misa è così perché di fatto sta fingendo! È un’attrice che ha dimenticato come fare ad essere se stessa e quindi veste i panni del suo personaggio senza tuttavia riuscire più a provare emozioni autentiche. Il personaggio c’era già, l’attrice anche, ma bisognava inventare il movente. Questa fu la genesi XD

(3) Spero che la storyline non risulti troppo confusa. Dopo la sconcertante (ma anche no) rivelazione che Misa (quella che noi conosciamo) era in realtà Seiko, sono stata indecisa sul sostituire il nome “Misa” con quello anagraficamente corretto, ma alla fine ho deciso di non farlo, un po’ per non generare confusione, un po’ perché Seiko ormai è Misa a tutti gli effetti.

(4) La canzone che cito più volte nel testo è un po’ datata (1976, suggerisce Wikipedia), si intitola "Don't fear the reaper" ed è dei Blue Oyster Cult, ma nel momento in cui scrivevo avevo in mente la cover degli HIM – che invece sono finlandesi, ecco perché Misa (quella vera) dice: “e non è neanche americana”. La cover è del 1997, Misa (quella vera) è morta nel 2001… tutto sommato non è così improbabile che la conoscesse, no? Va beh, dai, passatemela! In effetti, non sono nemmeno troppo persuasa del fatto che un tipo come Misa (quella vera, aridaje) ascoltasse questo genere di musica, ma il titolo centrava troppo il tema del contest (Non temere il mietitore!) e il testo era azzeccatissimo per Misa (quella vera e quella falsa). Insomma, passami anche questa :D

(5) Misa e Seiko, nei flashbacks, hanno i capelli neri. Non sono un’inferma mentale *cough cough* beh, perlomeno concedetemi il beneficio del dubbio! XD Scherzi a parte, ho sempre fermamente creduto che i capelli di Misa fossero tinti, perché nell’anime, quando Jealous la salva dall’aggressione del maniaco, li ha visibilmente scuri. D’altra parte, anche il suo colore di occhi è castano, ma spesso indossa le lentine colorate azzurre.

(6) Kikuchi Kan era uno scrittore giapponese, ma non conoscendo le sue opere non vi so dire in merito a cosa scriveva. Mea culpa. Rinko Kikuchi invece è un’attrice, ecco perché Misa (quella vera, ugh) si confonde.

(7) Giusto perché sono pignola. La linea 3 della stazione di Shibuya porta effettivamente ad Asakusa, mi pare. Se non è così, beh, polpette!

(8) Giusto perché sono pignola II. Il 14 febbraio 2010 a Tokyo il sole è tramontato alle 17:32, stando ai calcoli di questo sito (http://www.sunrisesunset.com/) che ho consultato il giorno di San Valentino. Quindi ho grossolanamente supposto che l’anno prossimo tramonterà più o meno alla stessa ora – e se così non sarà, beh, mi ripeto… POLPETTE!*


*non chiedetemi il perché delle polpette.





A questo punto, non mi resta che ringraziare coloro che sono arrivati fin qui (scorrere la pagina con la scrollbar non vale, furfanti!). È già tanto, davvero *_*

Abbracci poliposissimi a tutti!
Fissie
   
 
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