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Autore: Whatsername    26/07/2005    10 recensioni
A volte la parte più difficile dell'andare avanti è riuscire a non voltarsi indietro.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ginny Weasley, Harry Potter, Hermione Granger
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IF YOU SEE HER, SAY HELLO

IF YOU SEE HER, SAY HELLO



We had a falling-out, like lovers often will
And to think of how she left that night, it still brings me a chill
And though our separation, it pierced me to the heart
She still lives inside of me, we've never been apart.



La neve cadeva fitta, invadendo le strade e i marciapiedi, e le auto facevano fatica a procedere. I rari passanti si stringevano nei cappotti, lo sguardo fisso a terra nel tentativo di trovare appoggi sicuri per i propri piedi. Harry uscì dal supermercato, e si fermò un attimo sulla soglia, appena oltre le grandi porte scorrevoli: alzò lo sguardo, e osservò i fiocchi turbinare, sospinti dal vento. Il cielo scuro aveva una curiosa sfumatura arancione, che lo rendeva strano, quasi alieno: probabilmente erano i riflessi dei lampioni a dargli quell’impressione, perché il cielo a Hogwarts, di sera, non aveva mai quel colore, nemmeno nel corso della tormenta più violenta.
Scosse la testa con forza, infastidito, mentre finiva di infilarsi i guanti per proteggersi le mani dal freddo. La strada verso casa non era lunga, ma la temperatura era talmente bassa che per congelargli le dita sarebbero bastati pochi metri. Raccolse le buste della spesa da terra, una per parte, e si avviò con cautela lungo il marciapiede, che – nei punti in cui la neve non era accumulata in piccoli monticelli dall’aria innocua – riluceva sinistro al bagliore dei fari delle auto di passaggio. Si augurò di non scivolare su qualche infida lastra di ghiaccio, perché in quel caso gran parte delle sue provviste sarebbero andate perse.
Procedendo con lentezza, cercò di scacciare i pensieri che gli affollavano la mente, ma senza successo. D’altra parte, non era una grande novità: era colpa della neve, e del suo essere uno sciocco sentimentale. L’inverno e le nevicate gli riportavano sempre alla memoria ricordi che avrebbe preferito restassero seppelliti in qualche luogo oscuro e nascosto, dentro di lui: gli sarebbe bastato anche questo, visto che ormai aveva rinunciato a pensare di poterli cancellare per sempre. Non era abbastanza forte per questo e, per quanto avesse sofferto in maniera indicibile, non lo voleva con forza e determinazione sufficienti.

Dopo una decina di minuti di cammino in quella via trafficata, svoltò in una traversa a destra, e si immerse in un paesaggio che era totalmente l’opposto: era una viuzza tranquilla, i marciapiedi fiancheggiati da villette a schiera, con i giardini coperti di neve e le finestre accese. Man mano che si allontanava dal traffico del centro, i rumori si spensero e tutto precipitò nel silenzio assorto e ovattato che solo la neve sa conferire a qualsiasi luogo la ospiti. Harry continuò a camminare piano, guardandosi intorno, e le luci colorate e i festoni appesi ai balconi e agli alberi gli ricordarono dolorosamente gli addobbi sfarzosi che abbellivano le pareti della Sala Grande e dei corridoi durante le feste di Natale, a Hogwarts. Era come ogni maledetto anno, da allora: non serviva a nulla ripetersi che era solo un momento di sconforto, che sarebbe passato presto col finire delle Feste, e che per il resto dell’anno sarebbe stato capacissimo di cavarsela più che bene. Crederlo non rendeva meno dolorosi i ricordi, meno acuta la nostalgia, meno intenso il bisogno di piangere per sfogare una tristezza che non riusciva a scacciare in nessun modo.

Non sapeva esattamente perché i ricordi tornassero a morderlo con così tanta insistenza proprio nel periodo natalizio: forse perché era un momento dell’anno in cui tutti erano felici e contenti, e gli risultava più difficile mentire a se stesso e convincersi che andava tutto bene, che aveva una vita appagante e che non avrebbe potuto desiderare di meglio. Certo, parecchie delle storie che si raccontava si avvicinavano alla verità: aveva un lavoro che adorava, degli amici, ragazze con cui uscire a bere qualcosa ogni tanto. Il suo incubo era finito già da molti anni: Voldemort era stato sconfitto, e adesso poteva dire di essere, con suo grande sollievo, una persona come tutte le altre. Niente più sacrifici, niente più preoccupazioni, niente più esistenza segnata da un infausto destino. A ricordargli quella parte della sua vita, ormai, restava solo la cicatrice a forma di saetta che gli attraversava la fronte. Ma era davvero il meglio, per lui? Era davvero la vita che aveva sognato da ragazzino, quando desiderava non essere il famoso Harry Potter, quando avrebbe dato qualsiasi cosa per svegliarsi un mattino nei panni di qualsiasi altra persona, tranne che nei suoi?
Quando ci pensava, si rispondeva che sì, probabilmente aveva sognato qualcosa del genere tanti anni addietro, ma era stato prima di arrivare a Hogwarts, e quella parte della sua esistenza per molti anni gli era poi sembrata quasi irreale. Mentre percorreva i corridoi bui e pieni di spifferi, con lo zaino pieno di libri appeso alla spalla e il mantello che gli fluttuava dietro, non pensava minimamente che fino agli undici anni era vissuto come un babbano, e che per i tre mesi estivi doveva tornare a stare dai suoi zii: si sentiva un mago, e adorava esserlo. Mentre sedeva sulle vecchie poltrone bitorzolute della Sala Comune di Grifondoro, davanti al fuoco, a chiacchierare con Ron e Hermione, si sentiva a casa… più di quanto le fosse mai successo in tutta la sua vita.
Hermione... Ron...
I loro volti, che per la maggior parte del tempo restavano chiusi a chiave in quella stanza segreta in fondo al suo cuore, si fecero strada con prepotenza, emergendo dalle tenebre in cui cercava sempre di relegarli. Sentì le lacrime pungere ancora, e stavolta fu più difficile cercare di trattenerle: una gli sfuggì e, dopo aver indugiato un istante appesa alle sue ciglia, gli cadde sulla guancia. La sentì percorrerla, calda, veloce. Non smise di camminare e strinse più saldamente le due buste fra le mani, imponendosi di restare calmo. Tutte quelle sciocchezze non servivano a nessuno: né a loro, né tantomeno a lui. Eppure, non riuscì a togliersi da davanti agli occhi l’immagine di Ron e Hermione, come li ricordava a scuola: passavano la maggior parte del tempo a discutere e a beccarsi, ma si adoravano. Ricordava i pomeriggi passati insieme a Ron, stravaccati sul divano con i libri e i fogli sparsi ovunque intorno, a parlare ininterrottamente di Quidditch invece di studiare, e gli sguardi di disapprovazione di Hermione. Alla fine della giornata, disperati, correvano da lei a pregarla di lasciarli copiare i suoi compiti. Di solito era Ron, con quella faccia da schiaffi che si ritrovava, a farsi avanti per primo: era una vera frana in diverse materie, mentre lui, se solo ne avesse avuto voglia, avrebbe potuto riuscire molto meglio di quanto facesse. Rivide i suoi amici mentre scrivevano, chini sui libri alla luce delle candele: Ron era esasperato, immusonito, Hermione invece aveva un buffo piglio concentrato, che a volte si distorceva in una smorfia simile a un sorriso, quando spostava gli occhi su Ron e notava i suoi capelli, dritti come stecchi a furia di passarci in mezzo le dita.

Arrivò davanti al cancello della sua casetta, buia e coperta di neve, e cercò per l’ennesima volta di concentrarsi su qualcos’altro: la cena che avrebbe preparato, le lezioni che aveva da preparare e i compiti da correggere per le vacanze di Natale. Il DVD che aveva noleggiato già da due giorni e non aveva ancora avuto il tempo di guardare. Posò a terra le buste della spesa, e si frugò in tasca alla ricerca delle chiavi per aprire la serratura del cancello. Le prese in mano, ma era talmente agitato che gli sfuggirono via. Tentò di riprenderle al volo, ma aveva le dita inguainate nei guanti di pelle e la sua presa non fu molto salda: le guardò cadere e affondare nella neve, ai suoi piedi.
"Merda…" imprecò, fra i denti. Si chinò a raccoglierle, ma improvvisamente le immagini gli si confusero davanti agli occhi, lasciandolo stordito. Ci mise qualche secondo a capire che stava piangendo.
Si asciugò nervosamente le lacrime dal viso col dorso della mano inguantata, raccolse le chiavi e tentò di inserire quella giusta nella serratura. Le mani gli tremavano visibilmente, un po’ per il freddo, un po’ per l’agitazione. Che cosa diavolo gli stava succedendo? Spinse la chiave con più forza, ma la serratura non scattò: sembrava congelata o qualcosa di simile. Harry si sentì esasperato: lanciò le chiavi per terra e mollò un pugno al cancello, ottenendo solo di farsi malissimo alla mano e di farlo vibrare come impazzito. Imprecando, si appoggiò con entrambe le mani al metallo incrostato di ghiaccio, cercando di controllarsi. Perché quelle maledette lacrime non volevano saperne di smettere di scendere?
"Posso darti una mano…?"
La voce veniva da un punto imprecisato dietro le sue spalle, e risuonò leggera e chiara nel silenzio innaturale della notte, facendolo trasalire. Si voltò di scatto, e i suoi occhi cercarono la fonte di quel suono nella semioscurità circostante. Non fu difficile individuarla: nel debole chiarore gettato dai lampioni che fiancheggiavano la strada, una figura era ferma a pochi metri da lui. Una donna.
Indossava un lungo mantello scuro e i fiocchi di neve le vorticavano intorno, mentre il vento gelido le faceva volare i lunghi capelli scuri. Harry rimase sena fiato. Senza neanche accorgersene, strinse forte i pugni: talmente forte che rischiò di lacerare il tessuto dei guanti e di ferirsi i palmi, conficcandoci le unghie. Avrebbe voluto fare o dire qualcosa, ma era totalmente inebetito: in quel silenzio ovattato, gli sembrava di riuscire a sentire il battito sordo e accelerato del suo cuore.
La donna si avvicinò, entrando nel cerchio di luce del lampione più vicino. I tratti del suo viso risultarono immediatamente più chiari, ma Harry non aveva bisogno di vederla meglio per capire chi fosse: il suo cuore l' aveva già riconosciuta al primo sguardo, e sapeva di non sbagliarsi. Non la vedeva da dodici anni, ma improvvisamente era come se fossero passati soltanto pochi minuti dall’ultima volta. Non riusciva a parlare, non riusciva a pensare a niente di coerente: poteva solo guardarla, oltre il velo delle lacrime che non riusciva più a trattenere, e cercare di non smettere di respirare.
Lei gli sorrise, un po’ incerta, e si chinò a raccogliere le chiavi che aveva lanciato nella neve. Gliele porse, con gentilezza, e Harry allungò meccanicamente la mano per prenderle. Quando sfiorò la sua, la sentì solida e probabilmente fu questo a convincerlo del tutto di non essere vittima di un’allucinazione: era davvero lei, ed era lì davanti. Cercò di dirle qualcosa, ma il ricordo di come si erano trattati reciprocamente l'ultima volta – le parole orribili che le erano uscite di bocca, e tutto il resto – lo fecero sentire a disagio. La guardò a lungo, perché avrebbe davvero voluto chiarire le cose, ma non sapeva da che parte cominciare.
Lei sembrò capire quello che pensava, perché scosse la testa, senza smettere di sorridere, e allungò le braccia. Avvicinandosi di più, Harry notò che stava piangendo: le lacrime le scivolavano sul viso, lasciando scie argentate che la luce dei lampioni faceva risplendere. Vederla così gli fece male al cuore, e pensò che le dovesse provare più o meno le stesse sensazioni, quando lo guardava.
Lo strinse a sé, passandogli le braccia intorno al collo, e Harry, dapprima riluttante, non poté fare altro che cedere a quel contatto. Si lasciò abbracciare e le appoggiò la guancia i capelli umidi, serrando forte gli occhi. Il suo odore era lo stesso di sempre, e anche il suo corpo non era cambiato di molto, nonostante non fosse più una ragazzina. Ancora incredulo, le serrò le braccia intorno ai fianchi. Quando sentì le sue mani accarezzargli i capelli, con la dolcezza di sempre, non riuscì più a trattenersi, e le lacrime presero a scendergli lungo le guance. Stavolta, però, non era un pianto di disperazione: era incredulo, stordito, ma felice.

Rimasero abbracciati per diversi minuti, sotto la neve che continuava a cadere intorno a loro. La prima a staccarsi fu lei, che cercò di asciugarsi gli occhi prima che potesse vedere in che stato era ridotta… ma aveva dimenticato la difficoltà di muovere le dita agilmente quando erano intrappolate in un paio di guanti invernali.
"Lascia…" sussurrò Harry, dolcemente. Le passò i pollici sugli zigomi, con delicatezza, e ricordò che aveva fatto quel gesto centinaia di altre volte, in passato, quando l’aveva vista piangere per cose ben più stupide, e non aveva mai mancato di consolarla con un abbraccio, o anche solo con una parola gentile.
Aprì la bocca per cercare di dirle quanto gli dispiacesse per tutto quello che era accaduto, ma lei gli posò l’indice sulle labbra, e mormorò:
"Sarà meglio muoverci di qui, prima… ci stiamo trasformando in due statue di ghiaccio."
Harry annuì, senza smettere di fissarla, e si voltò per aprire il cancello, mentre lei raccoglieva una delle sue buste da terra. Dopo un paio di tentativi, riuscì a sbloccare la serratura e, afferrata l'altra borsa, la precedette su per il vialetto. Aprì la porta di casa e la spalancò, accese la luce dell’ingresso. Si voltò a guardarla e la vide ferma sulla soglia, con la busta che le pendeva da una mano, nell’atto di scrollarsi la neve dagli stivali. Gli si strinse il cuore.
Quante altre volte avresti potuto vederla qui, se solo non fossi stata così stupido? Così egoista? Così cieco e così poco comprensivo? pensò, con amarezza. Non voleva davvero dire quello che ti ha detto. Era sconvolta… tutti lo eravate. Pensavate che sfogarvi l’uno contro l’altro vi avrebbe aiutati a soffrire di meno, ma non avete ottenuto altro che rovinarvi la vita a vicenda.
Lei lo guardò e Harry sentì un moto di affetto nei suoi confronti: quel sentimento profondo, sincero e totale che aveva nutrito per lei fin dal primo anno di scuola. Ripensandoci, era come se avesse sempre saputo che avrebbe incontrato una persona come lei, sul suo cammino, fin da bambino: era la sorella che non aveva mai avuto, la persona che più di tutte lo capiva e sapeva consolarlo quando qualcosa andava per il verso sbagliato. Per anni e anni c’era stata, dentro di lui, la confortante certezza che tutto poteva cambiare, sbiadire, tradirlo, ma che lei non l’avrebbe mai lasciato solo… e che qualsiasi cosa fosse successa, avrebbe avuto sempre un posto speciale nel suo cuore. Non era stata poi un’illusione, si disse, visto che erano ancora lì, l’uno di fronte all’altra, dopo tutto quello che era successo.
"Vieni, Hermione…" sussurrò, avvicinandosi a lei e prendendole la busta dalle mani. Le sorrise… il primo sorriso che faceva da giorni. "Preparo la cena, sarai affamata."


"Perché non vuoi lasciare che ti aiuti, Harry?" chiese Hermione, appoggiata allo stipite della porta della cucina con le braccia incrociate sul petto.
"Non ce n’è bisogno, credimi…" Harry, ai fornelli, si voltò a metà e sollevò le sopracciglia, mostrandole il cucchiaio di legno con cui stava sbattendo le uova nel tegame. "Ormai sono diventato un cuoco provetto."
"Oh, posso immaginarlo…" osservò lei, trattenendo a stento una risata.
"A dire la verità, lo ero anche prima" proseguì Harry, mentre tornava a dedicarsi alle uova. "I miei zii, quando stavo da loro, mi facevano preparare da mangiare più che volentieri, e mi punivano se le cose non erano cotte al punto giusto. Ho dovuto imparare al più presto, per riuscire a cavarmela."
"Non nominarmi quegli individui, ti prego…" Hermione fece una smorfia disgustata. "Mi sono sempre chiesta come fosse possibile che gente come quella fosse imparentata con te."
"Già, me lo sono domandato anch’io" fece Harry, sarcastico.
"E soprattutto, mi ha sempre stupita il fatto che fossi cresciuto bene lo stesso…" aggiunse lei.
"Credo sia stata una specie di reazione. Non avrei mai e poi mai voluto essere come mio cugino. Era l’esempio che non volevo seguire."
Harry continuò a sbattere le uova, mentre ripensava agli anni bui passati dai Dursley, al numero 4 di Privet Drive: prima di compiere undici anni, la sua vita era davvero stata un inferno, ma aveva capito quanto soltanto dopo esserne uscito. Prima, era convinto di non meritare un trattamento migliore, forse: non aveva idea di come venissero trattati dagli zii gli altri orfani come lui. Non sapeva che esistono non solo zii affettuosi, ma persino estranei caritatevoli e gentili. Era soltanto un bambino, a quel tempo. Un bambino molto, molto solo.
"Lascia almeno che apparecchi la tavola…"
La voce di Hermione, poco distante dal suo orecchio, lo fece trasalire bruscamente: non l’aveva sentita avvicinarsi. Mollò la presa sul cucchiaio, che cadde a terra, sporcandogli nel frattempo i calzoni di giallo.
"Accidenti…" sussurrò, chinandosi a raccoglierlo.
"Scusami, non credevo di spaventarti così" disse Hermione, un po’ stupita. Ma le veniva da ridere.
"Non è colpa tua." Harry agitò una mano, minimizzante, e tirò fuori un altro cucchiaio, dopo aver lanciato quello sporco nel lavandino. Ricominciò a sbattere le uova. "E’ che quando sei abituato a stare per la maggior parte del tempo da solo, a volte ti scordi di quello che ti circonda. Tutto qui."
"Già." Hermione passò le dita sul bordo smaltato del frigorifero, e lo guardò incerta. "E immagino che tu… beh, che tu stia spesso da solo, vero?"
Harry le lanciò un’occhiata un po’ stupita.
"Quasi sempre, in realtà" disse, sottovoce. Aveva distolto quasi subito gli occhi dal viso di lei, perché il suo sguardo indagatore lo metteva a disagio. "Non vedo molta gente. Non di frequente, insomma."
"Lo immaginavo…" Hermione sospirò. "Harry, non dovresti…"
"Senti, ho pensato che c’è una cosa che potresti fare…" la interruppe Harry, sorridendo. Improvvisamente, aveva capito dove voleva arrivare l’amica, e non era certo di essere pronto per parlare della sua vita, in quel momento. Né tantomeno del passato. Non ancora. "Che ne dici di apparecchiare la tavola?"
Hermione esitò soltanto un attimo, fissandolo, poi annuì.
"Certo…" sospirò, rassegnata. Lo conosceva abbastanza per sapere che, data la sua testardaggine, insistere in quel momento sarebbe stato completamente inutile. Harry si sentì sollevato. "Dov’è la tovaglia? E le stoviglie?"
Le mostrò dove poteva trovare tutto, e le indicò il tavolo del salotto, visibile attraverso la porta della cucina, al dilà dell’ingresso: avrebbero mangiato lì, perché il fatto che lui avesse qualcuno a cena era un evento da festeggiare.


Il fuoco scoppiettava nel camino. Avevano finito di cenare un paio d’ore prima, e si erano trasferiti sul divano per parlare, come ai vecchi tempi. Erano stati discorsi futili, niente di doloroso o di troppo coinvolgente: aveva parlato quasi sempre Hermione, e Harry l’aveva ascoltata volentieri, apprezzando la volontà di metterlo a suo agio. Gli aveva raccontato del suo lavoro di insegnate di Aritmanzia a Hogwarts, degli aneddoti divertenti sugli studenti e sui nuovi professori. Della sua famiglia, e dei suoi genitori che festeggiavano il trentacinquesimo anniversario di matrimonio. Harry aveva cominciato a pensare che cosa avrebbe potuto raccontarle, quando fosse venuto il suo turno, ma non gli venne in mente niente di interessante. Non era convinto che Hermione avrebbe davvero voluto sapere la verità sulla vita che conduceva attualmente.
Si era perso ad osservare le fiamme già da diversi minuti. Hermione aveva smesso di parlare, ma anche la sua sola presenza era piacevolmente rassicurante. Aveva scordato come ci si sentisse a stare con qualcuno per cui si prova un affetto sincero.
"Non potrai nasconderti per sempre, Harry…" la voce di lei, sommessa, gli arrivò all’orecchio.
"Cosa?" si riscosse, e spostò gli occhi su di lei, con aria interrogativa.
Vide che lo stava osservando con un’aria strana. Sorrideva, incerta, e allungò un braccio sulla spalliera del divano, gli sfiorò i capelli sulla tempia con la punta delle dita. Un gesto affettuoso che avrebbe potuto fare una madre, una sorella, o una vecchia amica. Qualcosa a cui non era più abituato.
"Avanti, Harry."
La guardò meglio, e solo allora notò quanto fosse triste lo sguardo nei suoi occhi. Capì che non avrebbe potuto sottrarsi più a lungo al discorso che era nell’aria già da diverso tempo.
"Non credi che sia giunto il momento di parlarne?"
Spostò gli occhi sulla finestra, cambiando posizione sul divano. Si sentiva agitato, stranamente nervoso. Al dilà dei vetri, i fiocchi turbinavano sospinti dal vento.
"Di cosa vorresti parlare, esattamente?" domandò, senza smettere di fissare la neve che emergeva dall’oscurità. Il suo tono era più ostile di quanto volesse, e se ne dispiacque.
"Lo sai bene." Hermione non parve farci caso, forse perché lo conosceva così bene e si era aspettata una reazione del genere. "Non possiamo continuare a nasconderci in eterno, non ti pare?"
"Nasconderci." Gli sfuggì un sorriso sarcastico. Giocherellò con le nappe di un cuscino, aggrottando la fronte. "Non è questo il punto, Hermione."
"Non lo è…?" lei gli accarezzò un braccio, un altro di quei gesti che da tanto tempo nessuno gli rivolgeva più. Non senza un secondo fine, in ogni caso. "A me pare che tutti noi non abbiamo fatto altro, in questi ultimi dodici anni. Da quando Ron è…"
"Non dirlo!" esclamò Harry, seccamente.
Hermione trasalì, e ritirò il braccio, spaventata.
"Scusami…" mormorò lui, scuotendo la testa. Scoprì che adesso gli era difficile guardarla in faccia, non sapeva se per quello che stava per dire o per colpa di quel ridicolo scatto. Non credeva che il timore di chiamare le cose con il loro nome potesse essere ancora così vivo.
Si alzò e camminò verso la finestra, in silenzio. Si appoggiò al davanzale, e fissò il buio oltre i vetri.
"Mi dispiace" disse, sottovoce.
"Lo so" sussurrò Hermione, con un sospiro. "Neanche per me è facile, Harry. Il fatto che io riesca a parlarne più facilmente di te o di Ginny non significa che mi sia dimenticata di lui. Ron era… era tutto, per me. Era la mia vita."
Non fu il sentir parlare al passato del suo vecchio amico a colpirlo. Fu l’altro nome, messo lì quasi per caso, a procurargli una stretta dolorosa al cuore, e immediatamente la rivide con gli occhi della mente: i lunghi capelli rossi, gli occhi grandi e scuri, il naso cosparso di lentiggini che le dava l’aria di un’eterna ragazzina. Il sorriso aperto e sincero, che si trasformava in un’espressione seducente ogni volta che voleva convincerlo a fare qualcosa che detestava… non era quasi mai riuscito a resisterle, ed era ben contento di cedere volontariamente dandole l’illusione di averlo davvero convinto, solo per vedere la malcelata espressione di trionfo illuminarle il viso.
Ricordò un giorno di qualche settimana prima: la neve non aveva ancora cominciato a cadere, e i marciapiedi erano lucidi di pioggia, le strade affollate di persone impegnate nelle compere di Natale. L’aveva vista all’improvviso, dalla parte opposta della via: camminava accanto a un uomo che non conosceva, probabilmente il suo compagno. Si tenevano a braccetto, ma gli era sembrato che ci fosse qualcosa che non andava: come una lieve stonatura, una distanza impalpabile. Si era chiesto se fossero felici insieme, ma era una domanda destinata a restare senza risposta. Si era fermato sotto la pioggia, incapace di staccarle gli occhi di dosso. L’uomo che era con lei si era fermato a parlare con un passante, probabilmente si conoscevano, e in quel momento lei aveva alzato lo sguardo, incrociando il suo.
Harry si era sentito afferrare da mani forti e invisibili, e trascinare indietro nel tempo, a quando tutto era diverso. A quando erano felici, insieme. Nello spazio di un secondo gli erano passate davanti agli occhi mille immagini care e dolorose: gli anni di scuola, le partire di Quidditch, il tempo che avevano passato vivendo insieme e progettando di sposarsi, una volta che quella brutta storia fosse finalmente stata conclusa. Non erano pensieri tanto diversi da quelli che lo assillavano di solito, soprattutto la sera quando andava a letto e restava sdraiato nel buio, a fissare il soffitto e ad ascoltare i rumori segreti della casa immersa nel silenzio. Ma averla lì davanti, così vicina, dopo tutto quel tempo, l’aveva sconvolto. Si erano guardati per un tempo indefinibile: era sembrato immensamente lungo, ma quando lei aveva distolto gli occhi gli era sembrato fin troppo presto. Era sempre troppo presto, quando c’era un addio di mezzo… e Harry era certo che quello non fosse altro che questo. Un addio. Il secondo.
"Mi dispiace…" sussurrò Hermione, alle sue spalle.
"Per cosa…?" Harry non si voltò.
"Per averla nominata così, senza nessuna delicatezza" rispose lei. "Sono stata una stupida."
Harry scosse la testa, e sospirò.
"Volevo bene a Ron" sussurrò. Non era ancora pronto per parlare di Ginny. Forse non lo sarebbe mai stato. "Non potrò mai perdonare me stesso per quello che è successo."
"Non hai niente da perdonarti." Hermione gli accarezzò le spalle. "Harry, ti abbiamo trattato in un modo di cui mi vergogno profondamente, adesso. Posso solo dirti che ero sconvolta dal dolore, e che non ragionavo. Ho creduto di non riuscire mai più a riprendermi dalla sua morte."
Un’altra immagine gli si presentò alla memoria: la cucina della Tana. La signora Weasley in lacrime, Hermione che gridava. Ginny che gli puntava un dito contro, e lo accusava di aver ucciso suo fratello.
"Tu l’hai portato con te!" aveva gridato. "Tu l’hai convinto ad accompagnarti, anche se sapevi benissimo che non era ancora in grado di tornare a combattere!"
"Ho cercato di convincerlo a restare, ma non mi ha ascoltato!" aveva ribattuto lui, sconvolto. "Non ha voluto sentire ragioni, e non ho potuto…"
"Avresti dovuto chiamare ME!" aveva urlato Hermione. Si era avvicinata, e gli aveva tempestato il petto di pugni. "Avresti dovuto dirmi cosa aveva in mente! L’avrei fatto ragionare, gli avrei fatto capire che era una follia!"
"Non ti avrebbe ascoltata… ormai aveva deciso!"
"L’avrebbe fatto, per me!"
"Non avrebbe rinunciato a questa missione per niente al mondo!" aveva esclamato lui, addolorato. "Voleva vendicare suo padre, i suoi fratelli... ed è quello che ha fatto!"
Ricordare quell’episodio lo faceva stare male. Era stata l’ultima volta che aveva visto tutti loro: quella sera stessa se n’era andato dalla Tana, aveva abbandonato la casa dove lui e Ginny vivevano da tre anni. Aveva lasciato il Ministero, stroncando sul nascere la sua più che promettente carriera di Auror, e si era allontanato per sempre dal mondo magico. Adesso che Voldemort era stato sconfitto, non aveva più bisogno di preoccuparsi di non deludere le aspettative delle persone: per la prima volta da quando era nato, si era ritrovato nella possibilità di disporre come voleva di se stesso e della propria vita. Ma stare lontano dalle uniche persone che amava al mondo non era una vita degna di questo nome.
"Harry…" Hermione lo chiamò ancora, gentilmente. "Sono qui per chiederti perdono."
Si voltò, e la guardò intensamente. Alla luce debole del fuoco, sembrava più pallida di quanto fosse in realtà, e sul suo viso c’era un’espressione costernata. Non gli piaceva vederla così,e improvvisamente realizzò che non gli importava che lei continuasse a scusarsi.
"Lascia stare" mormorò. "Non hai bisogno di scusarti, Hermione. Io… ti capisco,credimi."
"Anche gli altri avrebbero voluto venire qui, stasera… la signora Weasley, i gemelli…" Hermione sembrò un po’ a disagio, e non era difficile capire perché: entrambi sapevano che quell’elenco appena accennato non poteva includere il nome della persona che più gli stava a cuore. Altrimenti ci sarebbe stata lei lì adesso, al posto della sua vecchia amica.
"Non voglio le vostre scuse…" Harry sospirò. "Non ne ho mai avuto bisogno, credimi. Non ho niente da perdonare."
"Io credo di sì." Lei gli prese il viso fra le mani, per costringerlo a non sfuggire il suo sguardo, e lo fissò negli occhi. "Per prima cosa devi riuscire a perdonare te stesso, Harry."
La guardò, stupito, ma anche se non ci aveva mai pensato razionalmente non fu difficile rendersi conto che Hermione aveva ragione: in tutti quegli anni, una parte di lui aveva continuato a pensare che in fondo quella sorta di esilio fosse giusto. La stessa parte che era convinta che lui fosse l’unico vero responsabile della morte del suo amico Ron.
"Già." Hermione abbozzò un sorriso. "Credevi che non lo avessi capito? Te ne sei andato senza protestare, senza dire una parola. E’ l’atteggiamento di chi pensa di meritare in pieno quello che gli sta succedendo."
"Non lo so…" Harry scosse la testa, confuso. Era tutto così assurdo. Così complicato.
"Abbiamo sbagliato ad addossarti colpe che non avevi…" proseguì Hermione. "E abbiamo mostrato poco rispetto anche per la memoria di Ron. E’ sempre stato… testardo." La voce le tremò, ma riuscì a riacquistare il controllo con una prontezza sorprendente. Non era cambiata neanche in questo, dopo tutto: era sempre la donna forte e decisa di un tempo.
"Sì, è vero" le disse, gentilmente. "Era testardo da morire, quasi quanto me."
"E non avrebbe ascoltato nessuno che avesse provato a dissuaderlo dai suoi propositi…" Hermione abbassò gli occhi. "Neppure me."
Harry le accarezzò il viso, con dolcezza, poi si staccò da lei e camminò sul tappeto, si fermò davanti al camino. Fissò le fiamme con aria assente, mentre ricordava quella sera di tanti anni prima. L’ultima volta che aveva davvero parlato con Ron, prima di quella battaglia maledetta che l’aveva portato via per sempre. Non ne aveva mai parlato con nessuno – non ne aveva avuto l’occasione – ma forse era venuto il momento: pensò che Hermione fosse venuta da lui anche per quello. Nessuno le aveva mai parlato degli ultimi momenti di Ron. Forse avrebbe voluto sapere, o forse no, ma era suo dovere farle capire che era disposto a raccontarle ogni cosa.
"Sai, io… ho cercato di fargli cambiare idea."
Lo disse lentamente, con un tono di voce che non gli sembrò quasi il suo.
"Lo immaginavo…" Hermione si era appoggiata al davanzale, e lo ascoltava.
"Ci ho provato a lungo, la notte prima di partire per… beh, per la battaglia. Avevo come un… brutto presentimento." Harry fece una pausa, e si infilò le mani in tasca. Le fiamme divampavano davanti ai suoi occhi, e gli sembrò quasi di rivedere il volto di Ron mentre litigavano. Era stato orribile. "Ma non ha voluto ascoltarmi. Abbiamo litigato."
"Cosa..?" Hermione alzò gli occhi, stupita. "Oh, Harry…"
"Il giorno dopo siamo partiti insieme agli altri e quasi non ci parlavamo…" ricordò Harry, a bassa voce. "Ho cercato di proteggerlo, di stargli vicino… ma non ho potuto evitare che lo colpissero."
Lei si era coperta gli occhi con una mano, e sembrava respirare a fatica.
"Io non… non sapevo" mormorò. "Non immaginavo nemmeno che fosse successo qualcosa del genere."
Harry rimase in silenzio per qualche istante. Anche se erano passati dodici anni, quei ricordi facevano ancora male come allora.
"Credevo che l’avessero ucciso mentre combattevo contro Voldemort… quando sono tornato non c’era più" riprese poi. "Non ho mai saputo chi l’abbia colpito, né quando sia successo di preciso. L’ho cercato, fra quel mare di corpi senza vita, e quando l’ho trovato mi sono gettato in ginocchio vicino a lui…" Inspirò profondamente, per cercare di calmarsi, ma gli girava la testa e il suo stomaco era in preda a un violento attacco di nausea. "Era ancora vivo… respirava ancora. Ho pensato che fosse un miracolo."
Hermione aveva gli occhi lucidi, e il viso tirato. Harry immaginò che non avrebbe trattenuto le lacrime ancora per molto, e credette di capire come si sentisse: è orribile pensare che a persona che ami sia morta in un luogo sconosciuto, senza di te.
"Ho cercato di portarlo via di lì, ma non c’era nessuno in grado di aiutarmi… e a quel punto Ron mi ha detto che era inutile. Che era troppo tardi." Ricordò gli occhi azzurri di Ron: stanchi, esausti, pieni di dolore. E di paura. "Mi ha detto che avrebbe già dovuto essersene andato, ma che mi aveva aspettato… perché era sicuro che tornassi."
"Ero certo che ce l’avresti fatta, Harry… ti ho aspettato per dirti che ti voglio bene. Ti voglio bene, amico." La voce di Ron gli risuonò nelle orecchie come se la stesse ascoltando proprio in quel momento.
"Anche io ti voglio bene, Ron…" aveva detto lui, fra le lacrime che non era riuscito a trattenere. "Sei il migliore amico che avrei potuto desiderare."
" Prenditi cura di mia sorella" aveva detto ancora Ron, respirando a fatica " e… Hermione…"
"Sì…?" aveva chiesto Harry, accarezzandogli la fronte. "Che cosa devo dire a Hermione…?"
Ron era rimasto in silenzio, e Harry aveva temuto che non ce l’avrebbe fatta ad aggiungere altro. Invece aveva preso un respiro profondo, il suo ultimo respiro, e aveva sussurrato: "Dille che la amo… e salutala per me."

Hermione era scoppiata a piangere, e Harry era corso ad abbracciarla. L’aveva lasciata sfogare contro la sua spalla, tenendola stretta sul divano mentre il fuoco si spegneva lentamente. Nella stanza immersa nella semioscurità, gli unici rumori udibili erano i suoi singhiozzi soffocati e l’ululato del vento all’esterno.
"Avrei voluto saperlo…" disse lei, fra i singulti. "Avrei voluto saperlo fin dall’inizio… avrei voluto parlare con te di tutto questo, Harry… sono stata una stupida…"
"Sshh, calmati…" mormorò Harry, accarezzandole i capelli. "Ormai è tutto passato. Siamo stati degli idioti, ma è tutto finito."
"Perdere te e Ron insieme è stato terribile." Hermione rabbrividì contro di lui. "Non puoi nemmeno immaginare come mi sia sentita all’inizio… mi sembrava che il cuore si lacerasse ad ogni respiro. Avrei voluto morire per non soffrire più."
"Ti capisco…" Harry le baciò la testa. "Credimi. So cosa si prova a stare all’inferno, è la mia casa da dodici anni."
"Ron…" la voce di lei si incrinò. "Quanto mi manca, ancora oggi… non c’è giorno in cui non lo pensi…"
"No. Nemmeno io" sussurrò Harry, con il cuore pieno di dolore.
"Avrei solo voluto salutarlo… dirgli addio…"
Le prese la testa fra le mani, e le alzò il viso verso il suo. "Ascoltami, Hermione" sussurrò, guardandola negli occhi. "Devi smettere di sentirti in colpa perché non eri con lui, perché non hai potuto salutarlo. Ron non avrebbe voluto che lo vedessi morire. Sono certo che ha preferito così."
Gli occhi di lei erano inondati di lacrime. "E’ così doloroso…"
"Lo so."
"Ho bisogno di te." Glielo disse piano, con un tono di voce indifeso che lo intenerì enormemente. Realizzò che gli era mancato prendersi cura di qualcuno che amava, e quella sensazione ritrovata lo fece quasi vacillare. "Ho sempre avuto bisogno di te, Harry. Avrei voluto che fossi accanto a me, in tutti questi anni. Non so dirti quanto mi sei mancato."
"Adesso sono qui." La strinse fra le braccia, e la cullò piano, come se fosse una bambina, mentre ricominciava a singhiozzare silenziosamente. Aveva bisogno di sfogare dodici anni di lacrime trattenute e di disperazione non manifestata. Per lui era più o meno lo stesso, ma il suo turno – lo sapeva – sarebbe venuto più tardi.


"Devo avere uno strano effetto sulle donne, sai…" sussurrò Harry, parlandole all’orecchio.
Erano ancora sul divano, ma si erano sdraiati sotto una pila di coperte di lana: il fuoco si era spento, e la stanza era diventata più fredda. Nell’oscurità brillavano di tanto in tanto le braci rossastre, nel camino: sprizzavano un nugolo di scintille e poi si spegnevano, scoppiettando.
"A cosa ti riferisci?" Hermione si mosse piano fra le sue braccia, e gli appoggiò la testa sulla spalla, passandogli un braccio intorno al corpo. Quello di lui la stringeva già per le spalle.
"Niente, pensavo a una certa ragazzina di sedici anni che mi ha baciato sotto il vischio, e nel frattempo piangeva come una fontana…" fece Harry, la voce lievemente divertita.
"Oh, certo… Cho Chang." Hermione ridacchiò, e tirò su col naso. Non poteva vederla, ma immaginò i suoi occhi gonfi di pianto. "La tua ossessione del periodo pre-Ginny…"
Appena ebbe pronunciato quel nome, Harry la sentì trasalire.
"Oh, Harry… scusami. Scusami tanto." Sembrava davvero mortificata. "E’ la seconda volta che lo faccio, stasera. Che stupida sono, perdonami."
Rimase in silenzio per qualche istante, cercando di leggersi dentro. La strinse un po’ di più, come per trarre conforto dal calore del suo corpo, e realizzò che era pronto per parlare di lei. Strano a dirsi, ne sentiva il bisogno.
"Va tutto bene" la tranquillizzò.
"Sicuro?" fece lei, incerta.
"Sì. Avevi ragione" le disse, con un sospiro. "E’ ora che io la pianti di nascondermi, e di fare finta che Ginny non sia mai esistita."
"Hai davvero provato a fare questo…?" si stupì Hermione.
"No" rispose Harry, sincero. "Ho creduto di averlo fatto, ma non è così. La verità è che non volevo dimenticarla. Non voglio." Fece una pausa, stupito di quello che stava per dire. Ma era l’assoluta verità. "Lei è tutto quello che ho. Ancora adesso. E’ tutta la mia vita."
Hermione tacque, e Harry si domandò se lo stesse giudicando un povero sciocco per questa rivelazione inaspettata.
"Sei un uomo coraggioso, lo sai?" gli disse invece, e il tremito nella sua voce gli fece capire che si era commossa di nuovo.
"Coraggioso?" Harry ponderò l’idea, poi scosse la testa. "No, non direi. Non in questo caso, almeno. Avrei potuto agire diversamente, ma non l’ho fatto. Se avessi avuto più tempismo, forse a quest’ora sarei ancora al suo fianco."
"Abbiamo sbagliato tutti, in questa storia" osservò Hermione, con dolcezza. "Ma ci vuole un gran coraggio a fare quello che hai fatto tu."
"Cioè cosa? Andarmene?" Harry sorrise, amaro. "Io non credo."
"L’hai fatto per rispettare il nostro dolore. Il suo dolore. Perché te l’avevamo chiesto noi, e tu eri convinto di avere delle colpe per come ci sentivamo." Gli accarezzò il petto, distrattamente. "Ci vuole una grande dose di coraggio per riuscire a sobbarcarsi il peso di una cosa del genere."
"Credo sia colpa della mia solita mania di salvare la gente" osservò Harry, mentre un sorriso involontario gli stirava le labbra. Se quella mattina qualcuno gli avesse detto che di lì a poche ore avrebbe parlato con Hermione del disastro che tutti loro avevano combinato, e che sarebbe persino riuscito a scherzarci su, gli avrebbe dato del pazzo senza esitare. "Che ne pensi?"
"Oh, non ci posso credere!" esclamò Hermione, ridacchiando. "Ancora con questa storia? Non ti è proprio andata giù, vedo…"
"No, in quel momento no…" ammise Harry. "E’ stata una delle poche volte in cui ho perso davvero il controllo. Ma avevi ragione, come al solito."
"Bah… non lo so." Hermione si spostò, pensierosa. "La tua non era una mania. Non lo facevi per metterti in mostra, né perché pensassi di essere migliore degli altri. Sei semplicemente fatto così. Vedi, per esempio…" aggiunse, e gli accarezzò i capelli dietro la nuca, con dolcezza "stasera stai facendo la stessa cosa. Non puoi proprio farne a meno."
"Ma non sono venuto a salvarti" obiettò lui. Le catturò la mano e se la portò sul petto, la tenne sotto la sua. "Sei stata tu a venire da me."
"Sì, perché sei l’unico che possa salvarmi da me stessa." Hermione si strinse di più a lui, e quando parlò la sua voce era carica di intensità. Gli fece venire i brividi, perché da tanto nessuno gli parlava più in quel modo. "Non voglio più vivere lontana da te. Non riesco nemmeno a pensare di perderti di nuovo."
"Non mi perderai." Le infilò una mano fra i capelli, e le attirò la testa verso la sua, per baciarla fra i capelli. "Te lo prometto."
"Avrò di nuovo il mio migliore amico, lunatico e un po’ matto?" scherzò lei.
"Lo avrai." Harry sorrise. "Sarò sempre qui per te."
Rimasero in silenzio per qualche istante, poi Hermione sussurrò:
"Vuoi sapere una cosa strana?"
"Quale?" domandò Harry, infilandosi un braccio ripiegato sotto la testa.
"A parte mio padre, sei l’unico uomo che sia riuscita ad abbracciare, in tutti questi anni, senza desiderare nemmeno per un secondo che al tuo posto ci fosse Ron." Si schiarì la voce. "Forse ti sembrerà un discorso assurdo, non so…"
"No, invece ti capisco" le assicurò Harry. "Per me è più o meno lo stesso, io… non ho mai sfiorato una donna senza pensare a Ginny. Ma con te è diverso, tu sei…" cercò la parola giusta, ma inutilmente. "Beh, sei tu" terminò, sorridendo.
"Già…" la voce di Hermione era strana. Fu certo che stesse sorridendo, e la cosa lo incuriosì.
"Che c’è?"
"Pensavo…"
"A cosa?"
"Ti sei mai chiesto perché… fra me e te non sia mai successo niente?" mormorò Hermione, lentamente.
Harry ci pensò su. "Non saprei… forse sì. Di certo l’ho fatto, una o due volte. Per noi ragazzi è difficile non indugiare su certi pensieri, sai…"
"Harry!" Hermione rise, e lo colpì sul petto col palmo della mano. Rise anche lui. "Non intendevo in quel senso, stupido…"
"Lo so, lo so, ho capito…" Harry sospirò. "Sì, me lo sono chiesto, ma era più una domanda retorica che altro. Non hai mai avuto occhi che per Ron, Hermione."
"Era così evidente?" chiese lei, divertita.
"Direi di sì."
"Beh, in ogni caso… io me lo sono domandata più volte, nel corso sei sette anni di scuola."
"E cosa ti domandavi, esattamente?" volle sapere Harry, incuriosito.
"Guardavo Ron e mi chiedevo: perché mi sono innamorata di lui, e non di Harry?" Hermione rise, sottovoce. "Di solito succedeva dopo l’ennesimo battibecco. Immaginavo che con te sarei andata più d’accordo."
"Sì, è probabile" ammise Harry. "Ma Ron ti è sempre piaciuto anche per questo. Perché ti faceva saltare i nervi, e ti faceva sentire viva. Con me ti saresti annoiata a morte."
"Non lo so… ma di certo siamo molto simili, noi due" osservò Hermione. "Forse troppo."
"Già… non a caso, ci siamo innamorati di due Weasley" sussurrò Harry, con un sospiro. Poi decise di raccontarle quello che era successo qualche settimana prima. "Sai, tempo fa… l’ho rivista."
Lei trattenne impercettibilmente il respiro, prima di rispondere:
"Lo so."
"Cosa…?" si stupì Harry. Alzò la testa per guardarla in faccia, ma era davvero troppo buio per vedere qualcosa: riusciva appena a distinguere il suo profilo, più scuro contro il cielo di fuori, che aveva quell’aspetto fumoso delle serate di neve. "E come…?"
"Ginny" spiegò Hermione, con semplicità. "Me l’ha detto lei."
"Quindi voi…" Harry deglutì a vuoto. Improvvisamente aveva la bocca secca. "Lei… ti parla di me?"
Hermione sospirò. "La situazione è un po’ più complicata di quello che pensi tu, Harry…" disse, sottovoce. "Sono successe delle cose che non ti ho raccontato, dopo che te ne sei andato."
"Quali cose…?" si preoccupò lui. Sentì lo stomaco stringersi in una morsa, e si chiese come avesse fatto a sopravvivere tutti quegli anni senza avere notizie di Ginny. "Le è successo qualcosa di male?"
"No, no… sta’ tranquillo." Hermione gli accarezzò il dorso della mano, dolcemente. "Ginny se n’è semplicemente andata di casa, poco tempo dopo che tu ci avevi lasciati."
"Lei… cosa?" Harry non capiva. "In che senso, andata di casa? Viveva già fuori casa…"
"Non è più andata a vivere dove abitavate prima. Era tornata a stare alla Tana, ma dopo poche settimane se n’è andata e nessuno l’ha più vista" spiegò Hermione. "Ha lasciato una lettera in cui diceva che stava male, che non riusciva più a sopportare di vivere in quel modo." Sospirò. "Lì per lì non ho capito fino in fondo le ragioni del suo gesto, ma immagino che fossi ancora troppo sconvolta dal dolore per la perdita di Ron per mettermi a riflettere seriamente sui problemi di qualcun altro."
"Lo immagino."
"Poi però ho capito" proseguì. "Se n’era andata perché le mancavi, e ogni cosa le ricordava te… anche se all’inizio non l’avrebbe mai ammesso."
"Come fai a sapere che…" cominciò Harry, dopo essersi ripreso da un istante di sbalordimento iniziale.
"Me l’ha confermato lei, Harry" spiegò Hermione, semplicemente. "Ci siamo riviste per caso, qualche anno fa. Da allora continuiamo a sentirci regolarmente."
"Oh." Quella rivelazione l’aveva sconvolto. Non immaginava che Ginny pensasse ancora a lui, anche se alla luce di questi nuovi elementi il suo comportamento dell’ultima volta che l’aveva vista assumeva altri contorni.
"Vuoi sapere se parliamo di te?" chiese Hermione, con dolcezza. E poi, prima che lui potesse rispondere, aggiunse: "Continuamente, Harry. Credo che tu sia il suo unico pensiero, ogni giorno della sua vita. Non si è mai perdonata per averti perso in quel modo assurdo."
"Ma io l’ho vista con un uomo" disse lui, stupito. "Lei ha… c’è qualcuno, nella sua vita, no?"
Hermione sorrise. "E credi che questo possa significare qualcosa, quando si tratta di te?" mormorò.
Harry scoprì di non riuscire a parlare. Aveva la gola secca, e stretta in una morsa che gli impediva quasi di respirare. Aveva voglia di ridere e piangere insieme, e la sensazione di nausea che gli sconvolgeva lo stomaco si era decuplicata nel giro di pochi secondi.
"Tutto bene…?" sussurrò Hermione, cercandogli il viso con una mano. Gli accarezzò la guancia, e lui coprì la sua mano con la propria, che tremava leggermente. "Harry, stai tremando…"
"Non è niente…" le disse subito, ma non ne era così sicuro. "Sto bene, è solo che… non immaginavo che…"
"Lo so." La voce di Hermione era triste, malinconica. "A volte penso che in questa situazione Ginny sia quella che ha pagato il prezzo più alto di tutti. Forse ancora più alto del tuo, perché è stata lei a decidere di non vederti più. Non è facile convivere con rimorso di aver rovinato una cosa così bella come quella che avevate voi due."
Harry rimase in silenzio, a fissare il soffitto buio. Gli sembrava di avere il cervello anestetizzato.
"Devo darti una cosa" disse Hermione, sollevandosi un po’. "Vado a prenderla, ce l’ho in borsa. Tu intanto accendi il fuoco, d’accordo?"
Rimase sdraiato ancora un attimo, mentre la sagoma di Hermione si muoveva leggera nella semioscurità, diretta verso la porta che collegava il salone con l’ingresso. Si costrinse ad alzarsi, e andò ad aggiungere altra legna al fuoco. Le fiamme ripresero a divampare, scaldandogli il viso e accecandolo momentaneamente, visto che i suoi occhi erano abituati al buio.
Sedette sul tappeto, con la schiena poggiata al divano, e socchiuse le palpebre. Hermione tornò dopo pochi minuti, con una busta bianca in mano. Gli sedette accanto, e gliela porse.
"Tieni" mormorò. "E’ per te."
La prese. Sul retro c’era scritto soltanto "Harry", in lettere blu tondeggianti, ed ebbe un tuffo al cuore nel riconoscere la sua calligrafia. Quante volte l’aveva vista, prima sulle pergamene di scuola e poi anche su cose decisamente più piacevoli, come le lettere e i bigliettini che lei gli mandava spesso, pieni di frasi buffe e divertenti. Ginny sapeva quanto lo imbarazzassero le lettere d’amore, e gliene aveva scritte ben poche durante gli anni in cui erano stati insieme: anche lei non le amava particolarmente. Erano entrambi convinti che non ci fosse bisogno di lettere per dimostrare i sentimenti alla propria persona speciale. Per questo si sentì strano, quasi fuori posto, con quella lettera in mano.
"M ha detto che avresti fatto una faccia strana vedendo la lettera" Hermione sorrise. "E che dovevo assicurarmi che la leggessi davvero."
"Oh." Harry sorrise, suo malgrado. "Sa che non mi piacciono le lettere. Mi mettono a disagio."
"Sì, mi ha detto anche questo… e ha aggiunto che era l’unico modo che aveva per spiegarti. Le ho fatto notare che poteva venire a cercarti… ma mi ha guardata in modo strano, e mi ha detto che non potevo capire." Hermione si strinse nelle spalle.
Harry fissò la lettera ancora per un po’, in silenzio, cercando di capire come si sentisse.
"Preferisci restare da solo, mentre leggi?" domandò Hermione, discreta. "Potrei andare di là in cucina a sistemare i piatti."
La guardò, un po’ spaesato, e annuì lentamente.
"Grazie."
Gli sorrise. "Figurati."
Si alzò e tornò in cucina. Harry rimase a fissare il fuoco anche dopo che l’acqua ebbe iniziato a scorrere nel lavello. Il suono acciottolante delle stoviglie lo riportò indietro, a un’altra casa, in un tempo ormai perduto per sempre. Pensò che sono sempre le piccole, stupide cose di ogni giorno a giocarti gli scherzi più brutti, colpendoti a tradimento.
Spostò gli occhi sulla lettera, e si decise a lacerare la busta. Estrasse tre fogli bianchi, coperti dalla scrittura minuta e piacevole di Ginny. Erano scritti soltanto da un lato: evidentemente, non si era mai abituata del tutto alle usanze dei babbani, e trattava i fogli come piccole pergamene in miniatura.
Il vento scosse la finestra, e un vortice di fiocchi di neve si schiantò sul vetro, facendolo tremare. Harry si accinse a leggere, la gola ancora arida. Gli sembrava che la stanza fosse diventata all’improvviso troppo piccola, e che non contenesse aria sufficiente per respirare.
Fu come tuffarsi dall’alto.


E’ buffo come la gioia o la disperazione di un'intera esistenza dipendano da mille situazioni insignificanti, di cui non riusciamo a capire l'importanza globale finché non è troppo tardi.
Il momento giusto. Il posto giusto. La persona giusta.
A volte ce li lasciamo sfuggire senza accorgercene. Come è successo a noi due.
Vorrei parlarti di me, e dirti che sono felice, ma sarebbe una bugia. Lo sono stata, in passato, davvero tanto: i ricordi di quei tempi mi riscaldano ancora il cuore, a volte, quando le cose con mio marito non vanno più così bene e allora mi chiedo perché l'ho sposato, e cosa ci faccio qui. Credo di sapere le risposte, adesso, anche se ho cercato di chiudere gli occhi davanti a tutto questo per gran parte della mia vita di adulta.
Ho sposato Jacob perché all'inizio mi ricordava te. Non che ti somigli particolarmente, ma a quei tempi, quando l'ho incontrato, possedeva alcune delle qualità che avevo tanto amato in te: era dolce, gentile, e divertente. Mi faceva sentire amata, desiderata, nello stesso modo leggero e spensierato con cui riuscivi a farlo tu. Credo di essermi innamorata di lui per questo, e per un po' le cose hanno funzionato a meraviglia. Abbiamo avuto la nostra bambina, Virginia, che entrambi adoriamo. Siamo andati d'accordo per tanti anni, finché qualcosa è cambiato.
E' stato un processo lento, talmente graduale che non me ne sono quasi accorta: solo più tardi, guardando indietro, ho colto l'evolversi delle cose in questo senso. Adesso sono sposata con un uomo che non ha più niente della persona che credevo di amare. Solo in rare occasioni scorgo le tracce dell'uomo che era, ma anziché esserne felice divento ancora più triste. Penso a quanti sorrisi, a quanti bei momenti abbiamo già perso, e a quanti rinunceremo ancora. Mi chiedo perché sia diventato scontroso, sgarbato, perché mi parli sempre in modo sgradevole e perché sembri sempre che mi veda come un peso, come un inutile fastidio. Mi chiedo se è anche colpa mia, e non so che cosa rispondermi. In ogni caso, saperlo non cambierebbe le cose, immagino.
E' triste accorgersi che qualcuno che credevi importante, su cui avevi fatto poggiare gran parte della tua esistenza non c'è più. Capire che non potrà mai tornare. Quando penso a Jacob e al nostro rapporto, mi rendo conto di non provare più niente per lui: niente di quello che una moglie dovrebbe sentire per il proprio marito. Il suo comportamento ha prosciugato la riserva di amore che avevo nei suoi confronti, inaridendomi il cuore fino a renderlo duro. E fragile. Sono molto più forte adesso, più allenata a non mostrare le mie debolezze davanti agli altri, ma poi quando sono sola mi capita di crollare e di piangere per ore intere, senza ritegno. Piango per il passato che non c'è più, per il futuro che non ci sarà mai, per i miei sogni che si sono infranti, di nuovo. Ormai sono talmente abituata a questa situazione che non ci penso quasi più, ma ci sono giorni in cui il vaso diventa colmo fino all’orlo, e la goccia che lo fa traboccare può essere qualunque cosa: una canzone, una frase, un gesto gentile o un insulto di troppo. Le lacrime mi fanno sentire meglio, anche se - tu lo sai bene - ho sempre odiato piangere. Non sono ancora riuscita a liberarmi della convinzione che sia una sorta di debolezza, anche se è diventata una valvola di sfogo necessaria.
Vorrei riuscire a spiegare come ci si sente a vivere in questo modo, ma non ci sono parole adatte per descriverlo. Potrei dire che è come stare sempre in bilico su una fune, ma in fondo questo vale per tutti. Il cammino è difficile. Però in genere c'è qualcuno, la persona che amiamo di più, che ci tiene per mano e si sforza di trovare un equilibrio migliore, insieme a noi. Nel mio caso, invece, non c’è nessuno che cammina accanto a me: Jacob è solo la persona che scuote la fune con forza, e io devo difendermi da lui più che da chiunque altro.
Certe volte è troppo angosciante per poterlo sopportare. Mi sento sola, e vuota. Non è facile raccontare agli altri una cosa del genere e sperare che capiscano. Mi sento rifiutata. Ripetutamente ferita. Ho addosso lividi che non svaniranno, ferite che non si chiuderanno, e nessuno che possa aiutarmi a stare meglio. Nessuno che mi dica che andrà tutto bene, che posso farcela, che non è colpa mia se la persona con cui ho scelto di condividere la mia vita mi tratta come se non fossi niente di importante.
Chi non si è mai trovato in questa situazione non sa cosa sia la fame di amore, di affetto, di considerazione. Non sa che umiliazione sia sentirsi rincuorati se un estraneo per strada ti fa un gesto o un sorriso gentile. Non sa che si prova ad avere bisogno di un abbraccio, di una carezza, e non avere nessuno che possa toccarti con dolcezza. Non ha idea della sofferenza che si prova quando ci si sforza di essere gentili, dolci, affettuosi, e si riceve in cambio solo indifferenza.
Avrei voluto morire, l'altro giorno, quando ti ho visto al dilà della strada. Mentirei se ti dicessi di non aver atteso quel momento per anni interi, anche se non me ne ero resa conto nemmeno io. E’ stato meraviglioso e terribile insieme.
Avrei voluto correre da te e stringerti forte, più forte di quanto abbia mai fatto in passato. Avrei voluto implorarti di portarmi con te, e di restare insieme per sempre. Quanto l'ho desiderato, Harry... tutto il mio fragile mondo, fatto di equilibri fittizi e precari, è crollato nello spazio di un secondo. Un respiro tremante, un battito del cuore, e tutto è evaporato come neve al sole. Ci siamo guardati per pochi secondi, e ho capito che avresti voluto attraversare quella strada almeno quanto me. Ho temuto che lo facessi davvero, e nello stesso tempo ho avuto paura che non sarei riuscita a trattenermi e che mi sarei lanciata di corsa in mezzo al traffico, rischiando che qualche auto mi travolgesse, pur di non lasciarti andare via di nuovo. Dopo poco è già stato troppo: non ce l'ho più fatta, e mi sono voltata di nuovo verso mio marito. Me ne sono andata senza voltarmi indietro. Non so se tu sia rimasto a guardarmi andar via, ma sono contenta di non essermi girata a controllare: l’immagine di te ancora fermo sotto la pioggia, mentre il destino ci faceva rincontrare e poi ci separava di nuovo, mi avrebbe tormentata per tutta la vita.
A volte mi sembra di aver vissuto soltanto nella speranza di rivedere un'ultima volta il tuo viso, magari scorgendolo di sfuggita fra la folla in una giornata di pioggia. Non ci sono parole per descrivere come mi hai fatta sentire, quando mi hai guardata. L'intensità del tuo sguardo, che non ha mai lasciato molto margine alle parole, mi ha sconvolta.
Scrivere questa lettera è una delle cose più difficili che mi sia capitato di fare. Ho cercato di convincermi che non fosse necessaria, che entrambi avremmo potuto archiviare l'episodio senza conseguenze, ma il tuo viso è stampato nella mia mente come un avvertimento. Non voglio sbagliare di nuovo. Non voglio pentirmi di niente.
Ci piace pensare che quello che ci capita sia quasi interamente frutto delle nostre scelte, ma non è un pensiero consolante: nella maggior parte dei casi, quando scegliamo non vediamo molto più in là del nostro naso, ed è come gettarsi ad occhi chiusi da un precipizio.
La verità ci fa paura. Ci terrorizza il fatto di non poter scegliere per chi provare certi sentimenti, e di essere vulnerabili. Cerchiamo sempre un appiglio, qualcosa di stabile e di sicuro che ci protegga quando la tempesta si scatena, e che ci culli nei periodi in cui il vento si placa. Una persona che attutisca il passaggio continuo attraverso il brutto e il bello dell'esistenza. Quando è proprio questa persona speciale a voltarci le spalle, vivere diventa difficile e non è raro pensare che non ne valga più la pena. Non sto dicendo che la mia vita sia un totale fallimento: ho mia figlia, ho il mio lavoro che amo. Ma so bene che queste cose, per quanto importanti e insostituibili, non bastano a dare un senso a un'intera esistenza.
Perché non ho mai smesso di amare la vita, allora? Perché non ho mai toccato il fondo, neanche nei momenti più bui? Me lo sono chiesto tante volte, senza trovare una risposta. Finché non ti ho visto al dilà di quella strada, sotto la pioggia che cadeva senza sosta. E’ stato in quel momento che ho capito.
Tu sei la risposta. Tu mi rendi capace di amare la vita anche se mi sento svuotata, persa, spaventata, alla deriva. Tu mi permetti di immaginare come avrebbe potuto essere, se le circostanze e la nostra stupida e ottusa cecità non ci avessero divisi per sempre.

Vederti è stata una specie di rivelazione: non finirà tutto in questo modo. So che tu capirai.
Abbiamo perso un’occasione, ma era solo una delle tante.
So che mi aspetterai fino a quando non ti ritroverò ancora.


Con tutto il mio amore,

Ginny




Doveva essere rimasto a fissare il fuoco, con la lettera abbandonata sul tappeto accanto a sé, per un tempo spaventosamente lungo. Quando vide Hermione in piedi, di fianco al divano, la guardò come se la vedesse per la prima volta, e sbatté le palpebre. Fu come risvegliarsi da una specie di torpore.
"Tutto bene?" s’informò lei, incerta. Teneva le braccia incrociate sul petto, e i suoi occhi esprimevano preoccupazione.
"Sì…" mormorò Harry, anche se non ne era troppo sicuro. Aveva ancora bisogno di riflettere su quello che aveva letto, ma non gli andava più di parlare. Non ne era in grado, al momento. Era come se qualcosa gli avesse succhiato via tutta l’energia.
"Se vuoi restare da solo, posso tornare a casa…" disse Hermione, gentilmente. "Di là ho sistemato tutto…"
"No." Non ebbe nessuna esitazione. L’unica cosa che era certo di non volere era che lei se ne andasse. "No, per favore."
Hermione lo guardò, senza capire, e Harry sorrise. Si sentiva esausto, ed era certo di avere un aspetto molto provato.
"Rimani" mormorò, con dolcezza. Le tese una mano. "Resta qui con me, ti prego."
Lei annuì, e sedette sul tappeto, lì accanto. Gli scostò i capelli dalla fronte, sfiorandoli con la punta delle dita.
"E’ stato difficile?" sussurrò.
"Molto" ammise. Spostò lo sguardo sul suo viso, e cercò di capire se lei sapesse in che situazione era Ginny. Probabilmente sì.
"Non ti va di parlarne" disse ancora Hermione. Non era una domanda.
"No." Harry le prese la mano. "Scusami."
"Non devi scusarti." Gli sorrise, incerta.
"Ho solo bisogno che tu stia qui con me…" allungò un braccio e glielo passò intorno al corpo, la strinse a sé. "Solo di questo."
"Non mi muoverò." Hermione si accoccolò contro di lui. "Promesso."
Rimasero a fissare le fiamme, nel silenzio tranquillo della casa. Harry si chiese se pensassero le stesse cose, mentre osservavano il fuoco danzare nel camino: quella era una notte strana. Gli sembrava che passato, presente e futuro stessero incrociandosi e fondendosi insieme, in un vortice di immagini e di sensazioni che minacciavano di annientare la sua sanità mentale.
Qual è il grado di dolore e di angoscia che si può riuscire a sopportare senza rischiare di impazzire? si chiese, appoggiando la guancia contro i capelli morbidi di Hermione e socchiudendo gli occhi. Qual è il punto di non ritorno?


Il mattino dopo, a svegliarlo fu un raggio di sole che gli pioveva direttamente sul viso, penetrando dalla finestra. Si mosse infastidito, spostando il viso per togliersi dalla traiettoria della luce, e aprì gli occhi, lentamente. A tutta prima, non capì dove si trovasse. Poi vide il camino, il fuoco ormai spento, e ricordò tutto.
Fu invaso da uno strano senso di liberazione, anche se non si sentiva leggero come avrebbe voluto: molte cose erano state spiegate, ma questo non significava che la realtà sarebbe stata più facile, da allora in poi.
Hermione era sdraiata accanto a lui sul divano, la testa appoggiata alla sua spalla, il viso ancora disteso nel sonno. Aveva un’aria serena, e Harry sorrise. Le scostò dolcemente i capelli dalla fronte, sfiorandola appena. Si domandò chi dei sue stesse peggio, quel giorno: entrambi avevano perso per sempre la persona che amavano.
Sospirò, mentre i suoi occhi continuavano a scrutare il viso di Hermione, come in cerca di risposte. Non si meravigliò del fatto che Ginny non avesse voluto spiegare all’amica il perché non volesse rivederlo. Dopo aver letto quella lettera, in effetti, era tutto chiaro… ma era certo che Hermione non avrebbe capito.
La guardò svegliarsi lentamente, socchiudere le ciglia e mettere a fuoco il suo volto. L’espressione del suo viso quando si rese conto di dove fosse fu impagabile.
"Buongiorno…" sussurrò Harry, sorridendo.
"Harry…" Hermione richiuse gli occhi, soltanto per un breve istante, e sospirò. "Allora è vero."
"Sì." Le pettinò i capelli con le dita, dolcemente. "Sembra proprio di sì. Hai dormito bene?"
"Meravigliosamente" gli rispose, sorridendo. "Sei persino meglio di un sonnifero. E’ straordinario."
"Mmm…" lui inarcò un sopracciglio. "Non mi suona tanto come un complimento, non so perché…"
"Smettila!" Hermione rise, e si strinse a lui. "Lo è, e tu lo sai benissimo."
"Sembri contenta" osservò Harry, ricambiando il sorriso.
"Lo sono. Davvero." Hermione sospirò. "E’ bello non svegliarsi da soli, avevo dimenticato questa sensazione."
"Già. Anch’io."
"E poi…" lo guardò, con una curiosa espressione. "E’ bello svegliarsi accanto a un uomo con cui non ci sono complicazioni di nessun genere."
"Sì."
"Né amore, né sesso, niente del genere." Hermione giocherellò con le frange del plaid scozzese che li copriva. "A volte si ha solo il desiderio di stare stretti a qualcuno, solo questo."
"E’ vero" disse Harry, piano.
"Ne avevo bisogno."
"Anch’io."
Hermione rimase un po’ in silenzio, poi le sfuggì un sorriso.
"Cosa c’è?" chiese Harry, senza capire.
"Niente, mi… chiedevo solo se il fatto che tu non sia per niente male c’entri con questa sensazione di benessere." Lo guardò, divertita.
"Oh." Harry si sentì decisamente spiazzato, ma cercò di nascondere l’imbarazzo. In realtà, si era chiesto la stessa cosa la notte prima, quando erano seduti sul tappeto e Hermione si era addormentata fra le sue braccia. L’aveva sollevata e l’aveva adagiata sul divano, delicatamente, per non svegliarla. Lei si era mossa nel sonno, mugolando appena, e aveva sussurrato:
"Non te ne andare…"
L’aveva guardata per diversi minuti, inginocchiato accanto al divano. I suoi occhi grandi, dal taglio allungato, con le lunghe ciglia scure. Il taglio deciso delle sopracciglia, che talvolta conferiva al suo viso una severità che in realtà non era il tratto più marcato del suo carattere. Le piccole rughe di concentrazione sulla fronte. Le labbra appena socchiuse, rosse e piene. Non ricordava con precisione se se l’era mai chiesto anni prima, ma se lo domandò in quel momento.
Perché non mi sono innamorato di lei?
Forse era stato per il carattere: Hermione era troppo pedante, troppo precisa, meticolosa. Troppo razionale. I lati del suo carattere che non faticava troppo a sopportare erano quelli che condivideva con lui, per cui gli sarebbe sembrato di stare insieme a un’altra parte di se stesso. Probabilmente era per questo che non aveva mai – beh, quasi mai, dopo tutto era un uomo – pensato a lei sotto un certo aspetto.
Però in quel momento aveva sentito il bisogno di stendersi accanto a lei e di stringerla fra le braccia. Si era sdraiato sotto al plaid, e aveva nascosto il viso fra i suoi capelli. Hermione si era girata e l’aveva abbracciato, gli aveva posato le labbra sul lato del collo.
Il suo corpo aveva involontariamente reagito a quel contatto, e Harry si era sentito in imbarazzo.
E’ giusto? si era chiesto, costernato. E’ giusto che senta il bisogno di stringerla come un uomo stringe una donna? Che cosa significa?
Il disagio era passato quasi subito, ma le risposte non erano venute.
"Harry, che succede…?" la voce di Hermione lo riscosse bruscamente.
"Cosa?" la guardò, spaesato.
"Che ti prende?" fece lei, perplessa. "Stavo scherzando, non volevo…"
"No." Harry chiuse brevemente gli occhi, e abbozzò un sorriso. "Credo proprio che c’entri, in effetti."
"Che cosa…?" Hermione sembrava allibita. "Ma noi due… noi non… non posso nemmeno immaginarlo!"
"Io posso immaginarlo…" ammise Harry, e aprì un occhio per studiare la sua reazione. Gli venne da ridere quando la vide alzare gli occhi al cielo: era il gesto che faceva quando prendeva atto, una volta di più, della strana natura degli uomini. "Ma non credo che riuscirei a farlo."
"No. E’ lo stesso per me" ammise Hermione. "Ma mi piace stare con te, anche senza parlare. Mi piace toccarti, ed essere toccata da te."
Lo guardò negli occhi, e Harry vide che stava cercando di capire se lui avesse colto il senso del discorso. Annuì, per rassicurarla, e la vide sorridere leggermente. Sollevò una mano e gli accarezzò la nuca con la punta delle dita.
"Mi piace tenerti stretto" continuò. Fece una pausa, e Harry pensò che stesse cercando di mettere ordine nelle sue idee. "E’ sempre stato così, anche quando c’era Ron."
"E’ così anche per me" le disse, sincero. "E il sesso non c’entra, anche se probabilmente non è facile capire."
Hermione annuì. "Immagino che questo genere di affinità vada al dilà dell’amore, dell’attrazione, di tutto quanto. E non penso che sia così comune."
Harry le passò una mano fra i capelli, lentamente. "Siamo fortunati, quindi?" chiese, sorridendo.
"Lo siamo." Lei sospirò. Avvicinò il viso al suo, e lo guardò negli occhi. Sorrideva, e quel sorriso, Harry se ne accorse, era pieno di tante cose. "Nonostante tutto, lo siamo."


"Tornerai a trovarmi?" chiese Harry, mentre Hermione si metteva il mantello.
Erano quasi le dieci, e il sole splendeva in un cielo azzurro smagliante.
"Certo…" lei lo guardò, stupita, mentre finiva di allacciare le stringhe sotto la gola, davanti allo specchio. "Credevo di aver messo in chiaro le cose" aggiunse, scherzando.
Harry rise. "L’hai fatto" le assicurò, divertito.
Uscirono nell’aria gelida del mattino, e camminarono cauti fino al cancello, cercando di non scivolare sul ghiaccio. SI ritrovarono in strada.
"E’ una giornata magnifica" osservò Hermione, guardando il cielo.
"Sei sicura che non vuoi che ti accompagni?" chiese Harry, gentilmente. "Mi farebbe piacere."
"No, ti ringrazio." Lei gli sorrise. "Penso che sia meglio non esagerare, la prima volta. Non voglio approfittare troppo della situazione. C’è il rischio che diventi dipendente al punto da dovermi trasferire nelle vicinanze seduta stante."
"Oh." Harry si grattò la nuca. Non sapeva se ridere o restare serio. "Capisco."
Hermione si avvicinò, e gli circondò il collo con le braccia.
"Verrai anche tu a trovarmi, vero?" sussurrò, guardandolo negli occhi.
"Certo" le rispose. "Certo che verrò. Credo di avere il tuo stesso problema."
"Sai, è strano…" Hermione sembrava felice. "Il mondo mi sembra diverso, oggi. Più bello. Luminoso." Fece una pausa. "Più leggero."
"Sì, è vero." Harry la strinse per la vita. "Lo è."
Hermione lo guardò a lungo, senza parlare. Harry cercò di decifrare il suo sguardo, senza successo.
"La ami ancora, Harry…" disse, piano. Di nuovo, non era una domanda.
Il vento le spingeva i lunghi capelli scuri davanti al viso. Harry li scostò distrattamente, e pensò che quella stessa cosa lo aveva tormentato per gli ultimi dodici anni. A volte, nonostante il dolore e la nostalgia, era stato difficile rispondere. Adesso gli sembrava sorprendentemente facile.
"Sì" rispose, con semplicità. "Sempre… e per sempre."
Hermione sorrise, socchiudendo gli occhi per proteggersi dal sole.
"Ed è la stessa cosa che ti ha scritto lei, immagino."
"Qualcosa di simile…" ammise Harry. Sarebbe stato troppo complicato spiegare.
"Le ho detto che le avrei portato la tua risposta" aggiunse Hermione, a bassa voce. "Ma ha risposto che non si aspettava che rispondessi. Ho pensato che fosse soltanto pessimista, che parlasse così per non illudersi, ma adesso ho capito che era certa di quello che diceva."
Harry annuì, lentamente.
"Sapeva che avresti capito, ha detto" aggiunse Hermione, pensosa. "Immagino sia stato così."
"Sì, infatti."
"Non ti va ancora di parlarne…" notò lei, inarcando un sopracciglio.
Harry sorrise, con dolcezza.
"No" ammise, dispiaciuto. "Un giorno, forse. Non adesso."
Lei lo guardò ancora per qualche istante, poi annuì. Si sporse a baciarlo sulla guancia. Harry la strinse a sé, appoggiandole il viso contro i capelli.
"A presto, allora…" mormorò Hermione, con voce soffocata.
"A presto."
Separarsi era sempre difficile, per due come loro. Harry pensò che dipendesse dal fatto che la vita gli aveva già tolto troppo, fino ad allora, e una parte di loro temeva sempre che chi si allontanava troppo corresse il rischio di non tornare mai più.
Hermione si avviò lungo il marciapiede, e Harry rimase a guardarla, appoggiato alla staccionata. Dopo pochi metri, la vide voltarsi.
"Non c’è niente che vuoi che le dica?" chiese. Gridava leggermente, per sovrastare il rumore del vento.
Harry rifletté un istante. Le parole di Ginny - abbiamo perso un’occasione, ma era solo una delle tante – gli rumoreggiavano in testa, come il suono della risacca quando il mare è in tempesta. Quella, pensò, era la parte più complicata dell’andare avanti: riuscire a non avere ripensamenti, a non guardarsi indietro.
Si sforzò di sorridere, e quel semplice gesto sembrò prosciugare le sue energie. Ma non avrebbe vacillato. Non l’avrebbe delusa.
"Se la vedi" rispose "salutala per me".

  
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