Joe era sensibile al fascino delle candele.
Tutti sanno che la penombra è in grado di far apparire le cose diverse da quello che sono, di mascherare la realtà e rendere vaghi ed imprecisi significati e contorni. Non si può dire che il ragazzo avesse contato su quell'effetto, ma nemmeno che non l'avesse fatto. Certo, sapeva che probabilmente non sarebbe servito a molto, che la strada che aveva percorso fino a lì presumibilmente si sarebbe rivelata null'altro che fatica sprecata, che quanto aveva investito in quel momento, lacrime e sangue e sudore, verosimilmente non si sarebbe rivelato, alla fine, che un'insulso regalo ad un Dio ancora più lontano ed evanscente di quanto non lo fosse l'ombra lunga che il suo stesso corpo proiettava lungo la parete chiara.
Lo sapeva, sapeva tutto questo e molte altre cose, eppure non poteva resistere a qualcosa di tanto semplice ad al tempo stesso tanto sofisticato, a qualcosa di tanto immortale e duraturo ed allo stesso tempo tanto effimero e fragile.
Le sue mani si muovevano nervosamente,ora spostando una posata, ora allineando al millimetro i fiori sulla tovaglio scura. Non c'era nulla che fosse fori posto, tutto era perfettamente simmetrico e la stanza aveva l'aspetto di un set perfettamente allestito, eppure, allo stesso tempo, ogni cosa non era al posto che averbbe dovuto occupare. Tutto era simile a come avrebbe dovuto apparire eppure leggermente diverso, solo un partclare, sia chiaro, una sfumatura forse, un atteggiamento: il modo di stare dritta come un fuso della corolla sul gambo, per esempio, era troppo fiero ed altero, l'onda morbida che l'orlo della tovaglia creava non appariva languida ma disordinata, il color crema delle pareti, lungi dal sembrare accogliente e raffinato, sembrava slavato e scialbo.
Non erano che particolari, ma Joe sapeva che in quella sensazione di inappartenenza stava tutta la differenza del mondo.
Fuori nevicava, piano piano ma tenacemente. Nulla di che stupirsi: era quasi dicembre, e nel Montana la neve era persino in ritardo, quell'inverno.
Joe sentì passi lievi e frettolosi scendere la scala alla sue spalle. Non si voltò, sentendosi Orfeo alla disperata ricerca della salvezza, sapendo che nel suo caso ben poco sarebbe stato affidato alle sue mani. "Nevica." disse soltanto.
Un attimo dopo, una mano gentile si posò su di lui, tra la clavicola ed il collo, in quel punto così delicato, così sensibile.
Era un richiamo, ed anche un addio.
"Non posso farlo." mormorò lei, ed ogni parole ragiunse la sua mente come un tradimento, come se un nuovo giorno si fosse alzato con il solo scopo di distruggerlo. "Non posso, Joe. Vorrei, ma questo... non posso chiedere ad un albero di crescere dal nulla."
Joe si voltò. I suoi occhi si posarono sul tessuto celeste della sua camicia, scorsero piano gli scaffali alle sue spalle per poi tornare ai suoi capelli neri, scivolare lungo di essi e puntarsi alla fine nelle sue iridi sincere.
"L'hai ucciso." le disse.
"Non avevo scelta."
"Potevi salvarlo."
Una lacrima solcò il viso della donna, furtiva, colpevole persino. Una punizione, questo sì, ma senza colpa.
"Avrei voluto imparare a crescere... in leggerezza, per lui, per noi. Ci ho provato, Joe, ma non ho imparato."
La sua mano lo lasciò, finalmente, ma anche così presto.
"Non ho imparato a volare."
In quel momento Joe seppe, irreparabilmente, che ogni cosa era perduta.