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Autore: shining leviathan    09/03/2010    6 recensioni
A volte il passato è più vicino di quello che può sembrarci. Sopratutto se convive tra la vita e la morte.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Pain of a woman'
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On  Air : Before  the  dawn ( Evanescence)

 

 

Mi  svegliai all’alba, come ogni mattina, e aprii lentamente gli occhi.

Le pesanti tende di broccato coprivano ancora le finestre, lasciando la nostra stanza immersa nell’oscurità.

Gli odori della notte: sudore, canfora per tenere lontane le zanzare e l’essenza di quella danza proibita ed eccitante che occupava le nostre notti, si mescolavano tra il groviglio di coperte e lenzuola che ci avvolgevano nel nostro piccolo talamo, teatro di passione e amore.

Forse solo passione, a quel tempo.

Io e Learco eravamo ancora giovani, con la voglia di scoprire e scoprirci, assaliti da quell’urgenza adolescenziale che non ci aveva  mai abbandonato in tutti quegli anni.

Ci piaceva rotolarci come una coppia di amanti nella calda intimità delle tenebre, osservati  solamente dai quadri di antenati morti da tempo.

Sorrisi vedendo la sagoma di mio marito abbandonata pesantemente su un fianco e avvolta da un lenzuolo bianco.

Russava, grugniva, sospirava. Cambiò posizione mille volte prima di trovare quella più comoda e io scossi la testa, lasciando che i capelli mi sfiorassero  la schiena nuda.

Seduta sul materasso  spostai la mia attenzione sulla camera, riuscendo a malapena a distinguere il contorno dei mobili già così scuri di proprio.

Sbadigliai, mettendomi una mano davanti alla bocca (più per abitudine che per altro) e decisi di alzarmi, rabbrividendo al contatto dei  miei  piedi col freddo marmo.

Cercai la mia vestaglia a tentoni sul pavimento, piegando il busto in avanti e allungando le dita nella speranza di sentire della stoffa leggera. Gioii silenziosamente quando la trovai a pochi passi dal letto.

Me la misi velocemente, attenta a non svegliare Learco, e mi diressi verso la porta, uscendo dal mio piccolo angolo di paradiso con la stessa discrezione di una ladra.

Bhè, una volta lo ero, ma questo apparteneva al passato.

In quel momento ero Dubhe, regina di Makrath. Un ruolo che all’inizio mi sembrava troppo stretto per una ragazza vissuta da popolana, e che, andando avanti nel tempo, avrei imparato ad apprezzare.

Soprattutto grazie a Learco.

Solo per lui ero andata avanti a testa alta in una corte che disprezzavo perché mi ricordava troppo suo padre, Dohor.

 Quell’uomo  mi aveva ridotta all’ombra di me stessa.

Non dimenticherò mai l’orribile sensazione di trovarsi contesa tra due parti della mia anima, bestia e non, in una voragine buia e priva di logica.

Scossi la testa più forte, scacciando i fantasmi del passato che bussavano alla mia porta.

Ma ai dolori passati si aggiungono sempre quelli presenti, in un ciclo di delusione  e rabbia.

Era inevitabile, come era inevitabile l’arrivo dell’autunno.

Fuori, una foglia cadde da un ramo.

L’autunno era qui, e piansi.

 

 

“ Come si sente, maestà?”

“ Come al solito” replicai freddamente “ Come dovrei sentirmi?”

Il guaritore sembrò non curarsi della mia ostilità e continuò a visitarmi, sotto lo sguardo ansioso di Learco.

Mi si spezzò il cuore.

Non riuscivo a sopportare tutta quella patetica speranza che ogni volta gli animava gli occhi, sapeva bene che una cosa del genere a me non sarebbe mai potuta capitare.

Il miracolo di una nuova vita non poteva maturare nel corpo martoriato di un’assassina.

Potevo dargli tutto ciò che voleva, ma non un figlio. Le probabilità di rimanere incinta erano molto basse.

Avevo trentacinque anni e un passato orribile alle spalle.

Lo stesso passato che mi impediva di godere della gioia di essere madre, di essere donna.

La bestia rannicchiata nel mio ventre mi aveva portato via anche questo…

Non avrei potuto stringere a me la creatura che avrei chiamato mia, nostra.

Non avrei potuto consolarlo quando piangeva o nutrirlo quando aveva fame. Non avrei potuto vederlo crescere se non nei miei sogni.

Queste erano cose che davo per scontate quando ero piccola, ma adesso mi sembrava anche solo impossibile prendere in braccio il figlio di un altro, guardare le sue guancie rosee e dire che non somigliava a me.

Vedevo le giovani madri in giro per la città coi figli e non potevo fare a meno di odiarle, gelosa di una fortuna che a me era stata negata. Sempre.

Mi morsi le labbra, aspettando una diagnosi che ormai conoscevo troppo bene.

Come battute di un copione, le parole del guaritore mi piombarono nelle orecchie con la stessa pesantezza di un macigno.

“ Mi dispiace, altezza, non è incinta”

Infatti.

Mi misi a sedere, tirandomi giù il vestito verde, e incrociai lo sguardo di Learco.

I suoi meravigliosi smeraldi si incupirono, lasciando una vuota rassegnazione a far da padrona.

“ Mi dispiace, Learco” pensai allacciandomi il corpetto “ Io vorrei darti un figlio, lo vorrei davvero, ma..” mi tremarono le dita, tanto che non riuscii a far passare i laccetti nei passanti, e chinai il capo, sconfitta dalla mia stessa tristezza che premeva prepotentemente per uscire.

Barcollavo nella nebbia, senza che riuscissi a trovare un filo logico al mio caos interiore.

Un velo di lacrime offuscò i miei occhi e ignorai la mano di Learco che si era posata un momento sulla mia spalla per consolarmi.

Sapeva che in quei momenti volevo essere lasciata sola, così seguì il guaritore fuori dalla stanza.

“ In tutto rispetto maestà” lo sentii dire mentre chiudeva la porta “ Comincio a maturare il sospetto che vostra moglie sia sterile. Non potrà mai darvi un erede”

Non ascoltai la risposta di Learco. Un fischio acuto e prolungato mi invase le orecchie, provocandomi delle fitte alle tempie.

Strinsi le mani alla testa, serrando gli occhi per ricacciare indietro le lacrime.

Profondi singhiozzi scossero il mio petto come una disperata eco alla mia sofferenza.

Piccole perle d’acqua mi scivolarono lungo le guancie, bagnandomi la gonna scura.

Tutta la mia frustrazione esplose in un millesimo di secondo.

Mi alzai in piedi, quasi di scatto, e fissai le cose intorno a me con rabbia, come se le considerassi responsabili di qualche torto.

Afferrai un delicato vaso di cristallo poggiato su una cassettiera e lo gettai a terra, con forza, mandandolo in frantumi.

Pezzi di vetro schizzarono in ogni angolo della stanza, ferendo i miei piedi nudi. Ma non me ne importava nulla.

Feci cadere delle statuette di giada e mi avventai contro un dipinto, lacerando  la tela e rovinando la cornice con le mie unghie corte ma taglienti.

Mi diressi verso la finestra, calpestando i cocci, e con un urlo le squarciai, gettandole a terra.

Le allontanai con un calcio e osservai, ansimando, la distruzione che avevo seminato.

Non ero soddisfatta, non ancora.

Mi piegai a prendere il poggiapiedi di raso e lo sollevai verso l’alto, pronta a lanciarlo verso la finestra, ma mi bloccai immediatamente.

Davanti ai miei occhi arrossati e sgranati per la sorpresa stava lui.

Il Maestro, Sarnek.

Ritto in piedi, fiero con lo stesso viso giovane e fresco di quando l’avevo conosciuto. I capelli rossi incorniciavano i lineamenti virili e gli occhi grigio azzurri mi fissavano intensamente, riflettendo lo stesso divertimento che gli piegava la bocca in un aperto sorriso.

La stretta sulle gambe del piccolo poggiapiedi  si allentò, finchè non lo lasciai cadere con un tonfo dietro di me.

Abbassai lentamente le braccia, come se temessi che scomparisse da un momento all’altro, e lo studiai a mia volta, con profondo stupore.

Dischiusi la bocca, cercando di articolare qualche suono, ma ciò che uscì fu solo un rantolo soffocato e Sarnek alzò un sopracciglio, in paziente attesa di una mia reazione.

Con gli occhi incollati nei suoi, feci un passo in avanti.

“ S-Sarnek?” sussurrai piano.

Sarnek non rispose, abbassò lo sguardo sulle mie dita, sulle unghie scheggiate e sanguinanti.

Arrossì, sperando che non notasse anche le impronte rosse dei miei piedi sul bianco del marmo.

“ Io….. tu, cosa?”

Non sapevo davvero cosa dire.

Ero sorpresa, felice, impaurita e arrabbiata al tempo stesso.

Lui non dovrebbe essere qui, notò la parte sorpresa di me

Lui è qui! La interruppe la parte felice

Perché è qui? Chiese quella impaurita

Perché mi ha lasciato? La rabbia per avermi lasciata sola bruciava ancora.

Troppi sentimenti che lottavano nel mio animo. Troppe domande che non avevo il coraggio di fare si persero ancor prima di venire pronunciate e io non riuscivo a formulare un pensiero coerente.

D’altronde, ritrovarsi davanti una persona che credevo morta da tempo fu un bel colpo. Soprattutto perché gli avevo voluto molto bene .

Soprattutto perché lo avevo amato come un padre e poi come qualcosa di più.

La prima reazione sarebbe stata quella di saltargli al collo, versare tutte le lacrime dalla gioia.

Così feci, all’improvviso, visto che le parole servivano così poco in un’occasione come quella.

Lui allargò le braccia, pronto ad accogliermi, e mi sentii morire dalla felicità.

Ma ben presto, l’illusione di poter  trovare  rifugio tra i suoi possenti arti sfumò come fumo. Come lui.

Si dissolse in una nube fredda, che mi ghiacciò le ciglia, umide di pianto, e caddi sbattendo i denti.

Il sapore del sangue mi inondò la bocca e gocciolò dalle mie labbra, macchiando il prezioso tappeto di Fammin.

Ma cosa..

Mi misi seduta, tenendomi una mano sulla bocca, e mi voltai verso di lui.

Potei notare rammarico, sgomento nelle sue iridi glaciali, e il sorriso che prima percorreva il suo volto era sparito.

Al suo posto vi era una smorfia impotente.

Forse anche lui lo desiderava quanto me, toccarmi e tutto il resto, ma non poteva.

I fantasmi non si possono toccare, vero Sarnek?

Il mio Maestro era uno spettro, ma non ebbi paura. Ero triste.

Anche se era davanti a me non avremmo mai potuto tornare quelli che eravamo.

Eravamo vicini e lontani allo stesso tempo, separati dalla barriera della morte e del miracolo in un confine che si faceva sempre più labile.

Volevo varcarlo quel confine, anche se avrebbe fatto male.

“ Du..”

Cosa?

Lo fissai, in attesa di chiarimenti

Cosa vuoi dirmi,Sarnek?

“ Du…bh..e” il mio nome sulle sue labbra suonava così seducente seppur frammentato, e il mio cuore cominciò a battere velocemente.

“ Sì?” mormorai emozionata.

Lui digrignò i denti, come se gli costasse uno sforzo terribile parlare.

“ Io…t..t..ti” mi sporsi, per capire meglio quelle parole masticate.

“ T..t”

“ Dubhe!”

Sobbalzai. Davanti a me non c’era più Sarnek.

C’era Learco, il viso stravolto dalla preoccupazione.

“ Dubhe, che è successo?

Battei le palpebre un paio di volte, sorprendendomi nel sentire che non fossero più congelate, mi guardai intorno, smarrita da tanta confusione.

“ Io” mormorai  “ Non lo so, davvero”

“ Scusa”

Non seppi mai con certezza se quella parola la pronunciai io o Learco. Non ero neanche sicura di aver visto Sarnek.

Era stato tutto un sogno, pensai.

Ma le cose andarono in maniera diversa. E il sogno si trasformò in incubo.

 

 

Verso la fine di novembre, non so come ne perché, rimasi  incinta.

Avevo un ritardo di quasi  due settimane, ma non ci badai molto.

Spesso e volentieri il mio ciclo era irregolare come un orologio rotto, e sfiduciata com’ero non compresi che un piccolo germoglio di vita stava crescendo in me.

Ignorai addirittura le nausee, imputandole a qualche cosa che mangiavo, e continuai ad allenarmi nonostante il mal di schiena si facesse più forte ogni settimana che passava.

Learco notò per primo che c’era qualcosa che non andava e chiamò nuovamente il guaritore. A nulla servirono le minacce per farlo desistere.

Così, quasi due mesi dopo, mi ritrovai nella stessa stanza, rimessa a nuovo, stesa sul letto con espressione corrucciata mentre il guaritore mi auscultava il petto.

Ma quel che disse, quando terminò, non fu una laconica scusa.

“ Congratulazioni, maestà” disse con un sorriso “ Avrà un bambino”

Learco s’illuminò e si chinò ad abbracciarmi, mormorando al mio orecchio che mi amava e che era l’uomo più felice su quella terra.

Io piangevo, per la prima volta, di gioia.

Finalmente avrei avuto ciò che mi era stato negato per anni.

Un bambino, non potevo crederci.

Eppure era tutto reale. Guardavo i servitori che preparavano l’occorrente per la festa, con espressione raggiante. Ridevo, scherzavo, affiancavo Learco nei  vari impegni , sentendomi realizzata nel vederlo così di buon umore.

Era tutto perfetto, non mi pareva vero.

Infatti …… troppo perfetto per durare a  lungo.

 

 

La sala era gremita di gente stretta in abiti eleganti.

Profumi e aromi molto diversi tra loro  mi salivano per le narici, provocandomi una leggera nausea e mi aggrappai ancora più saldamente al braccio di Learco.

Stava parlando con una coppia, della Terra del Fuoco, ma non ricordo il titolo nobiliare.

In quel giorno di festa anche la servitù si lasciava andare nel vortice delle danze, mandando al diavolo le differenze sociali di chi stava volteggiando con loro.

Seguivo il tutto con stanchezza. Ero molto provata e la schiena mi doleva in maniera terribile.

Ma non potevo  abbandonare la festa, dopotutto ero io la festeggiata. Io e il piccolo.

La pancia mi sporgeva già un po’ dal vestito da festa, tondeggiante e sana.

Chiusi gli occhi, sperando di combattere il giramento di testa, ma quando li riaprii poco ci mancò che urlassi.

Sarnek era affiancato alla dama riccamente agghindata, senza che lei si accorgesse della sua presenza, e mi fissava in modo strano,rabbioso.

La festa,gli invitati, la musica… tutto scomparve ai miei occhi, lasciando posto ad una distesa scura senza inizio ne fine.

Ero sempre aggrappata a Learco, che continuava a parlare senza che a me importasse nulla. Per me c’era solo lui, Sarnek.

Restai diversi secondi a guardarlo, chiedendomi se fosse un’allucinazione o meno, poi mi decisi a parlare.

“ Cosa..?” prima che potessi finire la frase i suoi occhi si spostarono su Learco, squadrandolo con un odio tale da farmi rabbrividire.

Strinsi maggiormente il braccio di mio marito, come a volerlo difendere da quegli sguardi assassini, e minacciai il mio antico mentore con un’occhiataccia.

Non doveva neanche azzardarsi a fargli del male.

Fantasma o non fantasma gliel’avrei  fatta pagare comunque.

Sarnek  saettò gli occhi prima dall’uno poi dall’altra e fece un passo indietro, scuro in volto.

Non  proferì  verbo, ma capii subito che voleva che lo seguissi .

Si voltò, e il buio in cui eravamo piombati poco prima si dissolse, tornando la caotica folla che ballva e beveva.

Senza dire nulla, ne una scusa ne un commiato, mi liberai dalla stretta di Learco e corsi verso la porta, seguita da molti sguardi interrogativi.

Non persi di vista il suo mantello logoro e lo seguii fino alla sala musica, in disuso da anni.

Solo i vecchi strumenti impolverati furono i muti testimoni di quel che successe.

“ Sarnek”

Spostò la sua attenzione su di me, sorridendo sinistro.

Un brivido mi scosse fino alla punta dei capelli e ,inconsciamente, arretrai.

La figura dell’uomo che avevo  amato, riluceva pericolosa nella penombra, troppo irreale ed eterea per essere umana.

Si avvicinò a me e io indietreggiai ancora, ma sbattei la schiena contro la porta, precludendomi ogni possibilità di fuga.

Non ebbi mai paura di lui come in quel momento.

Allungò una mano verso di me e chiusi gli occhi, voltando la testa di lato. Ero terrorizzata, non volevo guardarlo, lui non era il Sarnek che avevo conosciuto.

Era un mostro. Freddo come le dita che toccarono lievemente il mio ventre.

Aprii le palpebre di scatto e tentai di allontanare quella mano mortifera dal mio bambino, ma ciò che strinsi fu solo aria, aria gelata.

Non poteva toccarmi come io non potevo toccare lui e questo pensiero servì a calmarmi un po’. Ma durò poco.

Lo vidi abbassare gli occhi sul pavimento e io lo imitai, trasalendo di orrore a ciò che vidi.

Sangue, il mio sangue, tanto sangue che si allargava in una chiazza scura ai miei piedi.

Subito non capii, avvertii lo scivolamento viscido e disgustoso come un fastidio ripugnante, ma il sorriso sadico di Sarnek servì ad illuminarmi.

Avevo perso il bambino.

Per colpa sua.

Le sue iridi bellissime e letali furono l’ultima cosa che vidi prima di piombare nell’oscurità.

 

 

L’illusione era durata appena una settimana.

Il bambino ci aveva lasciati prima ancora di vedere la luce.

Learco era distrutto, potevo vederlo dai suoi movimenti, dal suo umore , sempre più spesso nero, e io intanto collassavo.

Dicevano che era stato un aborto spontaneo, una cosa naturale.  Ma io non avevo abortito.

Lui mi aveva costretto ad abortire. Insinuando la morte nel grembo dove stava crescendo mio figlio.

Nel sangue, aveva ucciso la mia felicità e fu a quel punto che cominciai ad odiarlo.

La vita cominciò a rivoltarmisi  contro, spingendomi  verso un’inesorabile oblio.

Io ero il cavallo e lui il cavaliere. Teneva lui le redini….

E io dovevo subire.

 

Tre giorni dopo la tragedia, tentai di convincere Learco ad avere un altro bambino.

Mi aveva portato in braccio fino alla nostra camera, perché poco prima ero svenuta, e mi adagiò delicatamente sul letto. Io lo trattenni, afferrandogli  il bavero e guardandolo con occhi supplicanti.

Capì cosa volevo ma, stranamente, sembrò titubare.

“ Dubhe” mi disse cercando di sottrarsi alla mia presa “ Adesso no, ti prego. Devo tornare al consiglio, non posso tardare e..”  il gridolino che uscì dalla mia bocca lo fece irrigidire.

“ Che succede??” domandò,vedendo che guardavo in un punto indefinito dietro di lui.

Si girò un momento, ignaro della presenza di Sarnek.

Ci stava di nuovo guardando come quel giorno alla festa, con rabbia, gelosia e stava stringendo un pugnale d’osso nella mano sinistra.

Boccheggiai  spaventata e tirai Learco verso di me, facendomelo cadere addosso.

Il suo peso contro il mio corpo ristabilì  di  poco la mia sicurezza e non feci caso alle sue  proteste in cui mi dava della bambina. La scintilla negli occhi di Sarnek si fece sempre più minacciosa, ma non avevo paura. Non quella volta.

Non ero sola, c’era il mio uomo. L’uomo che poteva toccarmi, accarezzarmi, baciarmi. Tutte cose  a lui precluse.

Il peso della morte si sente dalle cose che tu non potrai più fare, vero Sarnek?

Sorrisi di quel piccolo privilegio. Il privilegio di poter torturare un fantasma  e vendicarsi  al tempo stesso.

Presi il viso di Learco e lo portai verso il mio, facendo incontrare le nostre labbra in un bacio appassionato e voglioso.

Lui, dapprima sorpreso, ricambiò con la stessa foga, abbandonandosi  completamente  contro di me.

Immerso in quel contatto non notò che io avevo aperto gli occhi, puntandoli dritti, dritti in quelli del Maestro. Lo sfidai, lo provocai, lo maledissi solo con uno sguardo e lui abbassò il pugnale, con un gesto pieno di astio.

Le pupille dilatate e il respiro accelerato mi aiutarono a capire che la mia piccola ripicca stava funzionando, il supplizio a cui lo stavo costringendo ad assistere lo incendiava di ira, e non poteva fare nulla per impedirmelo.

Questa è la MIA vita, tu non puoi  farne parte.

Mi sbagliavo.

 

Gennaio era alle porte.

Le nevicate si susseguivano una dietro l’altra, imbiancando i tetti delle abitazioni e il grande giardino con una coltra fine e candida.

Seduta su una sedia davanti al davanzale, osservavo i  fiocchi  volteggiare per aria. Immersa in una quiete sacrale e perfetta.

I rumori del palazzo mi giungevano attutiti , come se l’atmosfera rilassata e calda li avesse inglobati nella sua sfera di pace.

Chiusi gli occhi, giungendo le mani al grembo, e poggiai la schiena contro lo schienale imbottito.

Alle mie spalle, la porta si aprì, senza emettere un cigolio e dei passi leggeri sul pavimento mi fecero sorridere. Learco pensava di potermi cogliere di sorpresa, ma ero preparata.

“ Ti ho sentito arrivare” mormorai con la voce leggermente rauca per il prolungato mutismo.

Nessuna risposta, solo il fruscio di stoffa contro la pelle.

Sospirai e con un dito indicai le mie labbra, sentendo qualcosa di caldo subito dopo.

Una lingua irruente entrò con forza nella mia bocca, esplorandola, assaggiandola, mordendola, mischiando la sua saliva con la mia. Un brivido bollente mi percorse la schiena e aprii un po’ gli occhi.

Ciò che incontrai non furono due smeraldi allegri e pieni di vita, ma una calotta glaciale con qualche venatura grigiastra.

SarneK

Spalancai gli occhi e scattai in piedi, interrompendo quel focoso bacio. Tremavo, non più di eccitazione, fissando la sua espressione beffarda con le labbra dischiuse e lucide. Le toccai, sentendo che fremevano vogliose, e scossi la testa.

“ No.. tu..”

Mi aveva baciato, avevo provato sensazioni  umane. E mi era piaciuto.

“ Non puoi toccarmi!”

Sarnek rise, folle, e si avvicinò ancora, con una malizia per niente celata.

Allungò una mano per sfiorarmi la guancia, ma prima ancora che potesse farlo io mi ero voltata, fuggendo il più velocemente possibile.

L’incubo aveva mani materiali, ora.

L’incubo si trasformò in una realtà terribile.

 

In men che non si dica, compresi  che  le mie paura avevano un’altra  arma per ferirmi.

La presenza di  Sarnek non era più illusione, ma fatti. E i fatti erano più pericolosi delle illusioni.

Il fantasma da cui credevo di potermi  difendere  era una persona che camminava coi vivi da una parte e coi morti dall’altra, andando a braccetto con gli incubi che tormentavano le mie notti. In una sequenza di sangue e orrore.

Avevo paura, una paura folle, ma non potevo chiedere l’aiuto di nessuno dato che lo vedevo solo io.

Mi poteva anche uccidere, non un anima l’avrebbe notato. E questo mi turbava, come mi turbavano  i suoi sguardi a Learco. Mentre facevamo l’amore era sempre lì, carico di odio e rancore, e io cercavo inutilmente di celarlo alla sua vista, mettendomi sopra di lui in modo che non potesse colpirlo alle spalle.

Arrivai al punto di temere la mia stessa ombra, credendo che ci fosse lui pronto a infilzarmi.

Una notte, addirittura, successe una cosa che non seppi mai se fosse accaduta  realmente o no.

Ero avvolta nelle coperte, in un dormiveglia agitato, quando sentii uno spiffero d’aria gelarmi la schiena. Scattai seduta e lo vidi di fianco a me, seduto sulla sponda del letto. Mi ritrassi, portando le lenzuola a coprirmi il petto.  E mi accorsi di essere sola.

Cercando di domare la paura, lo fissai negli occhi e sibilai.

“ Cosa vuoi da me?”

Sarnek piegò la testa di lato, concedendomi uno sguardo dolce, che mi spiazzò. Poi si alzò in piedi, riprendendo quell’aria beffarda ,e cominciò a spogliarsi sotto i miei occhi,sbarrati.

Quando l’ultimo vestito cadde a terra, con un notevole imbarazzo da parte mia, si mise a carponi sul materasso e mi raggiunse, afferrandomi le spalle prima che io potessi fuggire. Mi schiacciò sotto di lui, percorrendo il mio corpo con uno sguardo famelico. Portai la mano al seno, in un patetico tentativo di coprirmi, e cercai di sbilanciarlo per potermi liberare. Ma qualsiasi tentativo di ribellione fu sedato da parte sua con un bacio, seguito da un altro e un  altro ancora.

La mia resistenza crollò e mi lasciai andare in quelle sensazioni  calde ed eccitanti, sfiorando i muscoli del torace e attirandolo a me.

Indescrivibile fu ciò che provai. Era molto diverso da Learco in quel genere di cose.

Era bravo, sapeva quali tasti toccare per darmi piacere, sapeva come entrare dentro una donna facendola urlare di estasi.

Dall’inferno mi ritrovai in paradiso, sovrastata da quel demone travestito da angelo, e ne volli ancora, ancora, ancora ….

 

Svegliandomi, il mattino successivo, mi ritrovai nell’abbraccio di Learco che dormiva placido con la testa poggiata sul mio seno.

Cos’era successo?

Chi era illusione, chi era realtà?

Ero sempre più confusa.

 

Per metà era mio, ne ero sicura, ma dire chi era il padre era molto più difficile.

L’avevo partorito tre mesi prima, dopo un travaglio di diciotto ore, in una stanza che puzzava di medicinali e disinfettante.

Avevo la fronte imperlata di sudore e un dolore terribile al basso ventre, che mi faceva contorcere sul materasso come un’anguilla in agonia. Stringevo i denti, mentre qualcuno mi esortava a spingere e mi passava un panno sulla pancia enorme.

Respiravo a scatti, cercando di non strillare per le fitte, e facevo ciò che mi era richiesto, sperando che quella tortura avesse presto fine. Nacque nella prima metà della sera, piccolo e fragile come un’uccellino.

Il suo pianto, per prendere aria, non suscitò in me alcuna emozione, se non una vuota indifferenza che non scemò neanche quando me lo misero in braccio. Sentivo di aver fatto il mio dovere nient’altro.

Learco era felice e non sapeva che ,forse, il bimbo non era suo.

Il regno era felice perché, finalmente, aveva un erede.

Io ero indifferente. A tutto e a tutti.

Lasciai scegliere il nome a Learco, che lo chiamò Neor. In memoria dello zio morto.

Per me non aveva alcuna importanza. Mi chiedevo solo chi fosse il padre.

Mi alzai e mi diressi verso la culla infiocchettata, prendendo il piccolo che dormiva beato ,avvolto nelle fasce. Le guancie rosee sarebbero state una tentazione per tutti, ma non per me.

Scrutai torva i lineamenti per intravederci anche solo una traccia del peccato commesso, trovando che somigliava in maniera incredibile a Learco. Ma di sicuro non poteva essere lui.

Era Sarnek il padre.

Nel modo in cui Neor piangeva, sorrideva, gorgogliava ci vedevo lui. Vedevo la sua stessa decisione e sfacciataggine, ma gli occhi smeraldini non lasciavano dubbi.

Lo guardai finchè non si svegliò per la poppata, allora lo attaccai velocemente al seno.

Mi sedetti sul letto, fissando l’ingordo fare incetta del mio latte, succhiando voracemente senza interruzioni.

Lo stavo ancora allattando quando lo vidi. Giovane e fiero come una volta, fissava il mio bambino con odio e, inconsciamente lo strinsi forte a me.

“ Cosa c’è, Sarnek?” domandai secca “ Sei geloso della mia felicità o perché non ci sei tu al suo posto?”

Suo figlio lo stava privando del privilegio di potermi avere con se, e questo gli bruciava.

Ma era un fantasma, per quanto reale potesse essere, rimaneva sempre un fantasma.

 

 

“È un bambino delizioso ,Dubhe!”

“ Sì, davvero”

“ Tutto il papà! Così carino…”

“ Non ne sarei tanto sicura…”

“ Che intendi dire?”

“ Niente, Theana, ero sovrappensiero”

 

 

Leggere in giardino era l’alternativa migliore a quel caldo torrido.

Sedevo nel piccolo gazzebo, con la culla di Neor vicino, mentre ero tutta presa dalla lettura di un testo di storia, scacciando le fastidiose mosche che mi ronzavano intorno alle orecchie. I profumi delle piante conciliavano i miei pensieri, formulati con lo stormire delle foglie.

Il sole lanciava bagliori accecanti, chiazzando il prato in ombra di piccole macchie gialle, le uniche che filtrassero attraverso la chioma folta delle querce.

Alzai un momento gli occhi dalla pagina per controllare il bambino.

Un gelo terribile prese il posto del caldo, bloccandomi il respiro in gola.

Il libro mi scivolò dalle mani, finendo a terra, mentre il tempo intorno a me rallentava.

Sarnek, sguainò il pugnale, sollevandolo per colpire il picccolo. Odio e soddisfazione negli occhi folli.

In quell’orribile momento compresi cosa volesse dire amare il proprio figlio più della vita.

“ NOO!!” afferrai il mio pugnale dalla cintola e fermai la lama del Maestro, incrociandole con un canglore che tuttavia non turbò il sonno di Neor. Dormiva avvolto nel lenzuolino che Theana gli aveva regalato.

Sarnek ghignò, e fece forza per contrastare la mia controffensiva, sforzando i muscoli del braccio per spezzare la mia lama.

Gemetti, resistendo alla  pressione, e abbassai lo sguardo su mio figlio. Non potevo permettere che lo facesse. Suo o di Learco, non avrebbe mai toccato Neor nemmeno con un dito.

Il suo sorriso si smorzò, diventando una smorfia di disprezzo, e continuò a spingere le due lama incrociate verso la gola del neonato. Perdetti  il vantaggio per un attimo e quasi riuscì ad affondare la punta del pugnale nella carne ma ,con sforzo, riuscii ad evitarlo.

“ Tu..” mormorai col braccio che minacciava di spezzarsi per la forza utilizzata “ Non hai alcun controllo sulla mia vita!” separai le lame con uno scatto e la sua espressione mutò in sorpresa “ Vattene..” indietreggiò, finalmente spaventato dai miei occhi fiammeggianti di rabbia “ VATTENE!!” e scattai affondandogli la lama nel petto.

Non mi sorpresi del sangue che macchiò la mia mano, ne del rantolo soffocato che uscì dalla sua bocca.

Mi sorprese il suo sorriso, le sue iridi improvvisamente più pure, la carezza che mi diede, sfiorandomi i capelli. Il sapore ferruginoso che invase la mia bocca quando le diedi un timido bacio di addio.

Gli occhi mi bruciarono e li serrai, per non vederlo scomparire di nuovo dalla mia vita in una nube di fumo.

La vita intorno a me andava avanti, non si curò delle mia lacrime, del pianto di Neor.

Bisognava andare avanti, lo sapevo.

Ma delle volte la vita è molto più difficile della morte.

Lo sapevo, ma andai avanti.

Come era giusto che fosse.

Per sempre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fine!!!!!! Cavoli è stata una faticaccia scrivere questa shot e non so nemmeno se è bella. Di sicuro è luuuuunga -_-“( ahio la mano..)

La troverete un po’ strana, non saprei neanch’io come definirla, anche perché non ce l’avevo bene in mente all’inizio.

Unico appunto: non sono sadica! Solo che immagino i personaggi al di la dei loro stereotipi, con le loro paure e tentazioni. Dopotutto sono umani anche loro!^__^

Ditemi cosa ne pensate e grazie per eventuali commenti, oh! Grazie per chi ha recensito le mie altre fic

CiaOOOO!

 

 

 

 

  
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