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Autore: CaskaLangley    13/03/2010    21 recensioni
"Avevano detto che nessuno sarebbe più morto a causa loro. Roy Mustang li conosceva abbastanza bene da sapere che dicevano sul serio." [Roy/Ed/Al implicito in varie combinazioni e in ordine sparso, suppongo. Francamente non avevo priorità romantiche, mentre scrivevo.]
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alphonse Elric, Edward Elric, Roy Mustang
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Prima di cominciare: non perdetevi le note, che c'è una cosa sfiziosa per tutti u_u xD

*


A quei tempi meravigliosi in cui la Teologia fiorì con più linfa e vigore, si racconta che un giorno uno dei più grandi fra i dottori, - dopo avere scosso i cuori indifferenti e averli rimescolati nelle loro nere profondità, dopo essersi aperto verso le glorie celesti strane vie a lui stesso ignote, cui erano giunti soltanto puri spiriti - come fosse salito troppo in alto e il panico l'avesse preso, gridò trasportato da un orgoglio satanico: "Gesù, piccolo Gesù, io t'ho innalzato troppo! Ma se t'avessi voluto attaccare dove ti mostri più debole, la tua vergogna uguaglierebbe la tua gloria, tu non saresti più che un risibile feto."
 
Avevano detto che nessuno sarebbe più morto a causa loro. Roy Mustang li conosceva abbastanza bene da sapere che dicevano sul serio.

  Si dice “pioveva che Dio la mandava”. Questo dovrebbe supporre una certa rabbia, da parte di Dio.
Quando Roy aveva guardato fuori dalla finestra, quel mattino, subito dopo la telefonata, si era sentito quasi sollevato. Da ore contemplava il cielo in silenzio, rispondendo solo di rado alle domande che Riza gli poneva, scosso da una sensazione fredda e angosciante che non avrebbe stentato a definire un presagio.
Lo squillo del telefono era stata come la condanna che finalmente si abbatte sulla testa del colpevole.
Adesso i suoi passi pesanti risuonavano nei corridoi dell’ospedale, e li sporcavano di fango perché aveva avuto troppa fretta per pulirsi gli stivali. Non aveva preso neanche l’ombrello, era zuppo e i capelli gli si appiccicavano alla faccia, ma non era mai stato più lontano dal preoccuparsi per una facezia simile.
Lo fecero passare senza chiedere chi fosse, la divisa o forse la sua faccia parlavano per lui – la faccia di chi sta andando ad affrontare un toro. O un torello, nel suo caso. Non che le dimensioni lo rendessero meno letale.
C’erano degli uomini alla porta, così angosciati che quando lo videro si sollevarono come ragazzini. Certo, passavano a lui la patata bollente. E come poteva pretendere il contrario, era stato lui a raccogliere due mine vaganti e a integrarle nell’esercito. Si poteva dire che avesse volontariamente messo il piede in una tagliola.
Entrò nella stanza e loro erano lì, al capezzale della donna, e quando lo sentirono si voltarono insieme. A volte si sorprendeva ancora di quanto si somigliassero, e lo constatava con un brivido sgradevole, anche se non riusciva a capirne il motivo.
Alphonse aveva abbassato lo sguardo, come un bambino in previsione di una sgridata, invece Edward lo fissava con la solita nota di fastidio, come a dire “è arrivato il guastafeste”.
Aveva raccolto due bombe, sì, e si sarebbe aspettato di scagliarle addosso ai suoi nemici.
Non aveva idea che gli sarebbero esplose in mano.
 
Doveva essere un’operazione di routine, ma difficilmente la routine di un soldato è piacevole.
Una chimera in un sobborgo di Central; Roy aveva pensato che Edward potesse cavarsela benissimo da solo, ma anche se Alphonse non era mai diventato un alchimista di stato, era comunque qualcosa di molto simile a un’emanazione del fratello, imprescindibile da lui almeno i quanto i suoi arti d’acciaio. La battaglia era stata più dura del previsto e gli uomini di supporto avevano evacuato la zona, riducendo lo spreco di vite umane. Riducendolo, non annullandolo. C’erano due vittime; una donna, schiacciata dalle macerie di un palazzo, e il bambino che portava in grembo. I dottori non potevano salvarlo, era troppo presto anche per un parto cesareo, e senza nutrimento sarebbe morto nel giro di qualche ora. Mentre gli spiegavano questo, al telefono, Roy aveva capito esattamente a cosa stava andando incontro.
“Scordatevelo. Non vi darò mai il permesso di fare una cosa del genere.”
Edward lo guardò quasi con sufficienza: “Il permesso?”
Alphonse era appoggiato alla finestra, dove la pioggia si schiantava grossa e rancorosa. Sembrava quasi che stesse tentando di raggiungerli. Roy in qualche modo ne era intimorito e gli dette le spalle.
“Sono un tuo superiore, e ti ordino di tornare al quartier generale e di fare rapporto.”
“Lo farò dopo.”
“Non c’è nessun dopo, se fate questa cosa finirete davanti alla corte marziale.”
“Non se ne accorgerà nessuno, se lei non fa la spia.”
Fare la spia. A questo si riduceva il loro mondo, a una riproduzione in scala della vita scolastica. Non erano mai cambiati, non davvero. Erano ancora ragazzini che non riuscivano ad accettare l’idea della morte.
Roy si appoggiò al muro, esasperato. La cosa peggiore, della loro testardaggine, era sapere quanto fosse incorreggibile. Poteva farli portarli via anche di peso, chiuderli in una stanza e mettere guardie alle porte e alle finestre – che diavolo, poteva anche ucciderli- e in un modo o nell’altro loro sarebbero tornati in quell’ospedale e avrebbero fatto comunque di testa loro. Sospirò e si finse ammansito, sperando in grazia che nel frattempo gli sarebbe venuta un’idea: “Va bene, che cosa avreste intenzione di fare?” Sottolineò il condizionale anche con lo sguardo e a Edward non piacque, ma incrociò comunque le braccia e rispose: “Il concetto è semplice, in realtà: la madre fa da incubatrice al bambino, esatto? Quindi basterà spostarlo in un’altra incubatrice.”
“Non è così semplice, un bambino…”
“Ho detto che il concetto è semplice non che è semplice” lo corresse lui, infastidito. Roy dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per non dargli semplicemente una botta in testa e trascinarlo via.
Scusa” ringhiò, aggrottando la fronte. Edward sbuffò come se stesse parlando con una mente inferiore, poi ricominciò: “Possiamo spostare il bambino con l’alchimia. E con lui la placenta e…tutto il resto.”
Roy quasi rise: “Tutto il resto? Oh, è bello vedere che ti sei documentato, almeno siamo in buone mani!”
“Sto cercando di farla breve, ma lei non mi sta aiutando!”
Roy si finse contrito: “Oh, Edward, scusami, mi rendo conto che le mie domande ossessive sono fuori luogo.”
Edward non colse l’ironia e disse “sì, infatti”. Roy stava ripensando a tutta la faccenda della botta in testa, sarebbe riuscito a colpirlo abbastanza forte da stenderlo? Portò una mano alla fronte e si massaggiò le tempie: “Va bene, Edward: come penseresti di fare?”
“Posso elaborare un cerchio alchemico adeguato in un paio d’ore, abbastanza in fretta perché il bambino sia ancora in forze.”
“E alla madre non hai pensato?”
“Mi sa che non posso più fare tanti danni, non crede?”
“Non intendo fisicamente, idiota, ma non hai pensato che potrebbe non apprezzare che si facciano esperimenti vodoo con suo figlio?”
“Non è vodoo, è alchimia. E comunque è una figlia.”
“Questo cambia tutto.”
“Senta, se deve--”
“Le abbiamo parlato…” sussurrò Alphonse, che era stato così silenzioso da far dimenticare la sua presenza. Si era seduto sul davanzale e dondolava nervosamente le gambe. “Le abbiamo promesso che avremmo fatto il possibile…”
Roy si mise le mani nei capelli. Le promesse ai morti, bene, ci mancavano solo quelle! Sospirò, rendendosi conto che il suo acerbo abbozzo di piano era già andato in fumo. Per tutto quel tempo aveva pensato: almeno c’è Alphonse. Era il più ragionevole, dei due, l’unico con un brandello di qualcosa di molto simile al buon senso. Ma se Roy non aveva idea di che cosa significasse avere un fratello, avrebbe dovuto conoscere l’esercito abbastanza bene da sapere che un generale non comunica mai la propria decisione senza che il suo vice sia d’accordo.
In altre parole, questa volta i fratelli Elric avevano vinto senza neanche combattere.
 
Le condizioni del bambino erano stabili, ma la madre stava passando velocemente dal confortante stato di sonno apparente a quello più evidente e scoraggiante di cadavere. Il corpo aveva già svuotato gli intestini e ora aveva il colore della cera.
Alphonse stava parlando con i medici, Edward invece non alzava gli occhi dai libri, dei quali si era circondato appropriandosi indebitamente di una sala degli inservienti. In mezzo alle scope e ai detersivi, il suo intento sembrava ancora più precario e in un certo senso ridicolo.
“Non mi hai detto chi dovrebbe farlo.”
Edward non alzò la testa. Roy insistette: “Chi dovrebbe portarlo, questo bambino? Hai trovato una donna disposta a prestarsi?”
“Non ci ho neanche provato, non posso offrire la garanzia che andrà tutto bene.”
“Bene, almeno questo lo sai. Quindi? Devo farlo io? Però guarda che mi devono insegnare a fare l’uncinetto, sennò poi mi annoio.”
“No, lo farà Al.”
Roy si gelò. Aspettò che Edward scoppiasse in una fragorosa risata, ma non successe. Girava le pagine e prendeva appunti su un blocco ingiallito.
“Starai scherzando.”
Doveva suonare come un ordine, ma era più una supplica. Edward continuò a non guardarlo, ma scosse le spalle: “Avrei potuto farlo io, ma Al ha l’ossatura più grossa e i fianchi più larghi. Inoltre, è meglio che io tenga sotto controllo il processo alchemico. E’ la soluzione migliore.”
“Cristo Santo, Edward, come fa a essere la soluzione, vuoi mettere incinta tuo fratello!”
Edward finalmente lo guardò, aggrottando la fronte: “La fa sembrare una cosa insana.”
“Lo è, maledizione! Ragiona: chi ti dice che funzionerà?! Chi ti dice che invece non lo ammazzerai?!”
“Proprio per questo deve essere Al.”
“Perché è la tua cavia preferita?”
“Perché è l’unico che so di poter salvare.”
Roy sospirò, sedendosi sul divano. Edward, sul pavimento, lo guardò ancora per un attimo come a sincerarsi della sua resa, poi ricominciò a leggere. Ruotò gli occhi,però, quando Roy ricominciò: “E la vostra amica che cosa ne pensa? A lei date retta, no?”
“Non serve chiederglielo per sapere cosa ne penserebbe Winry, farebbe di tutto per dissuaderci, e vedendo che è impossibile si offrirebbe volontaria.”
“E non sarebbe meglio?”
“Perché dovrebbe?”
“Perché ha un fottuto utero, tanto per cominciare.”
“L’utero non è necessario, esistono le gravidanze extrauterine.”
“Sì, e ti sei informato su quante ne vanno a buon fine?”
“Poche, ma questo non è un caso normale.”
“Sì, questo è poco ma è sicuro.”
E Edward – Dio solo sa perché- quasi rise, come per un improvviso sollievo, poi scosse la testa guardandolo dal basso, con immenso divertimento: “Su, colonnello, la pianti di rompere, guardi che alla sua età non fa bene agitarsi. Sappiamo che cosa stiamo facendo, possiamo gestirla.” Poi, sorridendogli come un bambino, gli chiese: “Inoltre, non mi dirà che non è curioso?”
Roy non avrebbe saputo dire che cosa gli gelò il sangue, se quelle parole o la semplicità con cui le aveva dette. Ad ogni modo, non riuscì a rispondere.
 
Successe velocemente, al di fuori del suo controllo.
Non poteva dissuaderli e li amava troppo per denunciarli. Decise di proteggerli.
Aveva smesso di piovere ma il cielo restava nero, scosso la forti correnti che non promettevano nulla di buono. Faceva freddo, abbastanza da battere i denti. Il vento sbatteva le code dei fratelli Elric sulle loro schiene dritte e decise, mentre disegnavano i cerchi alchemici nel fango.
Portarono il cadavere, che si stava irrigidendo. Le dita dei piedi erano arricciate e la mandibola contratta. Edward disegnò un altro cerchio sul ventre pallido e intanto scrutava il cielo, chiedendosi forse cos’avrebbero fatto se avesse piovuto. Sembrava irritato all’idea che un solo gesto di Dio potesse distruggere in un attimo il suo piano. Dietro di lui, Alphonse si mangiava le unghie e dondolava.
Roy si rifiutò di restare, come un padre si era infine arreso a inutile forma di silenzioso rimprovero. Non andò lontano, però, perché proprio come un padre temeva e sperava che avrebbero avuto bisogno di lui.
Era in sala d’aspetto quando la luce azzurra esplose sfondando le finestre, sommergendo i corridoi come se avesse avuto una consistenza. Era elettrica, abbagliante. Puzzava di sangue. Ma soprattutto portava le urla di Alphonse, atroci, come i latrati di una bestia sventrata.
Lo trovò a terra, contorto nel fango e nel sangue. Il cadavere si era aperto quasi a metà e adesso quello che era stato un volto amato da qualcuno, riconoscibile in mezzo alla folla, era soltanto un teschio scoperchiato, coperto di mucose e tessuti. Non era la prima volta che vedeva un corpo devastato, pensava d’averci fatto l’abitudine, invece salutò quel sapore orrendo sul palato come un vecchio amico. Era ancora vivo. Nonostante tutto, ancora umano.
Edward aveva una mano sulla schiena nuda di Alphonse e gli faceva domande, ma lui vomitava e singhiozzava dal dolore, senza rispondere. La pioggia ricominciò a cadere, mescolando i cerchi alchemici al sangue. A Roy rimase l’impressione d’aver collaborato a un rituale primitivo, sadico e insensatamente violento.
 
Rimasero in ospedale, perché Alphonse aveva bisogno di cure costanti.
Roy, quando andava a trovarlo, lo trovava a letto, con le mani incrociate sul grembo e un’espressione assorta e serena. Sembrava particolarmente felice delle sue visite, perché agendo in segreto non poteva vedere nessuno, e Edward –che pur era sempre con lui- passava tutto il suo tempo sui libri, per fronteggiare una a una le innumerevoli complicazioni che nascevano. Al momento stava studiando la possibilità di modificare la collocazione degli organi molli del fratello, così che il bambino, crescendo, non li schiacciasse. Già una volta aveva spostato una costola, per lo stesso motivo, e le infermiere giuravano di non aver mai sentito nessuno urlare così, nemmeno durante i prelievi del midollo osseo.
Adesso Alphonse non poteva muoversi, neanche per andare in bagno o lavarsi, ma sorrideva sempre e non si lamentava mai. Era fedele a se stesso e soprattutto al ruolo che la sorte gli aveva dato – quello della persona incaricata di rincuorare e incoraggiare Edward, nonostante stesse praticamente cercando di ucciderlo.
Roy gli parlava gettando sguardi sulle braccia magre, bucate dai prelievi e dall’ago del flebo, che affondava costantemente nella vena blu e ingrossata. Ci erano voluti due giorni prima di capire che la forte debolezza era dovuta una malformazione del cordone ombelicale, che portava i nutrimenti esclusivamente al feto, e anche se faceva quattro pasti al giorno Alphonse stava velocemente deperendo. Le sue guance tonde da bambino erano scomparse, affossate sotto gli zigomi appuntiti, che insieme al colorito pallido e i capelli lunghi lo rendevano un po’ simile al fantasma dei vecchi romanzi vittoriani, ambientati in una villa oscura e maledetta.
Un giorno, mentre parlavano, Alphonse scostò per sbaglio le coperte e lui vide che la padella e il tubo del catetere erano pieni di sangue. Non gli disse niente, per non imbarazzarlo, ma decise di chiamare un’infermiera. Mentre si alzava gli chiese: “Ma tu sei sicuro di quello che stai facendo?”
E lui sbatté i grandi occhi brillanti, come se gli avesse appena fatto una domanda assurda, poi rise: “Niisan dice che andrà tutto bene!”
Roy si sforzò di sorridergli, accarezzandogli la testa. Certo, cosa si aspettava, una confessione in lacrime? Sapevano tutti che la fiducia che Alphonse riponeva nel fratello rasentava l’autolesionismo. Quello che Roy si chiedeva era se Edward si rendesse conto di quanto potere avesse su di lui, e se avrebbe mai imparato a gestirlo.
 
“Se volevi dimostrarmi che potevi farlo va bene, l’hai fatto, ma adesso ferma questa pazzia.”
Edward era seduto sul pavimento nel suo solito sgabuzzino, alla luce rachitica di una lampadina che pendeva dal soffitto muffo e spaccato dall’umidità. Ogni giorno i libri si moltiplicavano, andando ad ammucchiarsi in pile sporche e precarie. Il caos che si stava creando attorno si rifletteva anche nei suoi occhi, che erano stanchi e nervosi, solo una pallida imitazione di quelle gemme sfolgoranti che l’avevano travolto dal primo momento in cui le aveva viste. Sembrava che in due settimane Edward Elric avesse perso la sua giovinezza, per trasformarsi in una copia invecchiata e indurita di se stesso.
“Che cosa la fa pensare che l’abbia fatto per lei?”
“Il fatto che sei orgoglioso, Fullmetal, ti conosco e non avrei dovuto oppormi, probabilmente ti ho soltanto intestardito. Riconosco il mio errore, riconosco…quello che vuoi, cazzo, posso anche inginocchiarmi e chiamarti maestro, se vuoi, ma tira fuori quella cosa da tuo fratello.”
“Quella cosa è un bambino, e sta bene. I medici dicono che la formazione procede regolarmente.”
“Qualcosa andrà storto, ne sono sicuro.”
“Certo, se la piantasse di gufare…”
“E’ su questo che ti stai basando, sulla fortuna?”
“Sappiamo che cosa stiamo facendo.”
“No, voi non lo sapete! Siete solo due bambini arroganti e stupidi, che non sanno rassegnarsi alla morte!”
Edward finalmente alzò la testa. Aveva toccato – no, aveva piantato un chiodo in un nervo.
“Che cosa sta insinuando?”
“Non lo sto insinuando, te lo sto dicendo. Smettetela di giocare con cose più grandi di voi, non avete imparato la lezione?!”
“Questo non è un gioco, non ho più dieci anni! Crede che muoia dalla voglia di perdere altri arti?!”
“Sì, Edward, sembrerebbe di sì. Ma forse sei disposto a tutto pur di avere una famiglia, per pur malata e grottesca che sia.”
“Qui non c’è niente di malato, stiamo soltanto--”
“Hai messo incinta tuo fratello, Edward! Da quant’è che ci pensavi, magari da quand’è morta tua madre? Avete provato anche il concepimento naturale, prima di questo?!”
Fu questione di un attimo; Edward si alzò e gli sfasciò la mandibola con l’automail. Almeno i suoi occhi reagivano, adesso, ed erano sbarrati, furenti e in certo senso anche terrorizzati, come quelli di un animale braccato. Si guardarono a lungo e lui continuava a tremare di rabbia, ma non disse niente. Alla fine Roy sputò su un libro il sangue che aveva in bocca e uscì. Quella notte continuò a rigirarsi nel letto, sperando che Edward realizzasse la reale perversione di ciò che stava facendo. Ma il giorno dopo lo trovò di nuovo seduto accanto al letto di Alphonse e lui continuava a sorridere, mentre teneva una mano sull’addome perché gli avevano detto che presto il bambino avrebbe iniziato a scalciare.
 
Successe in un insolito pomeriggio di pace, finalmente era uscito uno spicchio di sole e Alphonse aveva voluto che gli mettessero delle briciole sul davanzale, in modo che almeno gli uccellini gli tenessero compagnia. Li stava osservando beccare, forse raccontandosi storie sulla loro vita, quando trasalì e sgranò gli occhi: “Niisan!” La voce gli tremava dall’emozione, e si guardava intorno come se avesse potuto vederlo sbucare da qualsiasi angolo. “Niisan!”
Roy lo guardò dalla soglia, dove stava parlando con un dottore, e gli vide un sorriso talmente radioso da colorare almeno per un attimo le gote pallide e malaticce. Andò subito a chiamare Edward, che come al solito era rintanato nello sgabuzzino. Le pile di libri formavano una trincea nella quale sembrava nascondersi.
Appena lo vide Alphonse gli tese le mani, si vedeva benissimo che moriva dalla voglia di corrergli incontro. Edward gli chiese “si è mosso?” ma anziché rispondere lui gli prese la mano e se la posò sotto l’addome, dove la rotondità era ormai visibile come una grande goccia. Rimasero così per un attimo, poi a Edward scappò qualcosa di molto simile a una risata e lo guardò negli occhi: “Era lui…?”
Alphonse annuì, e sembrò quasi piangere quando Edward si chinò sul bambino e gli disse: “Ti annoierai un po’, ma tra qualche mese ti tiriamo fuori.”
Roy li guardava e si sentiva un po’ come un nonno, con troppi capelli e troppi rimpianti ancora freschi, che facevano ancora male. Eppure, in qualche modo, non importava. Non in quel momento. Riusciva quasi a vederli bambini, e quell’immagine aveva un che di morboso e splendente che lo incantava.
A volte era fin troppo facile accorgersi del modo in cui Alphonse guardava Edward, come se una sua parola potesse sfogliare le stagioni. E adesso se ne stava lì, mesto, uguale a un cucciolo che aspetta le coccole ma non ha il coraggio di chiederle. Edward parlava delle fasi della formazione, della scomposizione alchemica delle ossa, dell’esame emacromatico da fare. E Alphonse annuiva, col sorriso che gli si spegneva sulle labbra. Aveva capito che lui e suo fratello erano felici per motivi molto diversi.
 
“Cosa volete farne, quando sarà nato?”
Edward si voltò con un sorriso furbo; era sera tarda e la luce che entrava debole dalla finestra allungava le loro ombre a dismisura, e le faceva arrampicare sui muri come ragni spettrali.
“Quindi ammette che nascerà.”
“Non lo sto ammettendo, lo sto supponendo. Che cosa ne volete fare?”
Edward ricominciò a camminare e i suoi passi risuonavano nell’ospedale ormai quieto, dove gli infermieri si affacciavano nelle stanze senza fare rumore. Alphonse nel pomeriggio aveva avuto dolori pelvici atroci e si era addormentato da poco, stremato.
“Per quello non c’è problema, ci sono i genitori della ragazza.”
“E gliel’avete detto?”
“Non ancora. Non voglio alimentare false speranze, nel caso…” esitò solo un attimo e scosse la testa, come a scacciare il pensiero “…comunque, hanno perso una figlia. Saranno felici di avere almeno un nipotino.”
“E pensi che lo vorranno?”
Edward si fermò e sbatté gli occhi: “Perché non dovrebbero?”
Perché è un bambino cresciuto nel grembo di un uomo.
Non riuscì a dirlo. C’era qualcosa, nello sguardo di Edward, che glielo impediva. Non voleva turbarlo, o ferirlo, fargli pensare che suo fratello avesse qualcosa di sbagliato. Ma soprattutto, più profondamente, sentiva anche di non volergli aprire gli occhi sulla meschinità del mondo.
A lui piacevano così, i fratelli Elric. Convinti fino all’ottusità della bontà degli altri.
“E poi…” riprese “…credi che Alphonse vorrà darlo via?”
“Uh? Perché non dovrebbe, non è suo figlio.”
“No, è vero. E’ di tutti e due.”
Edward sembrava confuso. Lo guardò come aspettandosi una spiegazione, poi rispose: “…no, non lo è.”
“Forse non lo è per te, ma lo hai guardato bene? Non importa cosa dice il sangue, per lui quello che sta portando è tuo figlio.”
Rimasero a lungo in silenzio, abbastanza perché anche nella penombra Roy lo vedesse impallidire.
Dio, non se ne era accorto.
Questo che cosa lo rendeva, un insensibile? Un vigliacco?
Un ragazzino di diciannove anni, credo.
“Ti sei strappato un braccio, per lui. Chiediti se adesso vuoi strappargli il cuore.”
 
Anche quel mattino arrivò molto presto, a un’ora in cui solo il suo grado gli permetteva di entrare. I pazienti nelle altre stanze dormivano e i dottori parlavano tra loro a voce bassa, bevendo caffè.
Scoprì Alphonse già sveglio, che parlava da solo. Naturalmente non si era accorto di lui, e quando lo sentì bussare si mise a ridere: “Entri, entri. Non ci faccia caso, non sono impazzito.”
“Anche se fosse non ti biasimerei, sarai stanco di vedere solo la mia brutta faccia.”
“E anche quella di niisan” aggiunse divertito, tirandosi il lenzuolo sul petto mentre si incurvava. La gravidanza gli aveva cambiato la produzione di ormoni, e gli stava crescendo un accenno di seno che tentava di nascondere.
Roy si sedette sullo sgabello lì accanto e gli chiese di cosa stesse parlando. Al scosse la testa e gli andò la frangia davanti agli occhi. Qualcuno passava a lavarlo una volta al giorno perché non riusciva quasi più a muoversi, da solo, e al secondo mese gli si erano formate lievi piaghe da decubito sotto le cosce. Ne mancavano altri tre.
“Mh, niente. Una stupidata.”
“Dai, dimmelo. Sono pur sempre un conversatore migliore del muro, no?”
Alphonse rise di nuovo e poi ammise: “Pensavo a un nome per la bambina, e volevo vedere se reagiva a qualcuno.”
Roy non seppe che dire. Rimpianse la cosa del muro. Alphonse, imbarazzato, scosse la testa e cercò di avvicinare con fatica le gambe al petto, senza riuscirci.
“Comunque non sta a me scegliere un nome” terminò sorridendo, poi aggiunse: “Posso fare una bella bambina, però. Una bella bambina sana. Così tutti vedranno quant’è bravo niisan.”
Roy si sforzò di sorridere, ma non riuscì più a guardarlo negli occhi. Solo dopo un po’ si rese conto che il suo respiro era irregolare, strozzato. Alzò lo sguardo e lui stringeva le lenzuola in uno spasmo. Il suo viso stava cambiando colore.
“Al, che hai?”
Si rese conto dell’inutilità della domanda appena la fece. Stava soffocando, ecco che aveva. All’improvviso, senza motivo. Cominciò a schiacciare l’allarme con forza, tanto che pensò di averlo rotto, gli disse che sarebbe tornato subito, di non agitarsi, e cercò qualcuno in corridoio. L’unico dottore che vide era nella stanza di qualcun altro. Entrò e lo trascinò fuori di peso, poi tornò ancora una volta in quel maledetto sgabuzzino. Edward stava dormendo, ma scattò in piedi appena sentì la porta e corse via.
Roy guardò i libri buttati sul pavimento e li calpestò.
 
La sua diagnosi era stata alquanto ottimista.
Il bambino aveva raggiunto le dimensioni in cui muovendosi pesava sui polmoni di Alphonse, ma questo a sentire Knox era il minimo.
“La placenta non viene espulsa correttamente e c’è il rischio che invada gli organi accanto, causando un’emorragia interna. E’ la ragione per cui la gente normale le interrompe, le gravidanze extra-uterine, non se le va a cercare. Come hai potuto permettergli di fare una cosa simile?”
“Senti, li conosci quei due, ti pare che faccia differenza il mio permesso?”
“Avresti dovuto prenderli a cazzotti, ecco cosa. Sei troppo permissivo con loro, lo sei sempre stato.”
Roy si limitò a una specie di tsk infastidito, fingendo di guardare fuori dalla finestra. Aveva chiamato Knox perché era l’unico di cui si fidasse, ma soprattutto perché gli altri medici non sapevano niente dell’alchimia, al di fuori del fatto che esisteva.
“Da quel punto di vista è un lavoro impressionante. Ti confesso che mi fa paura.”
“Perché, pensi che Edward se ne andrà in giro a ingravidare tutti gli uomini che incontra? Attenzione, perché ormai hai una certa età.”
“Ah-ha, sono contento che la situazione ti diverta. Mi fa paura che un ragazzino possa fare tanto, ecco cosa. E poi non so se voglio vivere in un mondo in cui gli alchimisti invadono così il territorio di Dio.”
“E da quand’è che credi in Dio?”
“Da quando ho visto cose come questa, e ho capito che c’è un motivo per cui certe leggi non andrebbero violate. Vuoi che te la metta semplice? Alphonse Elric morirà. Il suo corpo non è fatto per una gravidanza, e suo fratello può metterci le mani quanto vuole, ma cadrà a pezzi.”
“…credi che Edward lo sappia?”
“Certo che lo sa. E’ arrogante e sconsiderato, ma non è stupido. La vera domanda è se gliene importa qualcosa.”
“Questo non puoi dirlo, Edward ama suo fratello. Non potrebbe vivere senza di lui.”
“Allora che cosa vuoi che ti dica, Roy? Si starà suicidando.” Finì di mettere le sue cose nella borsa, poi prese il cappotto. “Vado, prima che ricominci a piovere. C’è un tempo del diavolo, là fuori, sembra che voglia venire giù il cielo.”
“Lo so” rispose Roy, assorto.
 
Continuò per ore, senza sosta. Soltanto in guerra aveva sentito urla tanto atroci.
I medici parlavano di una contrattura dei muscoli anali, ma era anche possibile che il bambino si fosse appoggiato alla spina dorsale. Era troppo pericoloso muovere Alphonse senza esserne certi e avevano dovuto legarlo per contenere gli spasmi. Aveva urlato, e urlato, tanto che anche a Roy faceva male la gola, e aveva pianto così tanto che le lacrime gli avevano eroso le guance. Non capiva quello che gli si diceva, non comunicava, non riconosceva più neanche Edward. Alla fine era sprofondato in stato di shock e adesso era immobile, scosso solo dai tremiti. Continuava a piangere senza la forza di emettere un gemito.
 
Edward spostò il bambino due ore dopo. Alphonse rischiò di soffocare nel vomito perché era ancora legato, ma quando fu libero si aggrappò a suo fratello e gli rovesciò addosso quelli che sembravano litri di sangue. Rosso brillante, così liquido da sembrare irreale. Una reazione all’alchimia.
Edward non si spostò, non batté neanche ciglio. La prima parola di Alphonse -quasi un rantolo- fu: “Niisan…” Lui gli disse qualcosa, ma da dov’era Roy era impossibile sentire cosa. Probabilmente non lo sentì neanche Alphonse, che si addormentò tra le sue braccia. Edward lo tenne così per un po’, poi lo posò delicatamente a letto e uscì in fretta dalla stanza. Roy gli andò dietro pensando di urlare o di prenderlo a pugni davvero, sta volta, ma poi lo sentì piangere, chiuso nello sgabuzzino, e non riuscì a fare altro che rendersi inutile.
 
Non tornò a casa, quella notte, dormì sulle sedie in sala d’aspetto. Si svegliò a pezzi, ma pensando a cosa stava sopportando Alphonse si sentì idiota a lamentarsene, così quando un’infermiera gli chiese come si sentisse rispose che andava tutto bene.
Tutto bene, certo. Poche volte era stato così lontano dal termine bene.
Alphonse era già sveglio. Passava le prime ore del mattino da solo, a guardare fuori dalla finestra – chissà a cosa pensava. Il suo corpo era cambiato tante volte, e in modo così intimo, che quasi Roy non riusciva a immaginarlo. Come si sentiva? Non aveva mai l’impressione di poter perdere se stesso?
Scosse la testa, quasi sorridendo.
No, non loro. Confondono gli altri, ma sanno benissimo chi sono.
Alphonse era debole, ma allegro. Per la prima volta superò l’imbarazzo del seno e gli mostrò la pancia: “Guardi, niisan l’ha spostata!”
Ne parlava come di un atto di Dio, con lo stesso orgoglio e lo stesso prostrato entusiasmo. Doveva ammetterlo, a volte Roy trovava la sua fede disturbante. Avrebbe voluto scuoterlo e urlare fino a svegliarlo, ma sospettava che lui avrebbe continuato a sorridergli imbambolato, con gli occhi pieni della luce riflessa del suo niisan.
“Colonnello, lei è arrabbiato con noi…?”
Roy alzò lo sguardo. Alphonse stringeva incerto le lenzuola ruvide, ancora sporche di sangue. Si era addormentato così in fretta che non avevano fatto in tempo a cambiargliele.
“Ma no, Al, non…” si fermò. Poi sospirò e scosse la testa: “Non sono arrabbiato, solo triste.”
“Perché?”
“Perché soffrite e io avrei dovuto evitarlo.”
“…mi dispiace. Io e niisan facciamo sempre di testa nostra, poi ci vanno di mezzo gli altri…”
Roy rise bonario, annuendo: “Già, sembra proprio questo il problema. Dovrò esprimere il mio rammarico alla signora Izumi, quando la vedo, chissà che fatica addestrare due bestie come voi.”
Alphonse rise debolmente e cercò di sistemarsi i cuscini, ma non riuscì neanche a muovere il braccio. Roy lo fece al suo posto e gli chiese, sentendosi improvvisamente stanco: “Al, ma tu non hai paura?”
Lui lo guardò e si limitò a sorridere.
 
“Perché non hai lasciato che lo operassero?”
Edward sembrava sorpreso da quella domanda, come se non la capisse. C’era forse qualcosa di elementare che a Roy sfuggiva? Si spiegò meglio: “Quando stava male e i medici volevano farlo abortire, perché gliel’hai impedito?”
Allora lui fece una cosa inattesa; si mise a ridere.
“Sta scherzando? Al mi avrebbe ucciso se avessi preso una decisione simile da solo.”
Roy sorrise di nascosto, con sollievo. Certo, doveva immaginarlo. Li conosceva, no? Loro rispondevano soltanto a leggi che si stabilivano da soli, guardandosi negli occhi. Dio, doveva essere proprio stanco per aver pensato che…no, basta. Non voleva neanche tornarci. Anche se adesso guardava Edward e non vedeva più nemmeno le tracce del ragazzo che aveva sentito piangere nello sgabuzzino. Procedeva dritto per la sua strada, senza guardare indietro. Era vedendolo così che Roy si rendeva conto di quanto fosse stato stupido chiedere ad Al se non avesse paura, perché lui non poteva risponderli.
Edward l’aveva strappato alla morte, col suo sangue l’aveva legato alla vita, gli aveva ridato un corpo e adesso lo rendeva il mezzo di un miracolo simile a quello compiuto sulla Vergine Maria.
Non sussistevano domande, non era più solo un punto di vista. Era lecito pensare che, per Alphonse, la figura di suo fratello fosse del tutto sovrapponibile a quella di Dio.

 
Dio ebbe da fare per tutto il mese, insieme al suo collega un po’ più conosciuto e potente.
Alphonse soffrì, in ordine sparso: d’ipertensione arteriosa, d’artrite, tachicardia, ritenzione idrica, sviluppò un’infezione virale e mentre la curavano scoprirono un’insufficienza renale cronica. Tre giorni prima di entrare nel settimo mese ebbe un’emorragia interna che quasi lo uccise. I medici cercarono di convincerlo ad abortire e lui rifiutò. Provarono a parlarne con Edward. Era più o meno come infilare la mano nella gabbia di una tigre, uscirne indenni, e riprovare ad infilarla in quella di un leone. Si rivolsero a Roy, appellandosi alla sua autorità. Lui scoppiò a ridere.
Prese Edward per un braccio, un giorno, mentre si aggirava nervoso nei corridoi.
“Per quanto avete intenzione di andare avanti?”
“Finché questo maledetto bambino non nasce.”
“Non nascerà mai, Edward! Fatela finita, prima che sia troppo tardi!”
Lui digrignò i denti, strappandogli il braccio di mano: “E’ Al che vuole andare avanti, crede che non gliel’abbia chiesto?!”
“Lui lo vuole perché tu lo vuoi, maledizione, se ci parlassi…”
“Ci ho già parlato e abbiamo deciso, quindi la smetta!”
“Anche se arrivaste fino in fondo mi dici come potresti togliergli quel bambino, dopo quello che ha passato?!”
“Ho detto che ne abbiamo già parlato! Si faccia gli affari suoi, non è nostro padre!”
“No, ed è una fortuna che né lui né vostra madre siano qui per vedervi giocare alla famiglia dell’orrore!”
Si preparò a ricevere un altro cazzotto, ma Edward si limitò a guardarlo con un odio bruciante, sconfinato, poi si drizzò nel suo metro e sessanta scarso che in quel momento sembrava immenso, e fece un sorriso beffardo: “Sa cosa penso, colonnello Mustang? Che lei sia invidioso.”
“Di che cosa, Ewdard, della vostra stupidità? Dell’arroganza con cui ripetete all’infinito i vostri errori?”
“Del mio talento. A dieci anni ho fatto qualcosa che per lei sarebbe impossibile, e adesso che lo sto rifacendo non può sopportarlo.”
Roy rimase attonito, schifato. Persino la rabbia evaporò, lasciandogli nelle vene un sedimento simile all’amarezza. Guardò il suo viso che era bello nonostante la stanchezza, nonostante quell’insopportabile delirio d’onnipotenza che ormai lo induriva, e mai e poi mai avrebbe pensato di arrivare a odiarlo. Dovette fermarsi, per non farlo, prendere il respiro. Ricordarsi di quando lo aveva incontrato a Resembool, e del momento in cui aveva deciso che avrebbe protetto quegli assurdi fratelli da tutto.
“Va bene” gli disse “Pensa quello che vuoi. Ma pensaci bene, perché questa forse è la prima cosa davvero irrimediabile che fate.”
Edward strinse i pugni e non rispose. Roy se ne andò e uscì all’aperto, sperando di cogliere nell’aria almeno uno dei sentimenti che lo avevano spinto fin lì.
 
Non parlò con Edward per qualche giorno, ma non poteva fare a meno di andare a trovare Alphonse. Adesso che suo fratello era così assorbito da se stesso, Roy si rendeva conto di essere il suo unico contatto con la realtà, ma non solo. Quel bisogno era reciproco. Il suo rapporto con Alphonse era un cerotto sul suo rapporto con Edward. Diceva a uno le cose che l’altro non avrebbe voluto ascoltare, e che lui era troppo orgoglioso per dirgli.
“Sa, oggi ho chiesto a niisan se potevamo chiamare la maestra, ma lui…” rise leggermente, poi imitò la sua voce “Lui ha detto: sei pazzo, quella ci ammazza! Non è mica come quello là, che parla e basta!
Roy aggrottò la fronte: “Ci sarebbe quello la?!
Al rise ancora e si aggrappò alla maniglia che usava per alzarsi. Era un tipo fin troppo attivo, chissà che fatica gli costava restare sdraiato. Se ci fosse stato suo fratello, al suo posto, avrebbe già distrutto la stanza. Roy sorrise a questo pensiero.
Avrebbe voluto rendersi più utile, per esempio aiutandolo a lavarsi o a mangiare, ma Edward ringhiava se qualcuno gli si avvicinava in quel modo. All’inizio pensava che fosse perché, come ogni famigliare, nutriva una sorta di esclusività verso la malattia del proprio caro, ma non era solo questo. Loro avevano condiviso tutto, persino il corpo. Qualsiasi situazione, anche la più misera, la sopportavano insieme con una dignità inarrivabile. Aveva visto Edward lavarlo, un giorno, attraverso uno spiraglio nella porta; si toccavano come fratelli, genitori, amici, amanti. Erano un intruglio tossico, ma dal sapore dolce.
Non era solo Roy a sentirne l’odore.
Forse era per questo che Edward non aveva mai recuperato il suo braccio, perché lo consideravano l’evidenza del loro legame. In effetti i fratelli Elric portavano fieramente il dolore che avevano patito, come a comunicare al mondo: “Noi soli potevamo farcela.”
 
Fu Edward a cercarlo, un pomeriggio in cui stava tornando a casa. Si vedeva che era un po’ seccato, ma ugualmente borbottò: “Al vuole farle vedere una cosa.”
Roy lo seguì in camera in silenzio, intenerito dal suo imbarazzo che somigliava a quello di un bambino orgoglioso, che è consapevole d’aver sbagliato ma si rifiuta di chiedere scusa.
Già sulla soglia si sentì travolgere da un eco, che era forte e costante, impetuoso come il galoppo di un animale. Superò il paravento: stavano facendo l’elettrocardiogramma, e quello che sentiva era il cuore del bambino.
Alphonse li salutò agitando la mano; aveva gli occhi lucidi e continuava a ridere senza motivo, mentre se li sfregava. Roy si era ripromesso di essere duro, ma si scoprì ancora una volta a sorridere.
Perché gliele dava tutte vinte, a quei due?
Perché desiderava proteggerli nella stessa identica misura in cui voleva accontentarli?
Scosse la testa, avvicinandosi, e intanto Edward parlava alla pancia: “Vedi di non fare altri danni, eh?”
Alphonse la abbracciò, come a proteggerla: “Eddai, non è mica colpa sua!”
Intanto il battito aumentava, diventava sempre più vivace e poi si chetava solo per un attimo, prima di ricominciare. Roy commentò: “Questo bambino è nervoso come te, Fullmetal…”
Alphonse cominciò a ridere: “E’ vero, ho un piccolo niisan dentro la pancia!”
Lui arrossì di colpo, allontanandosi, ma mentre sbottava “Non è possibile, e poi è una femmina!” suo fratello gli prese la mano per riavvicinarlo. Non la lasciò più andare.
Passarono interi minuti a contemplare i movimenti della pancia; il bambino si stava girando e l’elettrocadiogramma faceva il suono di un’onda. Alphonse soffriva, si vedeva, ma anziché lamentarsi pizzicava una protuberanza sporgente e diceva: “Questo mi sa che è un piedino.” Edward ci mise sopra il dito e lo spinse, finché non sparì. Alphonse scoppiò a ridere: “Niisan, non bullizzarlo!”
E Roy in quel momento ebbe un pensiero che non riuscì a fermare: perché no?
Fu solo un istante, ma cambiò tutto.
In quell’istante vide una casa in collina, lontana dagli occhi indiscreti. Una bambina con gli occhi e i capelli d’oro. Vide i giocattoli sparsi, i piatti nel lavandino, tre letti disfatti – oppure un solo grande letto, se loro avessero voluto. Vide quell’immenso e confuso mondo dall’alto e lo trovò quasi piccolo, così semplice…
Era solo amore, in fin dei conti. Non esisteva per fare del male.
E allora pensò che sì, non aveva fallito. Poteva ancora proteggerli. Poteva chiuderli in un alambicco dove sarebbero stati immaturi per sempre – dove sarebbe stato Roy a nascondere il loro peccato.
E forse era davvero impazzito, ma solo l’idea lo faceva sorridere.
Una volta li aveva adottati; adesso li prendeva in sposi.
 
Il rene di Alphonse doveva essere rimosso. Edward non sentiva ragioni e voleva dargliene uno dei suoi, anche se non era necessario. Comunque, se ne sarebbe parlato dopo il parto. Volevano aspettare ancora una settimana, non di più; era chiaro che attendere oltre sarebbe stato un suicidio, e avevano giocato a dadi con la morte troppo a lungo. Roy guardava Edward che sembrava trionfante, e poteva forse biasimarlo? Era la seconda volta che varcava il confine di ciò che era lecito e tornava indietro per raccontarlo.
Un giorno disse ad Alphonse: “Non mi hai mai detto come ti piacerebbe chiamarla.”
“Cassandra” rispose timidamente, abbassando lo sguardo, “Così potremmo chiamarla Cassie. Mi sembra carino, no?”
“Sì, molto. Mi piace.”
“Chissà se piacerebbe a niisan…”
“Sì, credo di sì. Dovresti provare a chiederglielo.”
Alphonse era un po’ confuso, ma non riuscì a trattenere il sorriso. “Sì” disse “Dovrei.”
Dormì tutto il pomeriggio, forse sognando la stessa casa che aveva sognato anche Roy.
 
Era tornato a casa e si era addormentato sul divano, davanti a un bicchiere di scotch, quando lo richiamarono d’urgenza a un’ora indefinita della notte. Ancora la pioggia, che batteva forte contro i vetri della sua auto, e poi ancora i capelli bagnati attaccati alla faccia, gli stivali infangati, e quella stessa fretta mescolata alla tetra sensazione che non ci fosse più un buon motivo per correre.
La stanza di Alphonse era chiusa. Un’infermiera gli disse che non poteva entrare. “Cos’è successo?”
“Un cesareo d’urgenza.”
“Lui come sta?”
“E’ stabile, adesso.”
“E la bambina?”
L’infermiera abbassò la testa. I pensieri di Roy si scomposero piano, uno a uno. Li mise da parte. Forse si sarebbe svegliato col suo scotch in mano come uno scapolo ubriacone, dopo il sogno più strano della sua vita. O forse si sarebbe svegliato ogni giorno col buco nel petto che quel sogno aveva lasciato.
“…suo fratello è con lui?”
“No, sta riposando. Non può vederlo nessuno.”
Roy annuì. L’infermiera se ne andò, probabilmente a dirigersi verso un’altra tragedia. Cose che vanno, cose che scivolano…camminiamo sulle pozzanghere dei nostri sogni.
Avrebbe avuto da fare, questo era certo. C’erano un sacco di cocci da tirare su. Voleva che avessero bisogno di lui? Eccoti servito, Roy Mustang. Piega la schiena e buona fortuna.
E poi, Roy, quanti anni hai, trentasei? Un po’ troppi per sognare le case in campagna, non credi?
“Era in collina” si corresse, e rendendosi conto di quanto fosse ridicolo si mise a ridere. I giocattoli, i piatti nel lavandino…i fratelli Elric che dormivano sereni al suo fianco, coi capelli d’oro mescolati sul cuscino.
Baciò le loro fronti, prima che andasse tutto in fumo.
 
Il cuore della bambina aveva smesso di battere alle due e un quarto. Il corpo era stato rimosso mezz’ora dopo. Questo significa che prima di essere addormentato, Alphonse sapeva già di portare un cadavere.
Cassie aveva fatto tutto da sola, senza chiedere per favorescusa a nessuno.
Era una Elric, su questo non c’era dubbio.
 
Alphonse dormiva ancora. In un certo senso Roy avrebbe voluto che quel momento durasse per sempre, così lui non avrebbe mai dovuto aprire gli occhi sulla realtà. Quando l’avrebbe fatto, però, Roy sapeva benissimo chi avrebbe voluto al suo fianco.
Bussò alla porta dello sgabuzzino, ben sapendo che non avrebbe avuto risposta. La aprì.
I libri erano in furioso disordine, ribaltati e strappati sul pavimento. C’erano fogli ovunque – annotazioni scritte in piccolo in una calligrafia nervosa.
Edward si era accartocciato in un angolo, aveva le mani sporche di sangue. Tremava, ma non sembrava importargli. Intinse la stilo nell’inchiostro e la boccetta si rovesciò sulle pagine. Lui la gettò contro il muro, in preda alla rabbia, e si prese la testa tra le mani. Roy chiuse cautamente la porta.
“Che cosa vuole, è venuto a dirmi che aveva ragione?”
L’aveva ringhiato senza neanche guardarlo, nascosto dietro le ginocchia. La voce era dura e instabile, come se stesse risalendo a fatica lungo la roccia.
“Sono venuto perché hai perso un figlio, e credo che tu stia soffrendo.”
“Non era figlio mio. Non è neanche nato, quindi non era niente.”
“Sì, immagino che sia più facile pensarla così.”
Edward non rispose. Rimase fermo così ancora un po’, poi si distese e prendendo il respiro cercò i fogli che aveva lasciato cadere. I suoi occhi erano rossi, ma asciutti. Roy ne era certo: non aveva pianto.
“Che cosa stai facendo?”
“Che cosa le sembra che faccia?!”
“Non lo so, per questo te lo sto chiedendo.”
“Sto cercando di capire cos’ho sbagliato.” Le mani stringevano i fogli come una morsa, e intanto l’inchiostro versato imbeveva le pagine. C’era puzza di morte, lì dentro, quasi Edward l’avesse portata con sé. Roy cercò le parole adatte, ma sapeva che non ce n’erano. Questo rendeva il silenzio più patetico.
“Non è detto che tu abbia sbagliato qualcosa…”
“Sì, invece. E quando Al si sveglierà devo sapergli dire cosa.”
Non avrebbe ammesso altre repliche, questo era chiaro. Non era proprio il momento per un abbraccio, vero? Sarebbe significato che tutto era già finito. Roy sospirò, inginocchiandosi: “Vuoi una mano?”
Credeva che Edward l’avrebbe insultato, invece tacque a lungo e poi prese il respiro: “Sì, grazie.”
Rimasero chissà quanto a cercare la falla nella nave che era già affondata.
 
Era la cosa peggiore che avesse mai visto, ne era sicuro.
Appena aprì gli occhi Alphonse si cercò la pancia. Poi cominciò a urlare.
Niente riuscì a calmarlo, neanche l’abbraccio che aveva tanto voluto e che finalmente Edward gli stava dando. “Dov’è la mia bambina?!” gridava “Datemi la mia bambina!”
Roy li guardava impotente dalla soglia, sapendo di non potersi avvicinare. Se solo Dio l’avesse materializzata tra le sue braccia, così che avesse potuto portargliela…ma quei disgraziati avevano giocato troppo con la pazienza di Dio, e in quanto a lui non era certo il degno depositario di un miracolo.
Hai voluto ricordarci chi è che comanda, non è così?
Alphonse continuava a urlare e scalciare, aveva il viso pallido, sudato, e agitandosi si era strappato l’ago del flebo dal braccio, ma niente di tutto questo l’aveva fermato, almeno finché le forze non gli vennero meno di colpo e cominciò a piangere.
“E’ colpa mia, non è vero? Sono sbagliato! Sono tornato sbagliato!”
Edward spalancò gli occhi. Qualsiasi cosa volessero dire, quelle parole erano entrate nel suo stomaco come una lama. Rimase immobile, impotente, con le braccia lungo i fianchi. Solo i singhiozzi di Alphonse lo scuotevano.
La pioggia si era fatta più fitta, e sotto la loro finestra dei gatti randagi lanciavano lamenti strazianti.
Forse era una sua impressione, ma sembrava il pianto di un neonato che arrancava dall’oltretomba.

 
Perché non poteva essere bello?
Perché doveva esserci un sacrificio?
 
Alphonse aveva ricominciato a guardare dalla finestra. Non rideva, non parlava, non mangiava. Sospirava, ogni tanto, o cercava di nascondersi tra le ginocchia, rannicchiandosi fino a sembrare un nodo tra le coperte. Il vetro rifletteva il viso pallido e smagrito, ma soprattutto gli occhi, che erano come crateri vuoti e freddi.
Era quello che stava peggio, ma non era l’unico. Sembravano tre reduci.
Edward non usciva dallo sgabuzzino e non voleva essere disturbato. Un’infermiera gli lasciava qualcosa da mangiare dietro la porta, forse perché lo vedeva così piccolo e in qualche modo fragile. A Roy sembrava divertente, ma bello. Edward mangiava e poi lasciava sul vassoio vuoto un biglietto con scritto “Grazie”.
In quanto a lui, non si faceva la barba da giorni. Non era più tornato a casa e la camicia che si era infilato in fretta cominciava a diventare impraticabile. Si lavava nei bagni dell’ospedale. Ogni tanto chiamava Riza per sapere se c’erano novità e lei gli chiedeva sempre “Come state?”
Non sapeva che rispondere.
Non stavano, ecco cosa.
Adesso che i fratelli Elric non s’incontravano, Roy era una specie di satellite senza pianeta attorno a cui girare. Rotolava senza meta nei corridoi.
Un giorno si sedette accanto ad Al, che non stava bene anche per la malattia al rene. Sicuramente era stata l’alchimia a causarla. Non puoi mettere le mani nel corpo di una persona – un corpo che è stato creato per funzionare in un certo modo- e pretendere che scombinarlo non porti nessuna conseguenza. Non funziona così, anche se quella persona è tuo fratello e lo ami più di chiunque altro al mondo. Non avevano nemmeno cominciato a scoprire le conseguenze che quella bravata avrebbe avuto su Alphonse. Intanto, lui stava già subendo quelle invisibili e incurabili.
“…sa qual è la cosa peggiore?”
Roy era seduto sul letto, che di solito era il posto di Edward. L’aveva occupato senza pensarci.
“Quale?”
“Che ovunque stia andando non la faranno passare.”
“Che cosa vuoi dire?”
“Se c’è…un Dio, o qualsiasi altra cosa decida per lui…se c’è una porta, o un fiume, o qualsiasi altra cosa da attraversare per arrivare dove si sta in pace…beh, probabilmente non la faranno passare. Per colpa nostra.”
“Perché dici questo?”
Lui rise tristemente, abbracciandosi le ginocchia.
“E’ stato lei a dirlo, no? Io e niisan non impariamo dai nostri errori. Ma c’è qualcuno che li tiene a mente, là sopra. E quindi…” si fermò. Non riusciva ad andare avanti. Roy capì che stava per piangere e voleva evitarlo, così gli disse “Non ti preoccupare” e si rese conto che era solo un’altra frase sterile, che non aveva senso. Perché non avrebbe dovuto preoccuparsi?
Poi lo guardò negli occhi – occhi identici a quelli di Edward- e lo capì. Sapeva perché.
“E da quando in qua voi vi fermate davanti alle porte chiuse?”
Al alzò leggermente la testa. Lui scosse le spalle: “Le diranno di non passare e lei risponderà fanculo, e lo farà comunque. L’hai detto tu che somiglia a Edward, no? Qualsiasi cosa ci sia lassù, la prenderà a calci.”
Allora lui rise, finalmente, e annuì. “Sì” disse “Forse sì.” Tornò ad incupirsi dopo un attimo, però, e strinse forte le lenzuola. “Però, forse…” esitò. Inghiottì e prese il respiro. “…forse se n’è andata perché si vergognava di noi.”
Roy non seppe che dire. Non fu abbastanza pronto, questa volta, e Alphonse scoppiò a piangere. Lui poté soltanto restare al posto di Edward, consapevole di non poterlo riempire in nessun modo.
 
Cercò di tirarlo fuori dallo sgabuzzino, un giorno, ma ci andò nell’unico momento in cui doveva essere andato in bagno. Quel posto faceva una puzza sempre più insopportabile, chissà da quanto tempo non apriva la finestra. Decise di farlo lui. Non era una bella giornata, ma gli bastava cambiare l’aria. Se Edward non poteva fare a meno di pensare, almeno avrebbe pensato in un posto dove non si sentiva l’odore del suo cervello che stava andando in putrefazione. Roy si guardò attorno: i soliti libri, la penna a stilo con la punta rotta che perdeva inchiostro…e qualcosa, nascosto in mezzo alla carta appallottolata. La spostò.
Edward aveva fatto dei giocattoli.
 
“Al! Al!”
Era arrivato di corsa, cosa che se Roy ricordava bene era ancora proibita, negli ospedali. Non che avesse importanza. Alphonse stava cercando di dormire, i farmaci che gli davano lo lasciavano senza forze, ma come sentì il fratello aprì gli occhi e cercò di sedersi. Lo aiutò Roy, che era rimasto al suo fianco perché pensava che un trono occupato fosse pur sempre meglio di un trono vuoto, anche se ad occuparlo era soltanto un sostituto.
Edward sembrava trionfante, incredibilmente allegro. Alphonse gli sorrideva di rimando perché ancora, nonostante tutto, aveva un’incrollabile fiducia in lui, e pendeva dalle sue labbra come se le sua parole fossero state le uniche al mondo.
“Ho una notizia fantastica!” gli disse, andandosi a sedere sul letto “Non è stata colpa nostra!”
Alphonse sbatté gli occhi: “…che cosa?”
“Non abbiamo sbagliato noi, capisci? Il processo era corretto, e anche il tuo corpo è a posto. Hanno fatto l’autopsia alla bambina e hanno visto che il cordone ombelicale l’ha strangolata. Non sei contento? Non è colpa tua, sarebbe morta comunque!”
Roy si allontanò, come in previsione di un’esplosione. Edward invece continuava a guardare il fratello, osando stupirsi perché non stava già urlando di gioia. Dopo un lungo silenzio, sempre sbattendo gli occhi, Al chi chiese: “…sarebbe questa la notizia fantastica…?”
Edward annuì: “Non sei contento? Hai fatto quello che potevi per aiutare quella donna, quindi non sentirti in colpa!”
Alphonse cominciò a piangere. All’improvviso, senza neanche cercare di nasconderlo come faceva sempre.Gli disse che doveva andarsene, che voleva restare solo. Quando Edward gli chiese perché cominciò a urlare: “Io non mi sento in colpa, stupido niisan! Vattene via, vattene via!”
Lui rimase immobile, invece, a guardarlo come se non lo riconoscesse. E capì.
Alphonse aveva perso la fiducia in lui.
E nell’attimo esatto in cui lo realizzò, Edward la perse in se stesso.
 
Roy aveva pensato spesso a quel giorno a Resembool, in cui li aveva incontrati. Alphonse era inarrivabile, dentro la sua armatura, e ugualmente lo era Edward, trincerato nel proprio silenzio. Si era allontanati dal mondo insieme, come una barca lasciata alla deriva. Allora Roy aveva lanciato una fune, e per miracolo loro ci si erano aggrappati ed erano riusciti a ritornare a riva.
Ma forse questa volta stavano andando troppo lontano perché lui potesse raggiungerli.
Edward era tornato il ragazzino di quel giorno, un po’ più alto e con qualche anno in più. Aveva riordinato i libri e fatto un mucchio dei giocattoli di legno, che adesso stava al centro della stanza.
“Quindi aveva ragione lei, non è contento? Questa volta era davvero irrimediabile.”
Roy era fermo sulla soglia, non osava entrare nel suo mondo senza essere invitato. Aveva come l’impressione di poterlo calpestare e uccidere con un solo passo sbagliato.
“Non sono contento. Avrei voluto aver torto.”
“Sì, certo…” rispose Edward, e scosse la testa con una specie di sorriso: “Se penso a quante me ne dirà Winry, quasi quasi rimango chiuso qui per sempre…”
“Non serve che glielo diciate.”
“Nah, lo capirebbe subito. E poi…” Diede un colpetto a un cavallino di legno, che cadde dal mucchio e rotolò poco lontano. “…e poi, forse, Al avrà sempre quello sguardo…”
“No, non credo. Ma devi avere pazienza.”
“Lei non capisce, non mi aveva mai parlato così. Mi odia davvero.”
“No che non ti odia.” Un breve pausa. “Voleva chiamarla Cassie. Voleva chiederti se ti piaceva, ma non credo che l’abbia fatto.”
“No, non l’ha fatto.” Si alzò. “Esco. Mi sgranchisco un po’, finché c’è il sole.”
“Certo, vai pure.”
“Può farmi un piacere?”
“Dimmi.”
“Li bruci.”
Roy annuì. Edward se ne andò e lui rimase solo coi giocattoli. Schioccò le dita e in un attimo erano polvere.
Sette mesi per creare, meno di un secondo per distruggere.
Stava per andarsene, ma vide il cavallino superstite che si era allontanato dagli altri. Lo raccolse e lo mise in tasca, poi aprì la finestra e il vento si portò via anche quel che restava.
 
Il mattino dopo operarono il rene di Alphonse. Edward gli aveva porto il suo come un mazzo di rose per chiedergli scusa, ma lui era incosciente e Roy non sapeva se l’aveva perdonato.
Passò nella loro stanza, prima di tornare a casa. Il sipario era calato e li avvolgeva come una coperta.
Dormivano nello stesso letto, perché prima di crollare Edward si era trascinato il flebo pur di sdraiarsi accanto a Alphonse, che forse sarebbe stato un po’ più felice sapendo di aver dentro un po’ di suo fratello.
Adesso erano lì, come se niente fosse, perché tutto passa e tutto è destinato ad andare avanti…specie quando hai meno di vent’anni.
Va bene così, tutto sommato. E’ solo un’altra buca sulla vostra strada dissestata.
Roy non poteva batterla per loro, né impedire che cadessero. Dio sapeva se lui stesso non era inciampato così tante volte che a trentasei anni aveva ancora le ginocchia sbucciate.
Tornerete a camminare. Non subito, ma presto. E io…
io, già. Che cos’avrebbe fatto, lui?
Gli venne da sorridere, mentre si avvicinava al letto.
Io posso cominciare a costruire quella casa.
Il sonno in cui li avevano condotti i farmaci era troppo profondo perché lui potesse disturbarlo, così baciò le loro teste e accarezzò i loro capelli. Si meritava almeno quella libertà, tutto sommato.
Si tolse il cavallino dalla tasca e lo posò sul comodino.
Gli venne in un mente una poesia, chissà se se la ricordava.
 
Bello è il bosco, buio e profondo,
Ma io ho promesse da non tradire,
Miglia da percorrere prima di dormire.
 
Toccò il cavallino, che cominciò a dondolare. Poi uscì in strada, dove la pioggia lavava i peccati come se Dio non volesse vederli.
 

Subito perdette la ragione, d'un nero velo si coprì lo splendore di quel sole, il caos s'impadronì di quell'intelligenza, tempio una volta pieno di vita, d'ordine e di ricchezza, sotto i cui soffitti aveva scintillato tanta pompa. S'istallarono in lui notte e silenzio, come in un antro di cui si fosse perduta la chiave.
Da allora egli fu in tutto simile alle bestie vagabonde; e quando andava, senza nulla vedere, attraverso i campi, non riconoscendo più le estati e gli inverni, sudicia, inutile, laida cosa inutile, diventava la gioia e lo zimbello dei ragazzi.

*

Note incoerenti dell'autrice
(se non volete spipparvele andate un po' più sotto, che c'è un annuncino interessante :3)
Oh mamma, sto scrivendo sul netbook e il passaggio dalla tastiera normale è traumatico xDD
Dunque, dunque. Come ogni storia su cui ho molto da dire, rimando le note e non mi ricordo più che cosa volevo dire. Che figata. Allora...è tutta colpa di lisachan. E questo è standard, do quasi sempre la colpa a qualcuno, per le mie porcate, e in particolar modo a lei. In questo caso è colpa sua perché tempo fa, per scommessa, mi aveva costretta a scrivere dell'mpreg!sex, con mio sommo raccapriccio xD", ma da allora mi è rimasta la fissa di provare a farlo seriamente. Parola chiave: seriamente. Se mi conoscete (e molti di voi mi conosco, ossì) una cosa che mi diverte sempre molto è prendere un cliché e mostrarlo sotto una luce insolita. Diciamocelo, le mpreg sono quasi sempre delle porcate xD" e anche quando sono decenti o addirittura belline, sono comunque fini a loro stesse e fondalmentalmente fluff. Cosa che, in sé, non capisco, non penso che le coppie gay non saranno mai felici solo perché non possono ingravidarsi...XD Comunque ho cominciato a chiedermi come lo spunto potesse essere sviluppato diversamente, ed eccomi qui.
Sono contenta di aver potuto usare un po' Roy, innanzi tutto. Ho avuto il suo pov solo in Boxes, che comunque è un au, quindi volevo vedere un po' come me la cavavo col canon. Mi sono divertita molto, quindi penso che ripeterò molto presto l'esperimento :3 Suppongo che sia spinosa la cosa delle coppie...nel senso che non ce ne sono, o almeno non come s'intende di solito la coppia.  Per quello che mi riguarda -lo dico qui, ma vale per tutto- mi limito a scrivere le cose così come le vedo e le sento. Se poi non posso flaggarle come Elricest, RoyEd o chissà che altro nella descrizione, mi frega molto poco...*_*;; In questo caso ero partita dall'idea di un Roy che ha un rapporto fortemente genitoriale coi fratelli Elric, ma è comunque un rapporto che si è ammalato. La stessa cosa vale per quello tra Ed e Al. L'idea che volevo dare è quella di una morbosità generica, ma che non si riesce a toccare fisicamente. In altre parole, se la storia è lievemente disturbante mi fa piacere :3 Non l'ho fatto apposta, ma adesso che ci penso credo che questa degenerazione di legami proto-famigliarsi sia parecchio adatta all'argomento...XD
...ok, come vedete ne avevo, da dire! Adesso passiamo a...

!!SPARGO DRABBLES E AMORE!!
Prima di chiudere volevo dirvi una cosina che intendevo conservare per il nuovo capitolo di Boxes, ma già che ci siamo...u_u Dunque, volevo cominciare una raccoltina di drabble su FMA da fare a tempo perso e per esercizio (leggasi: non riesco a stare senza scrivere manco il pullman, ciò è grave), ma siccome dal nulla non mi diverto, sono troppo abituata a farle per/con le mie amiche xD, volevo invitarvi tutti, quando recensite, a lasciarmi una richiesta :3 In pratica: potete chiedermi, nelle recensioni a qualsiasi storia (anche più di una, se ne leggete!), una drabble su un personaggio/coppia (non per forza in senso romantico)/3some/tema a vostra scelta. Qualsiasi cosa, insomma (anche mega-crack, ebbene sì!), e cercherò di accontentarvi. Tutto questo fondamentalmente perché voglio vedere se riesco a fare cento drabbles...XDD Aiutatemi, mi raccomando!! Se volete aiutarvi col tema, potete pescarne uno da qui.

Ok, ora chiudo davvero XD Innanzi tutto ringrazio Stat per averle dato una betatina, che non guasta mai, e Pagliaccio di Dio che ha dato alla storia un bel giudizio per il suo contest Le Fleur du Mal (da cui è tratta la citazione iniziale e finale, mentre quella ricordata da Roy è una poesia di Robert Frost). E' arrivata solo sesta ma pazienza :3 spero che a voi piaccia!...e andate a leggervi A proposito della luce, se non l'avete ancora fatto, che ci tengo u_u

  
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