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Autore: Piccola Ketty    15/03/2010    5 recensioni
Questa OS è uno spunto della storia Library. Non è per forza obbligatorio leggerla, esprime QUALCOSA anche così XD Buona lettura!
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Allora, buongiorno a tutte voi!
Ho scoperto che li mio neurone ha una vita propria. Quindi perdonatelo se a volte vi disturba in questo modo!
:) me ne esco, ora ora, con una OS su un momento mooolto intimo, e molto personale di Matt.
Eh già. Ricordate Matt? Per chi non ha idea di chi sia, vi metto il link della storia, originale a rating ROSSO a cui si riferisce. Library
Questa OS non è Rossa, promesso.
Vi lascio alla lettura!

Un bacio.
Piccola Ketty
:****



Non pensavo assolutamente che la vita potesse cambiare così, dall’oggi al domani.

Sono in ospedale, in attesa che l’infermiera venga a dirmi qualcosa sullo stato di salute di mia moglie.
Questa mattina mi ha svegliato di soprassalto, agitandosi perché le si erano rotte le acque, ed ora eccomi qui, in ansia come un ragazzino.
È un maschio, ce lo hanno confermato alla seconda ecografia.
Lei lo sentiva, ed io non potevo fare a meno di darle ragione. Mi fido ciecamente di lei.
Ho sognato, e continuo a farlo, di tenerlo tra le mie braccia.
Ho immaginato il suo viso, i suoi occhi, i suoi capelli. E adesso, sono tanto emozionato, da non riuscire nemmeno a capire che cosa sta succedendo.
Mi alzo dalla sedia sulla quale sono seduto da un’ora circa, andando alla ricerca di qualche donna vestita di bianco.
Non c’è nessuno.
Sono le cinque del pomeriggio. I dottori sono a fare i soliti giri per le pazienti, e il primario si trova nella sala parto, con mia moglie.
Non mi hanno fatto entrare, dicendo che era meglio così.
Eppure io sapevo che si poteva far partecipare il padre.
Ho ripetutamente domandato il motivo, ma mi hanno sempre liquidato con un “le faremo sapere a breve”.
Inizio a picchiettare il piede sul pavimento bianco, è tutto bianco qui intorno.
Io odio il bianco, è un colore che mi ha sempre rovinato la vita.
Mio padre adorava il bianco. È morto per andare a prendere la sua stupida macchina bianca.
Sposto lo sguardo verso un altro punto, per vietare alla mia mente di pensare a certe cose.
Il fatto che i miei genitori siano morti, non significa che io non possa prendermi cura della mia famiglia. Il fatto di essere cresciuto da solo, non dovrebbe danneggiare il mio futuro, non lo ha mai fatto fino ad’ora. Credo.
Inizio a camminare lungo il corridoio, avanti e indietro.
Sento un rumore, una porta che sbatte, mi volto di scatto.
“Mi scusi”, chiamo la signorina che è appena uscita da una porta.
“Si?”, si volta lentamente guardandomi.
“Avrebbe mica notizie della signora Craw?”, chiedo con impazienza, indicando la stanza nella quale l’hanno portata.
“No, mi spiace. Non ne vengo dalla sala parto”, mortificata si volta e se ne va.
Rimango fermo, cercando di controllarmi.
Sono agitato.

Mia moglie è entrata in sala parto da circa due ore. E nessuno è ancora venuto a dirmi quello che sta succedendo.
Mi risiedo nella stessa sedia, ancora calda.
Mi prendo la testa tra le mani, provando a non allarmarmi.
Vedrai che sarà una cosa normale.
Quante donne restano in sala parto anche per più ore.
La gravidanza è andata bene, perché preoccuparsi.
Già.
Devo stare calmo.
Perché diamine non c’è nessuno oggi? Eh? perché?
Sbuffo, alzandomi e dirigendomi verso le macchinette.
Prendo un thè, anche se inizialmente avrei preso un caffè, ma visto il mio stato d’animo, meglio evitare.
Lo bevo lentamente, continuando ad attraversare l’enorme corridoio.
Perché non mi hanno fatto entrare?
Ormai è una domanda che mi pongo da quando siamo arrivati al pronto soccorso.
Continuava a tenermi la mano, chiedendomi, anzi supplicandomi di non abbandonarla.
Ed io sono fuori, mentre lei è dentro. Da sola.
Mi avvicino alla porta nella quale l’hanno fatta entrare, cercando di sentire qualche rumore.
Magari il pianto di un bambino, per sapere che mio figlio sta bene, è sano. Come la madre.
La voglia di tenerlo in braccio, di scoprire come è fatto, inizia a farmi morire.
Ho voglia di riabbracciare mia moglie, di dirle quanto la amo. Di quanto adori tutti e due.
Esce un’altra infermiera.
“Lei è Matt?”, mentre me lo chiede, noto nel suo sguardo un accenno di preoccupazione.
“Si”, rispondo subito, pregando.
“Bene, venga con me. Sua moglie ha bisogno di lei”.
Lascia la porta aperta, per farmi entrare.
Mi ritrovo dentro una stanza blu. Mi indica camicie, cuffia e guanti da mettere.
Infilo tutto velocemente, facendomi aiutare.
“Va tutto bene, vero?”, sono nervoso.
Il suo sguardo non prometteva niente di buono.
Monique ha bisogno di me, loro hanno bisogno di me.
“Si. Solo che il bambino non vuole uscire, e sua moglie la vuole accanto. Anzi, mi scuso per non averla fatta entrare subito. Ma sembrava che sua moglie fosse in difficoltà”, abbassa lo sguardo mentre mi parla, segno che i sensi di colpa la logorano.
“Non si preoccupi. Mi porti da lei. Ora”, spero di non essere stato troppo duro. Ora voglio solo la mia famiglia.
Sono dentro, la vedo.
È sdraiata in un lettino. Si muove convulsivamente, e respira. La stessa respirazione che le hanno insegnato al corso preparto.
“Matt”, mi ha visto, si è voltata e mi guarda negli occhi.
“Tesoro, sono qui”, mi avvicino stringendole la mano.
“Fa male”, piange, e stringe i denti.
Deve sentire davvero un dolore pazzesco.

Le accarezzo la fronte, asciugandogliela con il lenzuolo.
“Non ti preoccupare. Devi spingere. Lo sai”, sorrido, sapendo che è inutile dirle quelle cose.
Ma in questo momento sono più impacciato di prima.
Non so come comportarmi.
“Spingi Monique. Spingi”, il primario, davanti al suo corpo la incita a spingere.
Lei urla, un urlo che mi stringe il cuore.
Per questo mi avvicino di più a lei, per tenerla stretta. Per rassicurarla come faccio sempre.
“Amore, amore guardami”.
Si volta, respirando con l’affanno.
“Ti amo, e voglio più di ogni altra cosa stringere questo pargoletto tra le mie braccia. Voglio godermelo insieme a te. Ok?”.
Annuisce, e piange.
Non so perché, ma piango insieme a lei.
“Quindi amore, spingi. Deve uscire”.
Mi volto verso il primario, che mi fa un cenno di assenso.
Probabilmente aveva bisogno di aiuto.
“Su. Ora, al mio tre”.
Guardo Monique.
“Uno”.
Prende aria, per prepararsi ad un’altra scarica di dolore.
“Due”.
Mi stringe la mano, talmente forte, da far sbiancare le nocche.
“Tre”.
Spinge. Spinge come non ha fatto fino ad’ora, ed io soffro, soffro nel vederla ridotta in quello stato. Ma so che si riprenderà, è forte. È la mia Monique.
Non mi accorgo del pianto che si libera nella sala.
Non mi accorgo del primario che urla vittoria.
Sono concentrato nei suoi occhi, così come lei lo è nei miei.
Li chiude, rompendo il nostro contatto.
È stanca, bianca e stanca.
“È nato”, urla il primario.
Mi volto di scatto, osservando il piccolo fagotto che tiene tra le braccia.
L’infermiera si avvicina, porgendomelo.
Sono emozionato. Non so come fare.
“Deve solo tenerlo, si fidi di se stesso”, mi sorrise, allungando le braccia verso il mio corpo.
Lo prendo in braccio e mi sento leggero, libero.
Non pesa nemmeno un po’, sorrido, inevitabilmente.
Ha gli occhi leggermente aperti, chiari, come quelli della mamma, mentre i capelli sono neri, come i miei.
È semplicemente bellissimo.
Lo guardo, e cerco di trasmettergli tutto l’amore che ho dentro, che ho fatto crescere per lui in questi mesi.
Piango, e non me ne accorgo.
Alzo il viso, incontrando gli occhi di mia moglie, intenti ad osservarci con amore.
Piange anche lei, e sorride, è così bella. Bellissima.
Mi avvicino, alternando lo sguardo tra il suo e quello di Bryan. Si, Bryan così si chiamerà.
Quando le sono vicino abbastanza, alzo il piccolo e la guardo negli occhi.
“Bryan”, lo guardo, così piccolo ed indifeso, “lei è la mamma”.
Indico Monique, mia moglie, la madre di mio figlio.
E gli porgo nostro figlio.
Quando lo vedo tra le sue braccia, mi sento un uomo completo.
Loro sono la mia famiglia, tutta la mia vita adesso.

Per chi potrebbe pensare male.
Non voglio un figlio. Al MOMENTO XD
E non sono incinta (per Ale) XD
   
 
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