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Autore: Briseide    30/07/2005    12 recensioni
Dalla storia:
Di colpo Bellatrix spostò lo sguardo su di lei, con un guizzo così brusco da spaventarla.
“Ti ricordi?” le domandò con un cenno della testa verso la scatola.
Narcissa le rispose con freddezza [...]
“Tu hai forse dimenticato?”
Sul comodino nella stanza di Walburga Black un giorno era d'un tratto apparsa una scatola, come per magia.
Se non fosse che in casa Black non esistevano meraviglie, ma soltanto segreti.
Le sorelle Black, un segreto, una storia nella storia dei Black.
[riveduta agosto 2018]
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Famiglia Black, Lucius Malfoy, Narcissa Malfoy, Rodolphus Lestrange
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
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Disclaimer: I personaggi citati in questa fanfiction appartengono a J.K. Rowling e a qualsiasi altro ente che detenga i diritti sull'opera. La presente fanfiction, la cui trama è prodotto originale dell'autrice, non è scritta a fini di lucro.

Attenzione.
La seguente versione (agosto 2018) è una revisione della fanfiction originariamente pubblicata nel luglio 2005. Per ulteriori dettagli si rimanda alle note conclusive. 


Black soul

 

Sul comodino nella stanza di Walburga Black c’era una scatola.
Quel ripiano era a lungo rimasto vuoto. Non un libro, non un ricordo lontano o di poco gusto, non una foto sbiadita dagli anni. Fatta eccezione per quella scatola.
Una scatola piccola e rettangolare, un cofanetto dagli intarsi barocchi sui margini superiori.
In quella immobilità fissa e opaca erano trascorsi talmente tanti anni da lasciarle l’impressione che quella scatola fosse sempre stata lì. Tanto da divenire la scatola nei suoi ricordi.
La scatola che è sul comodino. La scatola della zia.
La scatola che i ragazzi non avrebbero dovuto toccare per niente al mondo.
La scatola delle meraviglie.
Se non fosse che in casa Black non esistevano meraviglie, ma soltanto segreti.

La scatola era comparsa sul comodino una mattina, con una apparentemente improvvisa apparizione.
Magia.
Per i ragazzi era stata subito una novità. Un tempo al suo posto c’era una foto, protetta da una cornice spessa, anch’essa un po' barocca, che le aveva sempre fatto storcere il naso. Dietro al vetro spesso il doppio del normale c’era un bambino con gli occhi azzurri.
Quel bambino da tempo anche per lei non aveva più un nome. Lo aveva perso. O meglio, lo aveva gettato via, lui stesso.
Così se anche prima veniva solitamente nominato con un sospiro, un affanno nel cuore che vibrava nella voce, da quel giorno era diventato solamente il bambino con gli occhi azzurri.
Lei aveva da sempre guardato quella foto con scarso interesse. Da che ne aveva memoria era sempre stata lì, sul comodino alla sinistra dell’enorme letto in ferro battuto che troneggiava nella cupezza della stanza dei suoi zii. Per qualche motivo inspiegabile alla ragione da bambina entrare in quella stanza le metteva i brividi, e quegli occhi così azzurri, quasi blu, erano due fari dall’aspetto inquietante. Ciò nonostante per lei quella foto sul comodino era un’abitudine.

Con il tempo, aveva perso il totale disinteresse, e se n’era incuriosita. Da quando quegli occhi blu le erano sfuggiti di vista, e non aveva più potuto incontrarli per i corridoi di Grimmauld Place. Il bambino che era cresciuto, per entrare nell’età adulta aveva scelto di uscire dalla casa natìa, portando con sé la furia dei suoi anni. Alle sue spalle era rimasto solo il silenzio attonito e risentito di quelli che aveva lasciato indietro.
La sua foto era sparita in un analogo silenzio. Non c’erano stati vetri infranti, solo il suono secco del cassetto, il contenitore dell’oblio in cui era stato chiuso, per sempre.
Quasi in concomitanza alla sparizione della foto, la scatola aveva guadagnato il posto d’onore sul ripiano del comodino.
Sedendosi sul letto poggiò le mani in grembo, composta persino quando era sola, come sempre era stata, anche quando si trovava nella sua cara, antica, nobile casa. Poi, guardò la scatola.

*

“Narcissa, porta questo a tua zia”.
Sua madre le aveva messo tra le mani un bicchiere colmo di acqua fresca, facendole stringere nel pugno due sfere azzurro pallido. Narcissa le aveva guardate con curiosità, un po' perplessa a dire la verità, e aveva cercato uno sguardo di spiegazione in quello di sua madre.
Druella, però, non aveva tempo da perdere, soprattutto con sua cognata, a quanto pareva.
“Non mangiarle. Sii obbediente, Narcissa, almeno tu”.
La raccomandazione non le era nuova. Ogni tipo di vizio che spettava all’ultima arrivata si era ben presto accompagnato, vista la tendenza all’insubordinazione delle sorelle e del cugino, alla accorata ma perentoria richiesta di comportarsi come dovuto.
Narcissa aveva perciò annuito, accondiscendente, serrando il pugno per non fare cadere le due pastiglie. Poi aveva chiesto dove fosse la zia. Sua madre l’aveva guardata dall’alto in basso. Era una bella donna, alta e slanciata come lo sarebbe divenuta lei, e poteva permettersi di guardare tutti dall’alto, con l’algida alterigia dei Rosier prima ancora che con l’aria sprezzante dei Black. Quella volta aveva rivolto a Narcissa uno sguardo spazientito, carico di un’aristocratica insofferenza.
“Di sopra, dove vuoi che sia?”
Narcissa aveva cercato allora di ribattere, di ricordarle che i piani superiori non erano la sua meta preferita, che sua sorella Bellatrix si divertiva sempre ad andarci e a mettere il naso nelle stanze degli zii e non avrebbe avuto problemi a prendere il suo posto. Sua madre lasciando un vassoio nelle mani di un elfo di passaggio aveva serrato stizzita le labbra, senza guardarla neanche per un attimo. Fervevano i preparativi per il ricevimento della sera e come sempre niente sembrava soddisfarla.
“Su, Narcissa, non farmi perdere tempo. Portale quelle…
caramelle e chiedile di scendere”.
Caramelle. Narcissa non aveva insistito oltre, ma nel salire le scale aveva osservato da vicino quelle due sfere rotonde. Non sembravano caramelle, e non dovevano avere neanche un buon sapore. Le guardò meglio. Forse non ne avevano nessuno.
Aveva bussato timidamente alla porta ed era entrata.
Sua zia Walburga era seduta sul letto, con i capelli disfatti e l’aria stanca e sofferta di chi non dorme bene, perché soffre di un forte e violento dissidio interiore. 
Narcissa non indugiò sui suoi occhi vitrei e le porse il bicchiere, seguendo le istruzioni della madre. Passò nelle mani della zia le due presunte caramelle e si voltò per andarsene.
“Narcissa”.
L’asprezza del richiamo inchiodò i suoi passi. Si fermò di scatto, la mano ancora sulla maniglia, un brivido di disagio e inquietudine lungo la schiena.
“Sì, zia?” aveva chiesto cercando di fermare la voce su uno stesso tono, di non dare a vedere la sua agitazione. La voce della zia le giunse però debole e appena accennata nel chiederle di aspettare un momento.
“Vieni qui, cara. Vedi quel cassetto, lì in alto? Aprilo, prendi la scatola che è lì dentro e portamela qui, sul comodino, per cortesia. Da brava”.
C’era qualcosa nei modi in cui le giunse quella richiesta che avvertiva Narcissa in merito a quello che avrebbe dovuto fare. Non accontentare la zia, ad esempio, che non sembrava stare molto bene. Tuttavia l’educazione alla disciplina non le avrebbe mai permesso di contraddirla, perciò si allungò sulle punte e aprì il cassetto. Cercò con le mani fino ad incontrare i bordi spessi della scatola e decise che dopotutto non avrebbe ceduto ad un altro ordine. Sbirciò con lo sguardo e notò che la zia fissava le due pillole, e non guardava lei.
“Devo prendere tutta la scatola o solo qualche caramella?”
Gli occhi della zia si erano rovesciati verso l’alto. Una insopportabile mania di sua cognata quella di salvare sempre le apparenze, anche quando la situazione era a tal punto compromessa da rendere più dignitoso il non farlo. Lei, ormai, non si faceva problemi ad insultare suo figlio davanti ad altri, ché sarebbe stato deplorevole far passare sotto silenzio una tale offesa arrecata alla famiglia.
“Prendi tutta la scatola, tua madre si è sbagliata – me ne ha date solo due”.
In quel momento Narcissa capì. Cosa fosse quella scatola, che fine avesse fatto la foto del bambino con gli occhi azzurri, Sirius Black, della cui cornice le sue dita avevano sfiorato i bordi, in quel cassetto. La ragione per cui sua zia prendesse quelle caramelle, e quale fosse il loro vero nome. E comprese anche che due era la giusta misura. Sua madre non sbagliava mai.
Così finse di cercare ancora, prendendo tempo, mentre raccolse nel palmo della mano la maggior parte delle pillole contenute nella scatola, lasciandone solo due o tre. Trattenendo il respiro sfidò se stessa e si impose coraggio.
Si voltò verso la zia e le sorrise, adagiando un braccio lungo il fianco mentre con l’altro le tendeva la scatola.
“Grazie, cara. Sei sempre stata la migliore tra le tre”.
Narcissa non sapeva se fosse vero, probabilmente sì, perché da sempre e anche nei tempi a venire la zia aveva dimostrato di stimarla e apprezzarla più delle altre sorelle. Con una stretta di paura al pensiero di essere scoperta, di venire meno a quella predilezione che la zia le aveva accordato, Narcissa aveva mormorato un saluto e raggiunto la porta.
Poi era tornata correndo ai piani di sotto, dove sua madre era ancora molto indaffarata e nervosa. Quando la vide girovagare di nuovo da quelle parti, la fermò.
“Hai fatto quello che ti ho detto?”
“Sì”.
“Brava. Dì a tua sorella di andare a prepararsi”.
E Narcissa era andata in cerca di Bellatrix.

Allora aveva solo sedici anni. Era una bella ragazza, intelligente e un po' annoiata. Ma aveva intuito, e sapeva che in ballo c’era qualcosa di molto serio. Da quel giorno sua madre, memore della sfiduciata opinione che la zia Elladora riservava alla categoria degli elfi domestici, aveva preso l’abitudine di delegare a lei il compito di portare le pillole alla zia e Narcissa non si era più potuta rifiutare, soprattutto dopo le tensioni seguite alla defezione di Sirius e alla morte di Regulus, che per Walburga era rimasta inaspettata e non compresa, come è per ogni madre la morte di un figlio.
Tutte le volte Narcissa saliva le scale con la stessa agitazione, ed entrava in quella stanza con stoico coraggio, la schiena dritta e la bocca asciutta.
L’abitudine non aveva cancellato il disagio con cui si trovava a ricevere i complimenti e le lusinghe della zia, un tentativo di comprarla, di convincerla a darle più pillole del dovuto.  
Un giorno, poco dopo la morte di Regulus, lo zio Orion era morto d’improvviso, nel sonno.
“Non mi ha neanche augurato buonanotte, quell’infelice cretino” aveva ringhiato la zia, quando infine lo avevano deposto in una bara e consegnato al mausoleo di famiglia.
Narcissa ricordava molti dettagli di quel giorno. Aveva poco più di vent’anni e un dolore profondo, il primo forse, tenuto nascosto alla zia e a tutti gli altri, che non si erano mai accorti di quanto affetto provasse per quello zio un po' burbero e solitario, che con lei aveva però dimostrato di tanto in tanto di saper sorridere e nel cui sguardo aveva scorto l’opprimente sospetto di aver portato suo figlio alla morte con le proprie idee.  
Avevi la sua approvazione solo perché tenevi buona la zia” le ricordava sempre Bellatrix, quando si parlava di lui e gli occhi di Narcissa si velavano di una malinconia tiepida, a suo modo privata. Narcissa non ribatteva né si offendeva mai. Dopotutto, era la verità.

Dopo la morte del marito, la scatola aveva trovato pianta stabile sul comodino della zia Walburga. Narcissa non attendeva più le ripetitive esortazioni di sua madre ad adempiere lo sgradito compito, e percorreva la scalinata che conduceva alla stanza della zia con passo di volta in volta più fermo. 
Dosava ormai le pillole con l’esperienza di un pozionista, ne teneva il conto giorno per giorno, precisa e meticolosa. Così finì per accorgersi che alla scorta di pillole che metteva da parte ne mancavano sempre due o tre. Aveva allora cercato di farlo notare, inascoltata.
Ogni volta sua madre, impegnata a gestire una famiglia che andava in pezzi senza presagire il proprio destino, lo faceva passare per un suo sbaglio e sua sorella Bellatrix alzava le spalle rubando una sigaretta a Rodolphus.
“Che male vuoi che le faccia, è pazza ora come lo era prima”
.
Narcissa aveva ereditato dalla madre il portamento elegante e distaccato dei Rosier ma era una Black e dei Black aveva l’ostinata convinzione delle proprie ragioni, con la quale continuava ad impuntarsi sulla sua posizione. Fino a quando, un giorno, non aveva deciso di lasciar perdere, distratta dalla vita che chiama i giovani ad essere vissuta.
Aveva imparato anche lei a disinteressarsene, a parlare amabilmente con Lucius nel giardino della residenza estiva di famiglia, mentre Bellatrix e Rodolphus in qualche stanza celebravano il loro matrimonio in un piacere svogliato e irrisolto e la zia, chissà come, aggiungeva tre pillole in più a quelle che Narcissa preparava per lei.
Poi la zia era morta.
L’avevano sentita urlare per ore, chiusa nella sua stanza. Narcissa era con gli altri ai piani inferiori, dove le urla arrivavano attutite, un suono indistinto ma ineludibile, da cui non era possibile carpire parole. Sua madre era corsa dalla cognata, e Druella Rosier non correva mai.

Allora Narcissa aveva ventiquattro anni. Era seduta sul divano, con lo sguardo fisso nel vuoto e il terrore nelle iridi chiare. Aveva le mani poggiate sul grembo, proprio come in quel momento, e due dita serravano convulsamente la stoffa di raso del vestito.
C’era un silenzio terribile, nel salone.
Avrebbe voluto che Rodolphus raccontasse una delle sue storie divertenti e disinibite, e che Bellatrix commentasse in modo caustico, intraprendendo una delle abituali polemiche con il marito, l’unico che con la sua aria compassata era davvero in grado di tenere testa alla lingua biforcuta della sorella.
Invece erano tutti attoniti, chiusi in un silenzio sgomento, ad aspettare che le urla scemassero e che tutto finisse.
Eppure Narcissa con una parte di sé sperava che la zia non smettesse di urlare. Aveva come l’impressione che il momento in cui avesse taciuto sarebbe stato anche quello in cui sarebbe morta. Era una sensazione molto spiacevole, che le serrava lo stomaco e le lasciava un sapore amaro, di paura, nella bocca. Si riscosse solo quando sentì una presa forte sulle sue spalle, che in quel momento sentiva davvero gracili ed esili.
Non ebbe bisogno di indizi per scorgere le mani di Lucius. Inclinando appena il viso incontrò i suoi occhi, una distesa di gelo che si era posata sul suo volto senza battere ciglio, neanche per un attimo. Le mani che le aveva poggiato sulle spalle, invece, erano calde e forti, ed erano lì per sorreggerla. Per non farla cadere. Narcissa accennò un sorriso. Nel pallore del suo viso baluginò un sentimento che parlava di fiducia e lealtà, di una promessa di matrimonio che a stento poteva replicare il voto d’amore contenuto nel gesto di Lucius e nella naturalezza con cui Narcissa lo aveva accolto.
Bellatrix fumava in silenzio, seduta sul braccio della poltrona dove Rodolphus attendeva la fine, capace di essere paziente per entrambi. E la fine arrivò.
Le urla cessarono, d’improvviso. 
O forse non era stato così immediato, forse così parve loro, persi nei propri pensieri, in indugi e timori.
Narcissa aveva chiuso gli occhi, come se precludersi la vista potesse sottrarla a quel suono rivelatore, al silenzio di gelo sceso nella stanza. Lucius, forse perché gelido di suo, o perché orfano di una madre morta troppo presto, aveva la situazione sotto controllo, come se la sua mente fosse già tre passi avanti e lui fosse al corrente di quello che sarebbe successo di lì a poco. Scavalcato il divano, in un attimo le fu accanto. L’aveva presa per mano, poggiandola delicatamente contro di sé.

Un grido aveva allora squarciato quel silenzio rarefatto, come un pittore squarcia la tela di un ritratto della donna che lo ha amato, ispirato e infine tradito.

Fu per quella sua prontezza salvifica, per quella perspicacia che per una volta non ebbe nulla dell’ingegno calcolatore e tutto dell’istinto animale alla protezione di ciò che si ha di più caro, che Narcissa, tra le braccia di Lucius, non fu trafitta in pieno.
Non si era trattato di un gesto di compassione, né la teneva stretta con la pretesa di sottrarla ad un dolore che le spettava di diritto. L’unico intento che quelle braccia possenti si erano proposte era quello di sorreggerla, di adagiarle sulle spalle un mantello che potesse attutire il colpo, lenire la ferita che ne sarebbe conseguita. E così fu.
Quella era la voce di sua madre. Un grido, una sola volta. Poi, più niente.
Rodolphus si era subito alzato dalla poltrona, aveva guardato velocemente Bellatrix, per assicurarsi che non cercasse altro da lui, e si era diretto verso le scale.
Lucius aveva allontanato con calma Narcissa da sé, l’aveva fatta sedere nuovamente sul divano, poi aveva raggiunto Rodolphus ed insieme erano saliti ai piani superiori.

Fu quella la morte della temuta Signora Black.
In età adulta Narcissa aveva cercato spesso le ragioni del proprio timore nei confronti della zia, ben sapendo che Bellatrix ne fosse immune. Solo con il tempo aveva compreso che a spaventarla fosse la nudità della sua sofferenza. Il modo in cui la perdita dei due figli e del marito avesse prosciugato la sua varietà di sentimenti, il suono sferzante che spesso assumeva la sua voce e i silenzi rancorosi in cui si chiudeva d’un tratto. Aveva paura, Narcissa, che un giorno anche la sua vita potesse incrinarsi in quel modo. E che in parte fosse responsabile di quella parabola discendente che aveva portato Walburga Black alla sua fine.
La prima cosa che aveva pensato, in quel salone, nel giorno della sua morte, era stata non è colpa mia.
Nessuno le aveva mai recriminato niente, ma lei sapeva. Sapeva ciò che aveva fatto, e ciò che non aveva fatto. Sentiva di potersi ritenere assolta solo entro una certa misura. Fino a quando non aveva iniziato la sua opera di disinteresse, per partito preso contro sua madre, per capriccio nei confronti di sua sorella e Rodolphus, che potevano trascorrere il loro tempo a fumare e farsi carezze lascive mentre lei faceva da balia alla vecchia zia fuori di senno. Lucius dal canto suo aveva colto l’opportunità apertagli dal suo atto di ribellione, ché anche Narcissa era un fiore che aspettava di essere colto, lui lo sapeva e non aveva rinunciato a distrarla da quel ruolo ingrato, a ricordarle quanto fosse bella la luce del sole e il colore dei tramonti a dispetto delle ombre tetre della stanza della vecchia Walburga.
Ma non era certo a suo marito che Narcissa imputava la colpa della sua distrazione.

Quando sua madre era scesa dalle scale di Grimmauld Place, sorretta da Rodolphus, non l’aveva neanche guardata. Si era fatta aiutare dal genero per sedersi sulla poltrona rimasta vuota, dove sedeva sempre e solo suo marito quando era vivo, e aveva guardato una sola volta l’altra figlia, Bellatrix, ordinandole di non dire niente a nessuno e soprattutto di non fare domande. A lei, che sempre aveva cercato di essere la brava bambina e la figlia diligente che le si chiedeva di essere, sua madre non aveva rivolto neanche uno sguardo collerico.
“Torno da Lucius, di sopra, Druella. Va bene?” aveva domandato Rodolphus, chino su di lei, parlando a voce bassa. Il più grande dei Lestrange aveva sempre avuto un certo rispetto nei confronti dei Black, un genere di premure che non sembrava rispondere alla natura della persona che era invece con gli altri. Peccato che Bellatrix non gliele avesse lasciate usare, ieri come allora, quando si trattava di lei.

“Come è successo?” aveva domandato seccamente Bellatrix, dopo che Narcissa ebbe portato a letto sua madre e spedito di malavoglia una lettera a Sirius.
Rodolphus era tornato al suo posto, sulla poltrona, sospirando aveva scosso la testa. Non voleva dirlo cosa e come fosse successo, chiunque avrebbe potuto capirlo senza ricorrere all’Occlumanzia.
Narcissa, però, aveva insistito.
“Troppe caramelle?” aveva domandato, sperando forse che il sarcasmo mitigasse l’altra asprezza, quella della verità.
Lucius era rientrato nel salone in quel momento, con aria scura, e non aveva rivolto lo sguardo verso quello di Narcissa fino a quando non era riuscito a cancellarsi quell’espressione dal volto.
“E’ impazzita” aveva mormorato con tono di sentenza, per chiudere la questione.
Bellatrix aveva alzato un sopracciglio, scettica come suo solito. Nel tempo avrebbero scoperto che non sarebbero mancate altre occasioni di disaccordo, che numerose altre volte Bellatrix non avrebbe esitato a sabotare i piani di Lucius, a sovvertire la sua gerarchia di priorità.
“Impazzita? Che idiozia. C’è di sicuro un altro motivo. Un motivo vero” aveva infatti commentato. Nella sua pretesa di conoscere il
motivo vero stava la sua visione del mondo e degli uomini, la certezza nuda e cruda che la vita fosse fatta di poli opposti e non vi fosse necessità di mediazione, perché la capacità di adattarsi a questa polarità assoluta e totalizzante stabiliva di per sé il diritto dell’uno a vivere e il destino dell’altro di morire.
“Qual è il vero motivo?” aveva chiesto di nuovo, quasi si trattasse di una sfida e non di comprendere le ragioni della morte per poter elaborare il proprio lutto.
Lucius l’aveva guardata duro e scontroso. Per un attimo parve arrabbiato e solo tempo dopo Narcissa aveva capito il perché di quell’espressione.
Per tutta la vita, da quando si erano incontrati, Lucius l’aveva avvolta in un abbraccio di seta. Non si sentiva sulla pelle, ma c’era, impalpabile eppure sempre presente, a cercare di preservarla dalle intemperie della vita, dalla inevitabile brutalità della guerra che si andava preparando, dal distacco che forse un domani sarebbe loro toccato in sorte.
Il progetto era ambizioso, glielo riconosceva. Non sempre ne era stato all’altezza. Ma sempre Narcissa aveva contato sul fatto che ogni fallimento rispondeva al tentativo di non venire meno a quell’impegno preso con lei e con se stesso.   
“Sarà stato un arresto cardiaco” aveva infine concluso Rodolphus, riemergendo dal suo mutismo e camminando in cerchio intorno alla poltrona su cui ora era rimasta solo Bellatrix.
“Sì, un arresto cardiaco” aveva ripetuto Lucius, assecondandolo.

*

Dalla morte della zia Walburga era ormai passato diverso tempo. I suoi vent’anni erano sfioriti, e Narcissa era sbocciata sotto nuove stagioni, sempre bella, sempre la stessa, sebbene con nuove consapevolezze e con l’abbraccio di seta di Lucius, che di tanto in tanto le scivolava sulle spalle.
Quello non era un periodo facile, pensò. Spontaneamente accarezzò le pieghe del vestito che aveva indosso. Due mesi. Era solo da due mesi che lo aveva saputo, e le sembrava ancora che tutto fosse accaduto ieri.
Ieri, quando Rodolphus e Bellatrix si erano sposati, consacrando un’unione fatta di pubblica convenienza, affetti segreti e inconciliabili divergenze.
Ieri, quando Lucius le chiedeva di sposarla, di diventare sua moglie, e la baciava lentamente sotto l’albero di ciliegio, fiorito nel giardino dei Black. 
Poi qualcosa era precipitato. Era stata una discesa rapida lungo il declivio di una disfatta inevitabile. Il primo segnale, forse, era stato il matrimonio di Bellatrix, come sempre, del resto. Bellatrix non poteva tollerare di perdere da sola, doveva sempre trascinare qualcuno con sé. Forse quel fare l’amore per i motivi sbagliati alla fine non era più bastato ad entrambi, era giunto il momento in cui avrebbero dovuto fare i conti con quello che chiedevano all’altro: due cose diverse. Una vita al servizio della causa pureblood, certo, ma finalizzato ad una vecchiaia nel Wilthsire, dove avrebbero goduto i frutti di una guerra vinta, accontentandosi della posizione raggiunta, magari dando un erede ai Lestrange e una seconda chance alla casata Black. Non così poteva essere per Bellatrix, Narcissa lo sapeva. Bellatrix non era fatta per la calma brughiera, conteneva in sé la forza prorompente dei fiumi in piena, né aveva la pazienza di invecchiare accanto a qualcuno, di ridiscendere dolcemente a valle dopo aver raggiunto la vetta della montagna. Sua sorella aveva consacrato la propria vita all’amore totalizzante per la causa e per chi quella causa incarnava, non avrebbe mai separato l’una dall’altro, né aveva posto per altro e per altri che non fossero Lord Voldemort e la purezza della stirpe magica.
Il timido sole di giugno non era bastato per riaccendere il fuoco del suo matrimonio, al cospetto del ritorno del Signore Oscuro doveva sembrarle una unione ormai sterile.
Si era trasferita nella vecchia casa dei Black, a Grimmauld Place, dove tutto aveva avuto inizio. 
Mentre Rodolphus raggiunta Malfoy Manor entrava nello studio di Lucius con le mani tra i capelli e l’aspetto stravolto annunciando che Bellatrix se n’era andata, Narcissa qualche stanza più sopra scopriva che dentro di lei c’era una nuova vita.
E piangeva lacrime silenziose, spaventata, atterrita.
Sorpresa e incredula non sapeva bene a cosa pensare. Da sempre le riusciva difficile immaginare se stessa nel ventre di sua madre, e la sola idea che ora fosse lei a portare dentro di sé una vita, un altro essere umano, le appariva un compito a cui era stata destinata da sempre ma a cui nessuno l’aveva preparata.
Aveva atteso che Rodolphus lasciasse il maniero, poi aveva aperto la porta della camera da letto. Oltre la porta aveva trovato davanti a sé suo marito.
Lucius la guardava perplesso e appena preoccupato, vedendone gli occhi rossi e l’aria smarrita. Negli ultimi giorni aveva notato dei cambiamenti in lei, ne era rimasto stupito e un po' teso. Narcissa non era facile da comprendere, ai suoi occhi conteneva tutta la complessità e il mistero che lui vedeva nell’essere donna. Abituato ad entrare in qualsiasi stanza senza bussare, a volte si trovava invece ad indugiare dietro la porta della sua camera da letto.
“Che succede, Cissa?”  aveva domando altrettanto smarrito, benché dalla sua voce trapelasse solo la preoccupazione presente a se stessa di chi ha in carico la gestione degli affari, inclusi quelli di famiglia.
Alla domanda istintivamente la mano affusolata e curata di sua moglie era andata a posarsi sul ventre, e prima che lui potesse chiedere ancora qualcosa, lei aveva già detto tutto.
“Aspetto un bambino”.
La voce le tremava ancora a quel pensiero destinato presto a divenire realtà.
Lucius aveva appoggiato la propria mano su quella di Narcissa, una strana luce velava i suoi occhi. Era presto per un erede, ma non troppo per un figlio. Le baciò le labbra, e la avvolse nel suo abbraccio. Da quel momento avrebbe dovuto proteggere due persone, ma, con un’incertezza che tenne per sé, sperò che potesse bastare.

*

Era tornata a Grimmauld Place, nella casa degli avi, dopo una discussione avuta con Lucius.
Sua sorella sembrava non essere in casa, ma Narcissa non l’aveva cercata.
Mossa dal richiamo della propria storia era invece tornata nella stanza in cui viveva la zia Walburga. Tutto era sinistramente rimasto come era nei suoi ricordi.
Sul comodino trovò la scatola barocca della zia. Giaceva immobile e per un attimo le sembrò sciocco aver pensato il contrario. Rimase a guardarla per lunghi minuti, chiedendosi cosa ci facesse lì. Poi dei passi l’avevano spinta a voltarsi verso la porta.
Bellatrix era appoggiata allo stipite, i lunghi capelli corvini si confondevano con la semioscurità della stanza, dando risalto all’espressione del viso. Sorrideva di sbieco e benché Narcissa riconoscesse quel suo modo di sorridere i pensieri che le stavano attraversando la mente in quel momento le sembrarono comunque indecifrabili.
“Cara sorella, a cosa devo una tua visita?”
La sua voce era sferzante, quasi risentita. I suoi occhi si posarono sulla mano di Narcissa, ancora ferma a toccare quel punto dove una vita stava prendendo forma.
Forse invidiava quella sua capacità di portare dentro di sé un altro essere, quando lei invece covava solo rancore, rabbia, insoddisfazioni, e un senso di impotenza verso tutto ciò che le sue energie sentivano di poter e voler realizzare in una realtà che invece le negava l’azione e le sottraeva l’oggetto del suo desiderio.
“Sono una Black anche io, Bella. Questa è anche casa mia”.
Quando erano sole mettevano sempre da parte i loro mariti. Era un confronto più equo, alla pari, sangue dello stesso sangue. Un senso di appartenenza che avrebbe permesso loro di scontrarsi senza farsi del male. Fin quando fosse stato possibile. Fin quando, cioè, per Bellatrix le ragioni della causa non avrebbero prevalso persino su quelle della famiglia e del sangue.
Bellatrix aveva assottigliato gli occhi per abituarli al buio della stanza, appoggiandosi all’anta dell’armadio, di fronte al letto di Walburga su cui era seduta Narcissa.
Era sempre stata una loro prerogativa quella di non sedersi mai vicine. A tavola, in famiglia, avevano sempre occupato il posto una di fronte all’altra. Le loro stanze nelle residenze dei Black erano sempre una davanti all’altra. Era uno scontro continuo, sebbene non sempre assumesse i toni di una vera e propria battaglia. Quando erano piccole era il modo in cui entrambe sfogavano la propria rabbia, certe che l’offesa sarebbe durata poco.
Le cose erano cambiate lentamente, nel modo che ha il tempo di scavare fossati invisibili fino a quando, di colpo, un qualche evento accidentale rivela che a separare le due sponde c’è ormai un baratro e che per raggiungersi bisogna trovare il coraggio di compiere un salto nel vuoto.
“Hai litigato con Lucius, Cissy?”
“Sì” aveva risposto tagliente Narcissa.
La infastidiva l’accento con cui Bellatrix sottolineava ogni volta che lei e Lucius discutessero per qualcosa, quasi volesse farle intendere di aver fatto una scelta poco avveduta, di aver scelto un partito che lei aveva già visto essere marcio. Narcissa dal canto suo non inferiva mai sul rapporto altalenante che sua sorella aveva con Rodolphus, perché infantilmente una parte di sé riteneva che Bellatrix volesse in qualche modo difendersi dall’idea che il proprio matrimonio fosse fallito, mentre quello dell’altra brillava di luce propria e abbagliava tutto e tutti. Anche se quell’ultima discussione l’aveva davvero infastidita. 

“Diventerò enorme, sarò meno bella di ora. Non mi riconoscerai più”.
“Saprai come riprenderti” le aveva risposto senza alzare lo sguardo dall’alambicco magico che aveva per le mani.
Si era voltata bruscamente verso di lui. Il tatto di suo marito, la sua capacità di sforzarsi di capire come potesse sentirsi qualsiasi altra persona che non fosse se stesso, le sembrava a volte rasentare lo zero assoluto. 
“Mi stupisco sempre di come l’uomo astuto e scaltro che mi hanno detto di aver sposato scompaia di fronte ad una situazione semplice come questa”.
Lui aveva alzato un sopracciglio, sinceramente perplesso.
“Non capisco dove vuoi arrivare, Narcissa”.
“Anni di corteggiamenti, di carteggi, di notti trascorse insieme, un matrimonio – e ancora non sai quando devi dirmi una bugia” * aveva risposto incollerita, lasciandolo solo diretta verso Grimmauld Place. L’istinto era stato quello di tornare alla propria famiglia, come se ne avesse davvero una, e non fosse già quel triste insieme di diseredati e defunti che invece era.
Nell’esplosione di rabbia che gli aveva riversato addosso c’era forse una punta di amarezza, ma Lucius ebbe modo di comprenderlo solo dopo, quando Narcissa non era tornata neanche al tramonto e lui aveva iniziato a considerare che si trattasse di qualcosa di serio, di molto più serio di un semplice sbalzo di umore.
Comprese di essere stato uno stupido.
“Ma cosa dici, Cissa. Questi pensieri sono inutili perdite di tempo”.
Tutto lì, quel che doveva dirle.

All’ammissione del litigio avuto con Lucius, Bellatrix le rivolse un sorriso, stavolta meno feroce, più fraterno. Non le chiese cosa fosse successo, gli screzi matrimoniali della sorella o di chicchessia non avevano per lei alcun interesse e non le interessava neanche fingere di averne.
Narcissa non se ne stupì ma, forse per ripicca o forse per sincero desiderio di parlare con sua sorella, pensò bene di chiederle come andasse con Rodolphus.
“Ho parlato con Rod. Mi ha detto che non eri al maniero” la anticipò Bellatrix, lapidaria. Narcissa la guardò in volto con un’espressione che poteva dirsi molto formale, di quella compostezza che una Black avrebbe riconosciuto come marchio di famiglia. Il segno inconfondibile dell’addestramento ricevuto a mostrare freddezza e indifferenza anche di fronte alla più tenera cedevolezza del cuore.
“Bene” rispose prendendo nota che se Rodolphus e Bellatrix avevano parlato di lei era di certo perché Lucius aveva interesse a sapere che fine avesse fatto sua moglie.
Non aggiunse altro, ritenendo di non aver altro da dire. Era in realtà già pronta a tornare al maniero, quando Bellatrix scostandosi dalla sua roccaforte si avvicinò a lei, sedendosi sul letto. Accanto a lei. Narcissa la lasciò fare, guardinga nei confronti di una mossa così inusuale.
Le due sorelle Black erano forse per la prima volta sedute vicine.
“Che succede, Bella?”
Da parte di Bellatrix dapprima non giunse risposta. Fissava la scatola sul comodino della zia Walburga, con insistenza, la fissità dello sguardo si trasferiva a quella del corpo, quasi non respirasse neanche, cristallizzata in un passato che non lasciava scampo.
Al suo fianco Narcissa sentiva invece un’agitazione antica crescere in lei nel rievocare quei ricordi – il suono martellante del cuore che da bambina la accompagnava ad ogni gradino della scala verso quella stanza, l’ansia di essere scoperta nel suo raggiro e il sollievo con cui tornava alla luce dei lampadari del salone, al vociare della sorella e dei cugini, al tintinnio dei bicchieri di cristallo che gli elfi domestici disponevano in tavola per il pranzo e per la cena. Di colpo si sentì scoperta, senza il mantello di seta di cui Lucius per tutto quel tempo le aveva fatto dono.
Poi di colpo Bellatrix spostò lo sguardo su di lei, con un guizzo così brusco da spaventarla.
“Ti ricordi?” le domandò con un cenno della testa verso la scatola.
Narcissa le rispose con freddezza, dalla distanza che aveva cercato di porre tra sé e quella scatola.
“Tu hai forse dimenticato?” le chiese quasi indispettita per una domanda che viveva come un’accusa, la sottile insinuazione che lei, Narcissa, avesse potuto dimenticare.
Si voltò verso Bellatrix, guardandola dritto negli occhi. Avanti, dillo.
“Sai Cissy, ce l’ho sempre avuta un po' con te, per quella storia. Tu hai questo bel cavalier servente pronto a guardarti le spalle, e ce l’hai da quando è morta nostra zia. Non fraintendermi, sai cosa penso di Lucius. Ma come tuo solito hai qualcosa che servirebbe più a me che a te, e non mi è parso giusto”.
Narcissa accolse quelle parole come se fossero pronunciate in una lingua straniera.
Rimase qualche momento in silenzio, come cercando di rimettere insieme i pezzi di un vaso la cui decorazione sia impossibile da ricomporre, resa ormai irriconoscibile.
“Gliele davo io, sciocca sorella” aggiunse con amara semplicità Bellatrix, scrollando le spalle.
Narcissa avvertì un senso di nausea assalirla, come se avesse compreso tutto insieme troppo in fretta.
“Eri tu?”  le domandò con esitazione, prendendo altro tempo per capire qualcosa che aveva già capito. Bellatrix aveva roteato gli occhi sul soffitto, e si era sporta verso di lei, quasi volesse sbranarla – lei e la vita che portava in sé, lei e il mantello di Lucius, lei e la sua capacità di sopportare un dolore tanto forte per tutti quegli anni senza inciamparvi una sola volta e che avrebbe continuato a sopportare anche se lei non le avesse detto la verità.
“Gliele davo io le pillole in più, Narcissa. Io ho ucciso nostra zia, e io avevo bisogno di essere protetta da qualcuno”.
Anni e anni di sensi di colpa.
Narcissa scosse la testa, le diede uno schiaffo e la abbracciò.
Non aveva mai abbracciato nessuno, se non Lucius, e una volta suo cognato, arrivato distrutto al maniero dopo una delle sue violente discussioni con Bellatrix. Ma sua sorella non l’aveva forse mai abbracciata. E c’era voluto tutto quel tempo, tutto quel male che si erano fatte, che avevano fatto, e che avevano provato. C’era stato bisogno della morte della zia.
Bellatrix non si sottrasse a quell’abbraccio, e Narcissa pensò bene di scioglierlo quanto prima, prima che divenisse fuori luogo per entrambe.
“Torna a casa e costringi Lucius a chiederti scusa”.
“E tu cerca di capire che Rodolphus-“
“Non c’è niente da capire, Cissy. Stasera stiamo insieme e poi passiamo altri sei mesi a litigare e sputarci addosso veleno. Poi ricomincia la giostra, e questo è il nostro matrimonio”.
Il suo tono non ammetteva repliche, non accettava consigli e Narcissa non gliene diede. Sarebbe stato inutile ricordarle che la protezione che cercava l’avrebbe potuta trovare nelle pieghe del mantello di Rodolphus, non certo in quelle del loro Oscuro Signore, che dai suoi uomini e dalle sue donne pretendeva fedeltà e adorazione senza distinzione alcuna, e che la predilezione che dimostrava per lei sarebbe stata la stessa con cui, in caso di necessità, avrebbe scelto di sacrificarla tra i tanti che aveva attorno.
Si alzò e ripose la scatola nel cassetto in alto a cui era appartenuta.
“Non avrei dovuto disinteressarmene. È colpa mia quanto tua”.
Bellatrix sbuffò innervosita, alzandosi a sua volta dal letto. Ovunque si trovasse, appariva sempre simile ad un animale in gabbia, smaniosa di dare sfogo alla propria natura.
“Non fare l’eroina, resti comunque la moglie di un Mangiamorte, Cissy. E comunque quando mi metto in testa di fare qualcosa sai bene che è difficile che non finisca come dico io”.
Narcissa annuì, colta da un’improvvisa sensazione. Era strano o forse normale aver pensato proprio in quel momento, tra quei discorsi di morte, di non essere mai stata tanto lieta di portare un figlio dentro di sé.
“Ma perché lo hai fatto?” domandò ormai sulla porta.
Nessuna delle due si aspettava quella domanda, l’una di sentirsela fare e l’altra di sentirsela chiedere.
“Non sopporto i pazzi come lei”.
E in che modo era pazza zia Walburga, Bellatrix?
Di conoscere quella risposta non ebbe il coraggio, e non infranse il silenzio che accompagnò i loro passi lungo il corridoio che conduceva alla porta di ingresso.
Narcissa chiuse la porta, Bellatrix la sigillò.
Si smaterializzarono in posti diversi, tornando da due mariti diversi, a trascorrere due vite diverse, pur avendo nelle vene lo stesso sangue, che ancora ribolliva per quella confidenza, per quel torto compiuto e subito, forse non ancora scontato, di certo già perdonato.

*

“Tua sorella è impazzita, Narcissa. Non sa più quello che fa”.
Rodolphus lo aveva confessato con sguardo terreo, perso nel fondo dell’Ogden Stravecchio delle cantine Malfoy. Lucius lo aveva confermato con un cenno di assenso, riempendo ancora il bicchiere.
Entrambi l’avevano guardata, aspettando qualcosa da lei.
Narcissa indugiò per un momento, poi uscì dalla stanza. 

*

La scalinata che conduceva ai piani superiori era lunga e costellata di ritratti. Tutta la dinastia Malfoy osservò il suo passaggio con un’aria di sconsolata riprovazione che Narcissa ignorò con una sopportazione rodata negli anni.
Concentrata su ogni gradino, saliva le scale facendo attenzione che dal bicchiere colmo d’acqua non cadesse una goccia. Nell’altra mano in un pugno erano custodite due pasticche rotonde.
Entrò nel buio della stanza come se vi fosse piena luce, chinandosi su sua sorella, evasa da qualche mese e non troppo ufficiosamente etichettata come “folle” da buona parte della vecchia e nuova guardia dei Mangiamorte acquartierati nella residenza Malfoy.
“Bella”.
Benché sua sorella non si fosse mossa, Narcissa tese in sua direzione la mano aperta, porgendole le pasticche. Della pazzia della zia Walburga non avevano mai più parlato. Come Bellatrix l’avesse giudicata, Narcissa continuava ad ignorarlo.
Bellatrix osservò per lunghi istanti le pasticche che sua sorella le stava offrendo, e alla fine tese scontrosa la propria mano, in un gesto che Narcissa non seppe interpretare.
Difficilmente poteva dire di comprendere sua sorella, quel che sapeva di lei, lo aveva appreso solo attraverso lo specchio delle loro reciproche diversità.
Lasciò che Bellatrix prendesse le pillole dalla sua mano e con la stessa fretta con cui lasciava la zia con le sue pasticche si diresse verso la porta. Poggiò la mano sulla maniglia, quando sentì un borbottio indistinto provenire dal fondo della stanza.
“Sanno di menta”.
Lei non poteva vederla, ma percepì su di sé lo sguardo torvo di sua sorella. Abbassò la maniglia e aprì la porta, domandandosi se fosse il momento di una nuova confessione.
Quale che fosse la risposta giusta non si concesse altro tempo per trovarla, mossa dalla speranza che quella storia potesse avere una propria conclusione anche prima della morte dei suoi attori principali.
“Lo so”.
Bellatrix non disse niente. Nel suo silenzio, Narcissa riconobbe quello in cui anni prima aveva accolto il segreto di sua sorella.
“Ero io. Gliele davo io, le caramelle, Bellatrix. Ecco perché a te mancavano”.
Uscì dalla stanza nel momento in cui Bellatrix urlò qualcosa, scoppiando in lacrime.
Con le spalle appoggiate alla porta chiusa, Narcissa ebbe cura di quel pianto e del proprio. Di quelle lacrime che anche lei avrebbe dovuto piangere tanti anni fa, quando credeva che la colpa per la morte della zia fosse stata sua, perché un giorno aveva deliberatamente smesso di darle quelle pasticche, spacciandogliele per caramelle.


Fine.

* Battuta ispirata ad una scena del telefilm “Desperate Housewives”.

 

Alcune specificazioni. 
In un irresponsabile tentativo di evasione dalle incombenze del momento, ho deciso di riprendere in mano questa breve one-shot, ormai datata. 
Rispetto alla prima versione la trama non ha subito modifiche sostanziali, quanto più stilistiche.
Ho tuttavia corretto alcuni dettagli, che alla luce dei libri e del materiale di contorno pubblicato nel corso degli anni, risultavano ormai imprecisi. Ciò nonostante, per esigenze di coerenza cronologica rispetto alla trama della fanfiction, ho dovuto anticipare la data della morte di Walburga Black, che nel Potterverse risulta avvenuta nel 1985, mentre qui è collocata tra il 1979 e il 1980. Si tratta di un AU che, nonostante la revisione, proprio non ho potuto evitare :D 

Con l'occasione ringrazio ancora tutti i lettori di ieri e, magari, di oggi! Un particolare ringraziamento lo rinnovo ai recensori, dei cui consigli ho tenuto conto nella riscrittura della fanfiction, nella speranza che la nuova veste non abbia tradito troppo quella originale :)

  
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