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Autore: Niglia    18/03/2010    3 recensioni
Ottobre, 1878. Parigi.
Il Fantasma dell'Opera non è morto. Anzi, non è mai stato più deciso a vivere di adesso. Accompagnato da dei nuovi piani di vendetta, torna nella città dalla quale è stato costretto a fuggire due anni prima, un uomo vuoto, senz'anima, con solo un nome nella testa che lo spinge a tornare a Parigi, in quello stesso teatro che in fondo è sempre stato il suo regno, la sua casa, perchè non può essere altrimenti...
E così la storia sembra ripetersi, ma c'è sempre qualcosa con cui dimentichiamo di fare i calcoli; possibile che il Fantasma possa trovarsi di fronte ad una ragazza - incredibilmente somigliante alla sua antica musa - capace di risvegliare in lui quel qualcosa che credeva essere morto per sempre?
In uno strano miscuglio di passato e presente, la strana vicenda del Fantasma dell'Opera sembra continuare a stupire e terrorizzare anche attraverso il tempo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Erik/The Phantom, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chapitre 1

Ritorno al passato: lo Specchio
















Ottobre, ventunesimo secolo. Parigi.

Giulia Isabelle Nilsson, figlia della soprano più famosa e richiesta da tutti i teatri d’Europa negli ultimi quindici anni, scese dalla lucida Porsche nera del fratello, sorridendogli mentre correva a rifugiarsi nel suo abbraccio per sfuggire al freddo pungente di quel venerdì di metà autunno. Ancora non aveva nevicato, ma di sicuro non ci sarebbe stato da attendere molto prima che le vie di Parigi si imbiancassero come in un quadro natalizio.

Jean-Louis, il fratello maggiore di Giulia, strinse la sorella tra le braccia, attirandola poi sotto il pesante cappotto per accompagnarla fino al foyer dell’Opèra Garnier, dove sarebbero stati finalmente al riparo. Una volta dentro, infatti, la ragazza tirò un sospiro di sollievo, sbottonandosi il cappotto e rimanendo solo con la camicia e un paio di pantaloni di velluto color prugna, che stavano già iniziando ad infastidirla; dentro il teatro, infatti, la temperatura era quasi afosa.

Come sempre, l’immenso salone pullulava di addetti alle pulizie e di turisti, che gironzolavano da una parte all’altra delle scalinate in marmo accompagnati dal cicaleccio tipico di chi si trovava in quel tempio dell’arte e ancora non riusciva a crederci. Il pendolo dell’orologio all’ingresso batté le 16 in punto, e i due fratelli si diressero di tacito accordo verso la zona degli uffici e dei camerini delle varie comparse, ballerine, cantanti e così via, dove avrebbero potuto poggiare la loro roba prima di andare alla lezione del coro.

O meglio, Jean-Louis si limitava ad accompagnare la sorella che, come solista del coro dell’Opèra, non poteva mancare a nessuna lezione, e lui, in quanto figlio di madame Gauthier, aveva il permesso di assistervi.

Quando entrarono nella grande sala che avevano adibito ad aula prove, Giulia ringraziò mentalmente il cielo di non essere l’unica in ritardo. Le altre ragazze si stavano ancora sistemando ai loro posti, mancava quasi la metà dei ragazzi e neppure il maestro Vincent, il direttore dell’orchestra, era ancora arrivato. Al contrario madame Lambert, l’insegnante di canto, batteva già i piedi dall’impazienza.

Con un sorriso Giulia salutò il fratello che andò a sedersi su una poltroncina accanto al pianoforte che veniva utilizzato durante le prove, e raggiunse le sue compagne che le facevano cenno di raggiungerle. Dopo dieci minuti furono al completo, tutti seduti in cerchio in delle vecchie sedie che un mezzo secolo prima avevano fatto parte delle della platea, e madame Lambert che sfogliava distrattamente uno spartito in attesa che il brusio dei suoi allievi cessasse. Alla fine, per attirare la loro attenzione fu costretta a tossire un paio di volte, leggermente irritata.

«Bene, ragazzi. Adesso che ci siamo tutti direi che possiamo iniziare...» Sospirò, tornando indietro con le pagine del suo fascicolo. «Volevo che oggi provaste in platea, ma monsieur Legrand, il direttore, mi ha chiesto la cortesia di avere un po’ di pazienza e di rimandare la vera e propria prova generale, visto che i branchi di turisti disturberebbero la nostra esercitazione.»

Alcune delle ragazze ridacchiarono sottovoce al tono stanco e spazientito dell’inflessibile insegnante di canto, ma tacquero immediatamente per evitare che la rabbia della donna si abbattesse su di loro. Madame batté le mani con due colpi secchi, e tutti i ragazzi e le ragazze si alzarono simultaneamente assumendo ciascuno la propria posizione, dividendosi a seconda della tonalità della loro voce.

«Bene, iniziamo con qualche vocalizzo semplice per riscaldarci le corde vocali... Maestro Vincent?»

L’anziano direttore si sedette al piano, voltandosi verso la donna. «Oui, madame?»

«Datemi un Do, per favore. Quanto a voi, ragazzi,» aggiunse, rivolgendosi al coro. «Fatemi sentire una bella scala di vocali. Cercate di non deludermi anche voi oggi, per piacere.»

Cercando di trattenere dei sorrisetti, i soprani diedero inizio alla lezione, seguendo i gesti che madame Lambert faceva loro per aiutarli a mantenere il tempo e il ritmo. I vocalizzi, come al solito, durarono una mezzoretta piena, in modo da alternare i soprani con i tenori, i baritoni con i mezzosoprani e i contralti, e così via. Come sempre, alla fine degli esercizi le gote delle ragazze erano rosse come ciliegie, ed erano tutti così accaldati che dovettero iniziare a sventolarsi con alcuni ventagli per evitare di aprire le finestre. Avere un coro con l’influenza a pochi giorni dalla prima non avrebbe fatto piacere a nessuno.

«Va bene, cinque minuti di pausa, bevete un sorso d’acqua.» Concesse madame Lambert alla fine, nascondendo il suo compiacimento. «Giulia, puoi venire un attimo?»

La ragazza si allontanò dal gruppo delle colleghe e raggiunse l’insegnante al lato opposto della sala, quasi certa di quello che la donna le avrebbe chiesto.

«Hai preparato quel brano che ti ho chiesto, chèrie?» Le chiese infatti, sorseggiando un bicchiere di the dal thermos dal quale non si separava mai.

Giulia annuì. «Si, certo. Die Königin der Nacht, vero madame?»

Madame Lambert annuì a sua volta, lieta di sentire che la sua allieva più brillante aveva preparato anche quell’ennesimo e difficile brano. «Si chèrie, ed ora sono curiosa di sentire come lo hai preparato... Anche se conoscendo te e conoscendo tua madre, potrei mettere la mano sul fuoco sul fatto che sarai impeccabile.»

L’altra arrossì senza rispondere, riuscendo però a mascherare l’irritazione. Le dava fastidio, infatti, che tutti la paragonassero a sua madre, come se per il semplice fatto di essere la figlia di una così grande cantante d’opera, anche lei non sarebbe potuta essere da meno. Per carità, Giulia amava il canto e in particolar modo amava il teatro, ma c’erano delle volte – e questa era una di quelle – in cui avrebbe preferito essere la figlia di una maestra delle elementari piuttosto che di Eloise Gauthier. Anche perché, per colpa degli sciocchi favoritismi che le riservava madame Lambert, tutte le altre ragazze del coro la invidiavano, e non era mai riuscita a farsene amica nemmeno una, per quanto tutte si prodigassero a trattarla come tale per non far irritare l’insegnante.

Con l’ennesimo battito di mani, quest’ultima attirò l’attenzione del resto del coro, facendo loro cenno di avvicinarsi al piano, dove Giulia prese posto di fronte a maestro Vincent con lo spartito del brano aperto sul ripiano dello strumento. Mentre i suoi colleghi prendevano posto, la ragazza notò alcune occhiate che le altre soprano si scambiarono e sospirò, rattristata; erano tutte invidiose della sua posizione, ma non l’aveva certo chiesto lei di essere la solista del coro! Perché non si proponeva una di loro per il posto? Glielo avrebbe ceduto molto volentieri.

«Bene ragazzi, adesso Giulia ci delizierà con un brano tratto dal Flauto Magico di Mozart, che di sicuro conoscete tutti. Avete già sentito parlare della Regina della Notte, n’est-ce pas

Tutti annuirono e mormorarono consensi, prima di tacere e spostare l’attenzione sulla ragazza. «Maestro Vincent...» disse lei, porgendogli lo spartito. «Qui. Dall’inizio dell’aria...»

L’uomo annuì, e dopo aver sistemato i fogli sul leggio di fronte a sé e aver terminato di suonare l’introduzione, le fece cenno di iniziare.

«Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen,
Tod und Verzweiflung flammet um mich her!
Fühlt nicht durch dich Sarastro Todesschmerzen,
So bist du meine Tochter nimmermehr.
Verstossen sei auf ewig,
Verlassen sei auf ewig,
Zertrümmert sei 'n auf ewig
Alle Bande der Natur
Wenn nicht durch dich Sarastro wird erblassen!
Hört, Rachegötter, hört der Mutter Schwur!
»

I vocalizzi di quell’aria erano la parte che Giulia amava più di tutto. Le davano la possibilità di gridare tutta la sua rabbia e la sua frustrazione senza che nessuno si scandalizzasse, e perciò mise in quel canto tutto il sentimento di cui era capace. Alla fine, malgrado stessero rodendo dall’invidia, le sue compagne di canto non poterono fare a meno di applaudire, per quanto fosse evidente la voglia che avevano di strangolarla. Anche i complimenti di madame Lambert erano ben accetti, considerando che la donna li distribuiva sempre con moderata e avara parsimonia.

Ad ogni modo, fortunatamente, anche quella lezione terminò, e dopo aver salutato il maestro Vincent e i due violinisti che lo accompagnavano durante le arie, anche Jean-Louis raggiunse la sorella, uscendo nel corridoio che si stava riempiendo lentamente.

«Alla buon’ora, non ne potevo più!» Esclamò il ragazzo una volta fuori, afferrando la sorella per la vita e camminando abbracciato a lei. «Tutte quelle oche mi stavano davvero dando fastidio per il modo in cui ti guardavano...»

Giulia rise, seppur un po’ sforzatamente. «E come mi stavano guardando?»

Jean-Louis strinse gli occhi, arrabbiato. «Come se ti avessero voluto strangolare! Che nervi...»

«Non importa, è così da sempre, perciò...» Si limitò a rispondere lei, scrollando le spalle. Qualcuno però attirò la sua attenzione e Giulia si aprì in un sincero sorriso, salutando con la mano a qualche signora che da lontano il fratello non riconobbe.

«A chi saluti?» Si volle pertanto informare, curioso.

«A madame Sindial!» Replicò lei, accelerando il passo verso la signora. «Non te la ricordi? La mia vecchia insegnante di danza di quando ero bambina! Ora vado a salutarla...»

Jean-Louis la fermò in mezzo al corridoio, attirandola velocemente verso di sé. «Aspetta un attimo, Giulia, io credo che andrò a parlare con maman, mi ha detto che è appena arrivata e vuole che la raggiunga... Ci vediamo dopo all’ingresso, okay?»

La sorella annuì, sorridendo. «Okay, saluta la mamma. Ci vediamo dopo, ciao!» E, dopo avergli schioccato un bacio sulla guancia, sparì in mezzo alla folla.

«Madame Sindial!» esclamò non appena le fu davanti, volando nel suo materno abbraccio. «Come state? È un secolo che non vi vedevo... Siete stata male?»

La donna sorrise a sua volta, gli occhi azzurri che brillavano di felicità nel vedere quella ragazza che aveva praticamente visto crescere e alla quale era sinceramente affezionata, e le passò una mano tra i lunghi e morbidi capelli castani, accarezzandola dolcemente. «Ah, Isabelle... Sei sempre più bella, ma chère

Giulia sorrise, lasciandosi portare dentro lo studio della donna. «E voi continuerete a chiamarmi sempre Isabelle, non è così?»

«Non ti piace, forse?» Replicò, fingendosi offesa.

La ragazza rise, e questa volta di cuore. «Oh no, mi piace! Però... Lo trovo così antico...» Aggiunse, con una strana smorfia del naso. «Ma non avete risposto alla mia domanda! Siete stata male?»

Madame, un’assennata signora sulla sessantina d’anni splendidamente portati, non si era mai ammalata da quando Giulia la conosceva: aveva sempre avuto una salute di ferro. Si sedette, offrendo del the alla sua giovane ospite.

«Tesoro, lo sai che io non mi ammalo mai così facilmente.» Ribatté, con un mezzo sorriso. Poi sospirò. «In realtà era mia figlia ad essersi ammalata, Josephine... Ha sempre avuto una salute precaria, ma dopotutto anche mio marito è così, e quindi le serviva aiuto per badare ai gemelli. Sono cresciuti tantissimo a proposito, sai?»

Giulia sorrise, nel vedere l’espressione orgogliosa della neo nonna. «È da molto che non vedo anche loro, in effetti! Quanti anni hanno, adesso? Due?»

«Li compiono fra due mesi, si.» Sorrise madame, annuendo. Improvvisamente lo sguardo della donna si fece malizioso e complice, e si chinò verso di lei, incuriosita. «E tu, tesoro? Non sei ancora fidanzata?»

La ragazza rise, scuotendo la testa. «Direi di no, madame!»

Madame Sindial sembrò delusa, mentre tornava al suo posto. «Però tesoro, hai vent’anni, dovresti rimediare alla svelta. Io alla tua età ero fidanzata con mio marito già da un paio d’anni.»

Per prendere tempo, Giulia sorseggiò con calma il suo the. «Veramente ne ho solo diciannove, madame, e comunque non ho fretta! Quando avverrà, e soprattutto se, sarà ben accetto.»

«Va bene, va bene, però sappi che lo voglio conoscere.» Concluse, liquidando poi il discorso con un gesto della mano. «Ah, prima che me ne dimentichi! Voglio farti vedere una cosa. Vieni con me.»

Prese qualcosa da un cassetto della scrivania e poi si diresse verso la porta, facendole cenno di seguirla. I corridoi erano nuovamente vuoti, tutti erano tornati alle loro rispettive classi per le nuove lezioni, e i passi delle due donne rimbombavano sul tappeto che ricopriva il prezioso pavimento di marmo.

«Cosa volete farmi vedere, madame?» Chiese la ragazza, incuriosita.

La donna le fece cenno di avvicinarsi di più a lei, in modo da poterle parlare sottovoce come se avesse avuto paura che qualcuno le sentisse. «Dato che ho passato quasi due settimane a casa mia, ho avuto modo di risalire in soffitta per spolverare, e ho trovato alcuni vecchi bauli che probabilmente erano lì a fare muffa dall’inizio del secolo...» Scrollò le spalle, leggermente disgustata, ma quasi subito una strana luce tornò ad illuminarle lo sguardo. «Ovviamente li ho aperti! E in uno ho trovato una chiave di bronzo sulla quale c’era scritto O. G. Opèra Garnier! Te ne rendi conto?»

Giulia annuì, affascinata. «E che cosa ci faceva una chiave del teatro a casa vostra?»

«È quello che mi sono domandata anch’io! Poi però mi sono accorta che il baule e tutti quegli oggetti appartenevano ad una mia antenata, una certa Marguerite Mercier che era stata prima ballerina dell’Opèra negli anni Settanta del secolo scorso. Quindi può essere che la chiave fosse del suo camerino...»

«Non siete ancora andata a vedere?»

«Sinceramente?» Madame le scoccò uno sguardo penetrante prima di risponderle. «Mi sentivo a disagio al solo pensiero di andare a curiosare per il teatro da sola, quindi ho preferito aspettare. E meno male che sei arrivata tu, tesoro! Stavo letteralmente morendo dalla curiosità. E comunque, so qual è la stanza.»

Giulia sollevò impercettibilmente le sopracciglia. «Lo sapete? Ma allora...»

«Non ne sono del tutto sicura.» Precisò, svoltando nell’ennesimo corridoio. «Che io sappia, però, esiste solo una porta che non è mai stata aperta, a teatro, perciò presumo che sia quella... Ora, ad ogni modo, vedremo se i miei presentimenti sono esatti.»

Non appena cessò di dire queste parole, madame Sindial si fermò in mezzo al corridoio, fissando una porta che si innalzava di fronte a lei, intarsiata come tante altre porte lì a teatro, dall’apparenza del tutto innocua e anonima, senza niente che potesse giustificare quello sguardo eccitato che Giulia aveva visto negli occhi della sua vecchia insegnante di danza.

«È... questa?» Domandò infine, spostando lo sguardo dalla porta alla donna, che sembrava fremere.

Quest’ultima stava bisbigliando qualcosa sottovoce. «Finalmente... Dopo tanto tempo... La Loge Perdue... Meg, adesso scoprirò il tuo segreto, vedrai...»

Giulia si avvicinò cautamente alla donna, toccandole un braccio. «Madame? Vi sentite bene?»

Madame Sindial le rivolse un sorriso a dir poco abbagliante. «Si, tesoro. Mai stata meglio!» Poi quasi corse verso la porta, tirando fuori la chiave e infilandola senza sforzo nella toppa, dove girò fino a scattare come se non fosse stata chiusa che il giorno prima, e non cento anni prima.

«Sei pronta ad entrare?» Le chiese, allungando una mano nella sua direzione per invitarla ad avvicinarsi alla porta ormai aperta. Giulia annuì, raggiungendola.

L’interno era però completamente immerso nel buio.

«Grazie al Cielo fumo...» Replicò la donna, tirando fuori da una tasca l’accendino e avvicinandosi ad accendere le candele di un candelabro sistemato su una mensola accanto alla porta. Non appena la stanza iniziò a venire rischiarata dalle deboli luci delle candele, però, un cellulare prese a squillare insistentemente, e dato che Giulia aveva lasciato il suo nella borsa negli spogliatoi, non potè essere che quello di madame.

«Oh... Merde!» Esclamò, aprendolo e leggendo il nome della chiamata. Dopodiché si voltò verso la ragazza, con un’espressione alquanto scocciata in volto. «È monsieur Legrand! Vuole sicuramente che vada in ufficio... Accidenti!»

Giulia scrollò le spalle, senza sapere cosa dire. «Non so, madame... Se volete vi aspetto qui, tanto non ho fretta di fare altro, stasera!»

«Davvero, tesoro?» Mormorò incerta, giocherellando con la chiave. Ma non attese risposta. «Ma si, certo, e poi mi fido di te, quindi... Tieni, ecco la chiave. Io torno subito, non ci vorrà molto.»

Dopodiché quasi scomparve, chiudendo la porta alle sue spalle e lasciando la ragazza da sola.

Con un sospiro, Giulia si avvicinò a posare il candelabro al tavolo da toilette che aveva intravisto in un angolo e, dato che la stanza era priva di finestre, andò ad accendere tutte le altre candele che vi trovò. La chiave rimase abbandonata sul ripiano in marmo di un grande comò.

Quando finalmente la stanza fu ben illuminata, Giulia si accorse che quella non era una stanzetta per i vecchi mobili abbandonati come aveva creduto all’inizio, non appena vi aveva messo piede. Al contrario, aveva l’aria di essere, o perlomeno di essere stato, un prezioso camerino appartenuto forse ad una primadonna, a giudicare dalle dimensioni e dalla qualità dei mobili. Come se non bastasse, un’intera parete era ricoperta da un immenso specchio circondato da una cornice dorata, leggermente macchiata in alcuni punti come così pure il vetro, che era senza dubbio l’oggetto più misterioso e prezioso di tutta la stanza. Possibile che i direttori avessero deciso di tenere chiusa quella stanza? Anche senza la chiave di madame Sindial, se avessero voluto avrebbero potuto togliere la serratura e poi cambiarla, almeno per entrarci a darvi un’occhiata. Giulia era sicura che, una volta restaurato e magari rimodernato un poco, le primedonne e le prime ballerine dell’Opèra avrebbero fatto a gara per aggiudicarselo.

Mentre studiava lo specchio, l’attenzione di Giulia si spostò verso un oggetto riflesso da quest’ultimo, e subito si voltò, decidendo di osservare direttamente l’oggetto in questione e non il suo semplice riflesso. Si trattava di un abito, uno splendido abito bianco, senza alcun dubbio d’epoca, che sembrava essere stato lasciato lì apposta, pronto per essere indossato alla successiva rappresentazione, magari di un Otello, a giudicare dal taglio. La ragazza si avvicinò ad esso, affascinata, sollevando una mano per sfiorarne il tessuto e stupendosi quasi dello strato di polvere che lo ricopriva come un velo.

Prima di rendersi effettivamente conto di quello che stava facendo, tolse l’abito dal manichino in legno, scrollando via la polvere e indossandolo al posto dei suoi attuali vestiti: sembrava essere stato cucito e ricamato apposta per lei. Si portò poi nuovamente di fronte allo specchio, e l’immagine che questo le rimandò la fece per un attimo barcollare.

Aveva l’impressione di essersi già vista con quell’abito indosso, il che era pressoché impossibile dato che lei stessa lo aveva appena visto, e dato che era sempre stato in quella stanza chiusa a chiave... Ma la sensazione di dejà vu che le trasmise il vedersi così le aveva messo i brividi. Si poggiò contro lo specchio, posando la fronte sulla gelida superficie di vetro di quest’ultimo, sperando che il cambio di temperatura l’aiutasse come minimo a diminuire i battiti furiosi del suo cuore, che sembrava volerle uscire dal petto.

All’improvviso però sentì uno strano scatto, come il rumore di una qualche molla che sembrava provenire da dietro lo specchio, e allontanandosi da esso si rese conto che la cornice sembrava essersi spostata dalla parete nella quale, credeva, fosse incassato.

Incuriosita, si affacciò dietro lo specchio, certa di trovare solo la fredda parete del camerino, e stupendosi non poco nel trovarvi invece un passaggio segreto, che sembrava aver giaciuto silenzioso lì dietro, inutilizzato da anni. Facendo leva con tutte le sue forze contro lo specchio, riuscì a spingerlo fino ad aprire ulteriormente l’accesso ad un lungo e interminabile corridoio, che si ritrovò a fissare affascinata.

«Mio Dio...» mormorò. Adesso comprendeva l’eccitazione di madame Sindial! Eppure si domandò se la donna fosse a conoscenza di quel corridoio segreto.

Fece per entrarci ma, prima di fare un solo passo, un barlume di lucidità le consigliò di prendere almeno il candelabro, per non essere completamente al buio. Dopotutto, se davvero era quasi un secolo che nessuno lo utilizzava, chi poteva sapere che cosa avrebbe potuto trovarci! Non era da scartare neppure l’idea di trovarvi dei topi...

Al solo pensiero rabbrividì, disgustata, e quando si pentì di aver imboccato quel corridoio e si voltò, decidendo di tornare indietro, scoprì di essersi già persa.

«Non posso crederci...» Bisbigliò, illuminando a destra e a sinistra del corridoio, cercando di decidere quale era la parte migliore verso cui dirigersi. «Beh, una vale l’altra... Questo posto avrà pure un’uscita, da qualche parte. No?»

Aveva iniziato a parlare ad alta voce per darsi coraggio, ma in realtà il fatto di non ricevere risposta e di udire al contrario l’eco della sua stessa voce finiva per avvilirla ancora di più. Con un sospiro tremante continuò ad andare avanti, con i tacchi delle sue scarpe che rimbombavano sulle pietre del corridoio e le gocce di umidità che scivolavano per terra con lo stesso ritmo di un orologio. L’aria del suo respiro si condensava davanti alla sua bocca non appena espirava, e anche se i numerosi pizzi e merletti del vestito erano abbastanza pesanti, non poteva fare a meno di impedire i brividi di freddo che le saettavano lungo la schiena. Come se non bastasse, il braccio iniziava a dolerle per il peso dello scomodo candelabro d’ottone, e ad un certo punto fu costretta a posarlo per terra, spegnendo due candele e infilandosele in tasca e tenendo la terza in mano per illuminarle il cammino. Dopotutto, nessuno le avrebbe rinfacciato il fatto di aver lasciato un candelabro d’epoca in chissà quale sperduto corridoio, quando fosse riuscita a trovare l’uscita.

Sempre se l’avesse trovata. A quel punto non ne era più tanto sicura.

Dopo aver svoltato l’ennesima galleria, inciampò in uno strano oggetto, che per poco non le fece spegnere la candela: illuminò per terra, e vide che si trattava del candelabro che aveva abbandonato poco prima. Questo le fece perdere la testa, furiosa. Diede un calcio al portacandele e imprecò ad alta voce, tra le lacrime.

«Accidenti!» Gridò, mentre l’oscurità assorbiva la sua voce. «Possibile che nessuno mi senta?! Jean-Louis! Madame Sindial! Aiutatemi!»

Si gettò contro il muro e lo tempestò di pugni come se qualcuno l’avesse potuta sentire dall’altra parte, ma nel farlo la candela ancora accesa le sfuggì di mano e cadde per terra, spegnendosi e rotolando fino ad una pozzanghera. Adesso era letteralmente immersa nel buio, non avrebbe potuto continuare ad andare avanti neanche se l’avesse voluto.

Singhiozzando si lasciò scivolare per terra, raccogliendo attorno a sé l’ampia gonna del vestito e si rannicchiò il più possibile verso il muro, cercando di riscaldarsi. Aveva le mani gelide e spellate a furia di prendere a pugni il muro, e il vestito le si stava lentamente inzuppando a causa dell’acqua che scivolava dal soffitto e che si depositava per terra e tra i suoi capelli. E se anche si fossero accorti della sua scomparsa, sarebbero passate delle ore prima che a qualcuno fosse venuta l’idea di andare a cercarla dentro uno stupido e vecchio passaggio segreto.

Lentamente però, la stanchezza iniziò a prendere il posto delle lacrime, appesantendole le palpebre e trascinandola dolcemente in un sonno profondo, privo di sogni. Non si era accorta della testa che le pulsava, feroce, sotto l’influsso della febbre, e si addormentò così, bagnata e raffreddata. Chi la ritrovò, non molto più tardi, temette che fosse morta, ma avvicinando il proprio orecchio al suo petto si accorse invece del contrario. Così la sollevò tra le braccia, portandola fuori da quell’Inferno.

Le candele rimasero per terra, accanto ad uno strano candelabro nuovo.












   
 
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