Perdita e Sorpresa
Mio
padre è partito per la guerra una settimana fa. Di recente
è stato promosso a
comandante del battaglione d’attacco. Ho visto giovani uomini
partire con lui,
il terrore negli occhi e l’orgoglio nascosto. Ormai ho sedici
anni. Se non
fossi il concubino del Kiyan, quella sarebbe anche la mia sorte.
Non
so se essere contento o sentirmi, per l’ennesima volta nella
mia vita, diverso
da tutti gli altri. Ma qui c’è Adel, che mi
aspetta ogni giorni al di là del
fiume. Lontano da tutto il resto, con le sue labbra sulle mie, riesco a
scordare qualsiasi cosa.
È
lui a consolarmi, quando vedo passare i giorni e i mesi, e a palazzo
giunge la
notizia che la battaglia è stata persa. E mio padre
è morto.
Non
riesco ad essere arrabbiato con il sovrano, per aver ordinato agli
uomini di
andare a combattere. È il suo dovere. E so che, se non fosse
stato per lui,
Adel non sarebbe qui, adesso. Non sarebbe qui ad accarezzarmi i capelli
e a
dirmi che mio padre è morto con onore. Non sarebbe qui ad
asciugarmi le lacrime
con le labbra.
Ma
mia madre ora è sola, e triste, e vuota.
Vedo
in lei ciò che io sono stato, e questo mi distrugge.
Rinuncio sempre più spesso
di attraversare il fiume e recarmi da Adel. Mia madre ha bisogno di me.
So che
non toccherebbe cibo, in mia assenza.
Sono
diviso, lacerato.
Dirigo
tre vite, in contemporanea, e tutte mi sono indispensabili. Ma ora sto
cominciando a pensare che prima o poi una delle tre mi
inghiottirà.
«Kamal...».
Alzo
la testa per guardarlo negli occhi. Ma in un istante comprendo che
ciò che trova
lui nei miei non gli piace affatto. Vedo le sue sopracciglia
aggrottarsi un
poco e avrei voglia di baciarle per far distendere la sua fronte, ma
non lo
faccio.
Non
dice nulla, il mio Adel. Mi guarda, come se fosse in attesa. Ma cosa
sta
aspettando? L’ennesima rassicurazione sul mio maledetto umore?
«Per favore, Adel...» mormoro in tono
vagamente supplichevole, posando ancora la guancia sulla sua pelle
scura e
calda. Sento il suo cuore che batte. E mi sembra quasi che sia quello a
parlarmi al posto suo.
Chiudo
gli occhi, ho solamente voglia di dormire. Sto per scivolare in un
sonno
annoiato, poco dopo, ma lui si sposta e mi toglie il sostegno. Alzo
ancora il
capo, e lo osservo per qualche istante.
«Devi dirmi cosa c’è che non va»
dice, incatenando i miei occhi ai suoi. È serissimo, e la
cosa, invece di
spaventarmi, aumenta la noia e l’apatia che da qualche tempo
hanno messo radici
all’interno del mio essere.
Piego
un braccio sotto la testa. «Non c’è
niente che non va» rispondo, chiudendo ancora gli occhi. Sono
perfettamente consapevole che non mi crederà mai. Ma non
m’importa. Voglio
smettere di pensare, perché ultimamente quel tipo di
attività cerebrale mi fa
bruciare gli occhi e partorisce il groppo in gola che tanto odio.
Lo
sento avvicinarsi. Posa le labbra in quell’incavo appena
accennato, sotto
l’orecchio. «Stai mentendo»
mormora, e avverto il suo respiro sulla pelle. Ma il suo tono mi fa
capire che
la questione sta per passare in secondo piano.
Mi
viene naturale e automatico alzare una mano per accarezzargli i
capelli. Scendo
lungo la nuca e solletico la leggera peluria che gli ricopre il retro
del
collo, in punta di dita. Lo graffio delicatamente. So che gli piace ma,
come
ogni volta, me ne da la conferma afferrandomi un fianco con decisione,
attirando il mio corpo al suo. Mi lascio sfuggire un mugolio
d’approvazione,
circondandogli un fianco con la gamba.
«Sei un demonio» mormora, in un
sorriso, prima di infilarmi la lingua in bocca senza troppe cerimonie.
Lo
conduco ad un ritmo più lento e, mentre gli mordo
delicatamente le labbra e la
sua mano arriva lentamente alla mia schiena per pressarmi contro di
sé,
finalmente il mio cervello smette di funzionare.
«Avete sete, mio
signore?».
Lo
vedo, grazie alla tenue e pallida luce che filtra dalla finestra,
annuire. Mi
sfugge un sorriso sereno, quando i miei occhi scorrono meccanicamente
sul suo
corpo semiscoperto, sdraiato sulla stuoia. Il contrasto fra le coperte
candide
e il suo torace e le sue gambe nude è qualcosa di
così familiare da
intenerirmi.
Mi
cingo i fianchi con un pezzo di stoffa, solamente perché so
che il Kiyan non
vuole che nessuno mi veda nudo. I miei piedi scalzi non fanno quasi
rumore,
posandosi piano sul pavimento del palazzo addormentato.
L’aria
all’esterno è tiepida e fresca allo stesso tempo.
Qualche soffio di vento che
muove le foglie degli alberi nel giardino illuminato dalla luna
è l’unico
rumore che riesco a percepire, mentre giungo rapidamente alla fontana e
attingo
l’acqua.
Solo
qui a palazzo è così pulita. Nei pozzi scavati
nella terra, giù al villaggio,
assume sempre quel colore sporco ma familiare della sabbia persiana.
È
limpida, fredda.
Ma
non quanto quel qualcosa che d’improvviso sento stringermi un
braccio. Il
catino che ho in mano scivola lungo il bordo di pietra della fontana e
cade a
terra, rompendosi. Riesco a malapena a percepire l’acqua che
mi sfiora i piedi
nudi.
Poi
mi volto.
Grazie a Lilandh per la sua recensione! *si inchina* Come hai visto, nemmeno questo capitolo è molto lungo, ma ho pensato fin da subito che Kamal sia più sensazioni e istinti, che parole. ^^ Spero comunque che ti abbia offerto una piacevole, seppur breve, distrazione! ^^
Grazie ai lettori e a chi continua a seguire questa storia che sta giungendo al termine. *si inchina*
Alla prossima! ^^