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Autore: Blackbutterfly1994    20/03/2010    2 recensioni
Storia di un ragazzo abbandonato a se stesso che deve ricominciare a vivere, e non sa come fare. Ma non sa che il destino è dietro l'angolo...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Portami via

Ciao a tutti! Questa è la mia terza storia, e spero che sia di vostro gradimento.

Io ci ho messo il cuore, come faccio con tutto ciò che scrivo, e spero che ciò che ho provato io possa arrivare fino a voi.

Per favore, commentate!

I pareri e le critiche costruttive sono sempre ben accetti!

Bene, adesso vi lascio alla storia, e ringrazio chiunque abbia la pazienza di leggerla.

 

Portami via

 

 

E’ completamente buio, intorno a me. Eppure, nonostante non possano vedere nulla, i miei occhi sono sbarrati. So che, tecnicamente, starei fissando il soffitto che si trova sopra il mio letto, ma la verità è che non distinguo assolutamente niente di niente.

Avverto più o meno distintamente il ticchettio prodotto dalle lancette dell’orologio che si trova in cucina, al piano di sotto. Se non ci fossi così abituato, potrei trovare questo suono quasi inquietante, gettato com’è nel silenzio delle tre di notte.

Secondo i miei calcoli, sono approssimativamente due ore che mi trovo nella stessa identica posizione, senza muovere un muscolo, fissando qualcosa che non vedo, sprofondato sotto un piumone pesante che mi copre fino al naso. Mi risuonano in testa delle parole troppo amare affinché io possa dormire. Mi risuonano nelle orecchie urla troppo acute affinché io possa riposare.

E, puntualmente, qualcosa mi scivola lungo la guancia, una lacrima che si aggiunge alle altre che ho versato, una lacrima a cui mi sono ormai abituato, una lacrima che non per questo è meno dolorosa. Mi giro su un fianco, ignorando la mia schiena che protesta leggermente, forzata a muoversi dopo quella lunga inattività.

Chiudo gli occhi che hanno cominciato a bruciare e che, potrei giurarci, sono di nuovo rossi come il sangue. E questo pensiero, di riflesso, mi fa piangere ancora di più.

- Basta Ema, non piangere più, non mi piacciono i tuoi occhi rossi! –

Così mi dicevi, ti ricordi?, penso, e mordo le lenzuola per non ricominciare a singhiozzare. Mi raggomitolo su me stesso, affondando il viso nel cuscino ormai umido, cercando di controllare i conati di vomito che mi stanno assalendo. Perché non viene mai nessuno a portarmi via? Perché nessuno mi prende la mano e mi trascina lontano, lontano da questa vita, da questo baratro, lontano da questa merda?

Perché…? E con questa domanda, che mi ossessiona da troppo tempo ormai, la mia mente cede d’un tratto, e cado nell’insidia del sonno.

 

Mi sveglio da solo. Una volta ero un dormiglione, nemmeno le cannonate riuscivano a buttarmi giù dal letto, invece, da tre anni a questa parte, ho perso il sonno, non ho alcun bisogno di sveglie. Il mio primo pensiero è: Dio mio, un’altra giornata. Non ce la faccio.

Tuttavia, stancamente nonostante sia primo mattino, mi metto a sedere, calciando via le coperte. Mi vado a lavare la faccia, e noto come diventi ogni giorno più smunto, più sciupato. Nell’apprendere questo, provo un piacere perverso: perché è giusto che sia così. Che cosa posso essere io, da solo? Con quale diritto pretendo di vivere, senza di lui? Delle profonde occhiaie cerchiano i miei occhi azzurrissimi, una volta brillanti di vita, adesso spenti come un diamante impolverato. Le guance sono leggermente incavate, le labbra screpolate. I capelli biondi creano un aureola confusa intorno al mio viso: adesso sono opachi pure loro, ed anche i riccioli fitti e definiti che li compongono sembrano aver perso vita. Quando faccio per vestirmi, osservo come gli indumenti mi cadano tristemente addosso: quanto sono dimagrito? Dieci, quindici chili? Non lo so, l’unica cosa di cui sono consapevole è che continuo tuttora a perdere chili su chili.  Sono un relitto, e sono contento di esserlo. E’ come essere seduti in un angolino della propria mente, e stare attendendo che il corpo porti finalmente a termine il suo processo di autodistruzione: è questo ciò che sto facendo.

Faccio in fretta il letto, mi metto il giubbotto, e, afferrando la cartella, mi avvio alla mia fermata. L’aria gelida taglia la mia pelle già fragile, e più di una volta le mie mani si sono spaccate per il freddo. Non mi piace prendere l’autobus: sento troppi sguardi addosso, mi sento troppo osservato per i miei gusti.

- Non lo guardare, stronzo! Stagli lontano, lui è mio, hai capito?! –

Sento i miei occhi riempirsi di lacrime: perché ogni cosa mi deve ricordare te? Perché continui a tormentarmi anche adesso, anche adesso che sono passati tre anni dall’ultima volta che mi hai guardato, che mi hai parlato, che mi hai sfiorato?  Perché continui a riempire la mia vita in modo così totalizzante?

Improvvisamente sento una mano sulla spalla e sussulto, spaventato. Mi giro, vedo un ragazzo che non riesco a focalizzare bene a causa del velo di lacrime che mi offusca lo sguardo.

- Ehi, stai bene? –

Comincio a tremare: perché mi sta parlando? Era tanto che qualcuno non mi si rivolgeva… è quasi bello, mi fa sentire ancora un poco umano. Annuisco in fretta, spaventato, quindi mi stacco bruscamente e me ne vado, quasi correndo.

Girato l’angolo, mi porto una mano al cuore, respirando affannosamente. Mi sento male, male da morire. E così faccio quello che faccio sempre, quando la presenza di te, dentro me, diventa troppo forte: mi ficco due dita in gola e vomito. Perché tu ti sei incuneato dentro la mia anima, capisci? Perché ti sei incastonato dentro il mio cuore, e ti sento distruggermi dall’interno. Cerco perciò di farti uscire da me, ma per quanto io provi e riprovi, dopo ogni conato, tu rimani dentro di me, e non vuoi saperne di scivolare via, portando con te il dolore che mi provochi.

Mi piego in due e rimetto all’angolo di quella strada in cui ho vissuto per anni, ma che da tre anni a questa parte mi sembra terribilmente estranea. E’ tutto così squallido. La mia vita è squallida. Io sono squallido. Vomito più forte, il mio stomaco fa le capriole. Nell’annebbiamento dovuto al malessere, sento che qualcuno mi sta tirando indietro i capelli, sostenendomi. Mi viene di nuovo da piangere, stavolta nemmeno io so perché. Una volta che i conati sono terminati, mi sento incredibilmente stanco e debole. Senza nemmeno accorgermene, mi appoggio con la schiena al petto di colui che mi sostiene, e, dopo un attimo, svengo.

 

 

Quando mi risveglio, un fastidioso e tristemente familiare bip bip mi giunge alle orecchie. Sono di nuovo finito al pronto soccorso. Un altro calo di zuccheri? Cos’è, questa volta? La diagnosi per me sarebbe: lento suicidio. Perché è questo che sto facendo, me ne rendo conto. E anche se non sono direttamente io a costringere il mio corpo a deperire, so che si tratta tutto di un problema che nasce dalla mia mente. Un problema che non ho nessuna intenzione di risolvere, un problema che ormai è diventato così grande da sfuggire persino al mio controllo. Giro lentamente la testa, e vedo la flebo attaccata al mio braccio. Il suono del mio sospiro riempie l’aria silente intorno a me.

Sento la porta aprirsi, e il dottore di turno si avvicina al mio letto con una cartella in mano.

- Emanuele Righi, diciotto anni, dico bene? – non aspetta la mia risposta, sicuro di essere nella ragione – Non è la prima volta che vieni qui, a quanto pare. Sempre per lo stesso motivo: debolezza dovuta al poco nutrimento – mi guarda penetrante – Quanto sei alto? –

- 1.70 – rispondo stancamente.

- Quanto pesi? –

Evito di rispondere, e l’espressione del medico si fa più cupa – Preferisci che ti faccia pesare a forza? –

- Quarantacinque chili – sussurro.

Vedo l’uomo scuotere la testa – E’ troppo poco. Hai bisogno di metter su chili. Prima di andare a casa passa dalla nutrizionista dell’ospedale. Le dirò di prepararti una dieta adatta –

Non rispondo, evitando di dirgli che lui non è certo il primo che mi dice queste cose. Evitando di dirgli che la dieta che ritirerò oggi sarà la settima a finire dritta nel cestino della spazzatura.

Quando mi dimettono, sono ormai le due passate. Rientro in casa e la trovo vuota come al solito: mia sorella è a scuola, i miei al lavoro. Mi getto sul divano, osservando un punto non ben precisato davanti a me. No, neanche tu saresti contento di vedermi così, lo so. Se mi potessi vedere sono sicuro che mi daresti dello stupido, e poi mi trascineresti in una delle tue danze pazze che ci facevano volteggiare come dei cretini per tutta la casa, ridendo a crepapelle. Ma tu non puoi vedermi, non puoi più.

Eri tutto per me. Lo sei ancora. Il mio amore più grande, la mia umiliazione maggiore, la mia gioia più profonda, la mia disperazione più nera. Sei l’esodo e la conclusione, l’apogeo e il perigeo.

Hai idea della ferita che mi hai inferto quando mi hai lasciato, lasciandomi improvvisamente solo? Hai idea della vergogna di cui mi hai sommerso lasciandomi per una ragazza? Avverto un piccolo dolore alla mano, e mi accorgo che è il mio cane, il quale mi ha dolcemente morso una mano. Lo prendo in braccio, cominciando ad accarezzarlo.

Siamo stati insieme per tutta la vita, io e te, sin da quando eravamo entrambi dei bambini. Siamo cresciuti insieme e, benché tu abbia quasi cinque anni più di me, insieme abbiamo scoperto la vita: insieme abbiamo assaporato per la prima volta il sapore di un bacio, abbiamo appreso la dolcezza dell’amore, abbiamo provato le gioie del sesso. E poi, all’improvviso, mi arriva un sms in cui ti scusi, dicendomi che il tuo cuore, adesso, era di lei. Ti scusi, e mi dici che devi andartene. Ti scusi, e sparisci. Senza di te, sono come un disgustoso albero senza radici, destinato a seccarsi piano piano.

Ma a te non importa più nulla di me.

Un anno fa ho scoperto che ti sei sposato con lei, due mesi fa è nato il tuo primo figlio, che, mi hanno detto, hai chiamato Emanuele, come me.

Perché? Che senso ha, adesso, questo gesto? Non capisci che così mi fai stare peggio, mi impedisci di allontanarmi da te, di tornare a respirare?

Perché, perché non riesco a stare senza di te?

 

Il suono di un campanello mi distoglie dai miei pensieri, mi alzo stancamente per andare ad aprire, rendendomi conto che si tratta del campanello d’ingresso. Quando apro, mi trovo davanti un ragazzo alto almeno uno e novanta, dalla pelle dorata, gli occhi neri come il petrolio e i capelli dello stesso colore. E’ appoggiato allo stipite della porta con fare strafottente, le labbra leggermente piegate in un sorriso che accentua la linea sensuale della bocca, qualche accenno di barba evidenzia i lineamenti decisi e mascolini. E’ completamente vestito di nero, e ha le mani sprofondate nelle tasche. Noto che ha le spalle larghe, e dal giubbotto di pelle che indossa si possono intuire i muscoli definiti, ma non esagerati.

- Sei Emanuele? – la sua voce roca e profonda mi fa sobbalzare.

Annuisco in fretta, senza spiccicare parola. Lui estrae una mano, e la schiude davanti a me. Vedo che, ripiegata nel suo palmo, c’è un biglietto. Guardo il ragazzo perplesso.

- E’ da parte sua – dice quest’ultimo.

Mi sale immediatamente il cuore in gola, perché intuisco di chi stia parlando – E’ di… Lex? –

Il ragazzo annuisce – Mi ha pregato di dartelo, e così l’ho accontentato –

Non riesco a fermare il tremito delle mani mentre prendo quel piccolo pezzo di carta. Mi sembra un miracolo. Lo spiego, e leggo.

 

Per favore, dimenticami.

Lex.

 

E in questo momento mi rendo conto che tutto quello che ho passato fino a quel momento non è niente, sento che il dolore si moltiplicherà nelle notti di solitudine, sento che mi spezzerò definitivamente. Perdo sensibilità alle dita, e il foglio scivola, ondeggiando dolcemente fino a posarsi ai piedi del ragazzo che sta ancora di fronte a me, e che mi guarda con occhi quasi metallici. In realtà, non lo vedo davvero. In realtà, non vedo niente, non riesco a mettere a fuoco niente di ciò che ho intorno.

Poi, qualcosa mi scuote improvvisamente: sento delle labbra che si muovono sulle mie, esperte e sensuali. Sussulto, faccio per staccarmi, ma il ragazzo di cui non conosco nemmeno il nome mi trattiene, spingendomi contro di lui.

- Fai l’amore con me – mi sussurra all’orecchio – Chiudi gli occhi, prova a far finta che io sia lui –

Sento le lacrime bagnarmi di nuovo le guance, severe e dolorose, amare come acido. Ma la disperazione è così grande, il mio lutto è così enorme da elaborare, che scelgo ancora di fuggire, per sentire meno male, così chiudo gli occhi e mi abbandono alle sue carezze. Reclino il capo quando sento i suoi baci sul collo, lasciando che prenda il controllo tanto della situazione quanto del mio corpo. Non ho la forza di condurre i giochi, lo sappiamo entrambi. Lo sento spingermi delicatamente indietro, e mi affido a lui, lasciando che mi conduca. Poi sento qualcosa all’altezza della ginocchia, e capisco che siamo arrivati al divano. Senza aprire gli occhi, mi stendo, aspettando che lui mi raggiunga. Dopo poco, le sue labbra reclamano di nuovo le mie, le succhiano, le leccano, mentre le sue mani sembrano essere dappertutto, sotto i miei vestiti, sembrano tenere in pugno il mio cuore. Le lacrime continuano a scendere mentre mi accarezza, e i gemiti sono accompagnati dai singhiozzi. Sento che mi ha slacciato i pantaloni, sento che mi sta sfilando la biancheria. E mi sento improvvisamente nudo, mi sento improvvisamente impaurito. Tremo, ma subito le sue mani calde mi accarezzano le guance in un gesto infinitamente dolce.

- Non avere paura, non ti farò male – mormora.

E nel momento in cui sento la sua voce, arrochita dal desiderio e dalla tenerezza, non riesco più a pensare di stare facendo l’amore con Lex, e sento il bisogno di aprire gli occhi, di guardarlo. Quando affondo nei suoi occhi mi viene da piangere ancora più forte, ma non abbasso di nuovo le palpebre, continuo a guardarlo. E lui mi sorride appena. Mi prende in mano, e boccheggio: da quant’è che non faccio sesso? L’unico con cui l’ho mai fatto, finora, è stato lui.

- Ahh…  ah… aahh – non riesco a fermare la mia voce, mi sento come trascinato in un’altra dimensione fatta di piacere sbagliato e dolore attutito da mani esperte.

Inarco la schiena, di riflesso allargo le gambe, sembro quasi accoglierlo: e forse è davvero questo ciò che voglio, sentirlo spingersi in me, cancellando le tracce, sul mio corpo, di quell’uomo che per me ha significato la vita stessa, che come mi ha donato la felicità, me l’ha improvvisamente tolta, senza avere nessun riguardo.

Vengo nelle sue mani poco dopo, e il mio respiro è parecchio accelerato. Lui mi guarda negli occhi e sorride di nuovo, questa volta in maniera appena più aperta rispetto a prima. Le sue dita cominciano a massaggiare il mio ano, a massaggiare i muscoli cercando di farli rilassare e sciogliere. Mi agito di nuovo e inevitabilmente mi irrigidisco sotto il suo tocco. Lui lo avverte immediatamente, così si abbassa su di me e fa una cosa dolcissima: lecca via tutte le lacrime che, senza rendermene conto, stanno continuando a scendere, inesorabili. Socchiudo gli occhi, lasciando che il mio corpo si sciolga e non mi irrigidisco nemmeno quando sento entrare le sue dita dentro di me. All’inizio sono solo fastidiose e leggermente dolorose, ma poi diventano messaggere di piaceri dimenticati ma non per questo meno forti, strumenti attraverso il quale far rinascere istinti caduti in disuso ma non per questo cancellati. E attraverso quelle dita e quel corpo caldo premuto contro il mio sento il mio dolore alleviarsi appena, sento il mio cuore prendere un respiro appena accennato, la mia anima smettere di urlare per un momento. D’istinto gli circondo il collo con le mie braccia e lo attiro a me. Sento gli impulsi più peccaminosi e concupiscenti di me riemergere, tornare prepotentemente a guidare il mio corpo. Mi spingo contro di lui, ricominciando a gemere al suo orecchio, in tono basso.

- Dimmi il tuo nome – mormoro.

Mi prende il viso mano mentre sfila le dita e si apre i pantaloni, accingendosi a penetrarmi. Lo guardo direttamente negli occhi.

- Perché voglio urlare il tuo nome durante l’amplesso, e non quello di qualcuno che devo riuscire a relegare nel passato –

Tutto si ferma un attimo. Mi scruta, quasi stesse cercando di capire se sono serio o no, quindi mi bacia a lungo.

- Ludovico – risponde infine.

Sorrido appena. Le mie labbra non sono più abituate a quest’azione, e tirano terribilmente – E’ bello – sussurro.

Si fa largo in me, ed io urlo ed urlo. Urlo di dolore, perché mi sembra di starmi spaccando in due. Urlo di dolore, perché avverto chiaramente l’amarezza di quegli anni passati a morire piano piombarmi addosso tutti d’un colpo, come se la solitudine vissuta fino a quel momento non fosse ancora abbastanza. Urlo di piacere, perché lo sento entrarmi dentro ed occuparmi interamente, perché lo sento occupare tutti i miei vuoti. Urlo di piacere, perché, mentre spinge, mi guarda dritto negli occhi e, benché non sorrida, i suoi occhi hanno l’espressione più dolce che io abbia mai visto. Urlo di piacere, perché la sua essenza calda dentro di me mi fa sentire strano, mi fa sentire uno strano calore alla bocca dello stomaco.

Sospiro di piacere perché sentirlo ricadere su di me, dopo, non è per niente una sensazione spiacevole.

 

 

Sono teso e non vorrei. Ansiosamente, mi ricontrollo allo specchio ancora una volta per controllare che sia tutto a posto. Ho ripreso qualche chilo, e adesso sto bene. Molto magro, si, ma non più malsano. Le guance non sono più incavate, e i miei occhi non sono cerchiati da nessuna ombra violacea. I miei occhi sembrano diventati ancora più azzurri, e splendono di nuovo come una volta. Persino i miei capelli, che adesso arrivano a metà schiena, sono una cascata lucente di riccioli biondi. Sorrido, afferro le chiavi e salgo sulla macchina appena comprata. Ho preso la patente da poco, e i miei genitori mi hanno comprato l’auto come regalo. Cerco di non farmi prendere dall’agitazione, ripensando all’anno appena passato: è difficile spiegare il rapporto che c’è tra me e Ludovico.

Non siamo amici, ma non siamo nemmeno amanti. Lui mi è vicino ogni volta che ne ho bisogno, è lui ad asciugarmi le lacrime ogni volta che, la notte, sto male. Se glielo chiedo, o se mi vede particolarmente in crisi, salta in moto e viene da me anche se sono le quattro di notte. E’ geloso, parecchio, non sopporta che io parli con chiunque che non sia lui, e non è raro che, col proposito di consolarmi, finiamo a fare sesso. Tuttavia mai, neppure per una volta, Ludovico ha rappresentato per me un sostituto di Lex. Se faccio l’amore con lui, è perché con lui voglio farlo. E questo è un giorno speciale, per me. E’ San Valentino, e sto correndo da lui.

Sto correndo da lui perché mi sono accorto che le mie lacrime si sono asciugate, e l’unico a cui devo dire grazie è lui.

Sto correndo da lui perché mi sono accorto che, ogni volta che mi abbracciava stretto, gli donavo un pezzetto del mio cuore.

Sto correndo da lui perché mi sono accorto che lo amo.

Sto correndo da lui e spero che non mi dica che è qualcosa che provo solo io.

Quando arrivo, Ludovico mi apre ancora prima che io arrivi. Arrivo davanti a lui e lo guardo senza dire niente. Ci fissiamo a lungo: l’abbiamo fatto tante volte, ma stavolta c’è qualcosa di diverso, lo percepiamo entrambi.

Dopo qualche minuto lui si apre in uno dei suoi sorrisi che mi aprono il cuore, e mi bacia come non ha mai fatto.

- Anche io – dice soltanto.

 

Tra noi non c’è bisogno di parole: basta uno sguardo per capirci. Ho capito che Ludovico è davvero la persona più importante della mia vita, e non me lo lascerò scappare. Combatterò con i denti e le unghie per tenerlo accanto a me e mi riprenderò quella felicità che io stesso mi ero negato.

Quella felicità che solo lui è stato in grado di ridarmi.

Cercavo qualcuno in grado di portarmi via, invece lui non mi ha sradicato dal mio mondo, ma ha inondato quest’ultimo di sole.

Lui è il mio angelo.

E’ lui, adesso lo so, il mio amore più grande.

   
 
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