L'avventura di Aligi, giovane ragazzo sardo, non molto sveglio, in un Paese davvero strano. Forse...
Guida d'eccezione, un agnellino parlante e alla moda.
[Parodia di Alice nel Paese delle Meraviglie]
Genere: Parodia, Demenziale, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Storia scritta per la Caccia alle Uova di FanWorld.
Prompt: Uovo 11 - Scrivi una storia di quasiasi tipo dove ci sia o un
coniglio parlante o un agnellino parlante.
È una parodia di Alice nel Paese delle Meraviglie, quindi
l'idea di base non è mia. Come non sono miei Johnny Depp e
tutti i personaggi che ha interpretato.
Alice e i gatti, invece, sono di Francesco De Gregori.
Tutto il resto appartiene alla mia fantasia deviata. ^_^
Aligi nel Paese degli Spanti 1
In una bella giornata di sole, Aligi si
stava annoiando.
Aveva accompagnato Zi’Anita in cortile, sperando di riuscire
a farsi raccontare qualche storia di cent’anni prima per
finire la ricerca per il Prof di storia, ma lei aveva iniziato a
sgranare il rosario e lui si stava facendo due palle quadre. Insomma, a
quell’ora avrebbe potuto essere davanti alla Playstation,
invece che a fianco ad una vecchia che recitava litanie senza mai
riprendere fiato.
Proprio quando stava pensano di tirare fuori il cellulare per mandare
qualche messaggino, gli capitò di vedere una cosa strana.
Una cosa strana davvero! Perché, insomma, mica si vedevano
tutti i giorni degli agnellini vestiti Dolce & Gabbana e con un
palmare in mano. Aligi si avvicinò, lasciando la zia
concentrata sui grani della sua catenina di plastica.
“Scusa?” chiese allo strano agnellino.
“Tu sei…?”
“Io sono in ritardo” gli rispose quello, annoiato.
“Se sei in ritardo, perché non ti affretti, invece
di prendertela comoda?”
L’agnellino lo guardò impietosito.
“Non lo sai che arrivare in ritardo va molto di
moda?” poi si girò e si incamminò verso
la campagna, sempre molto tranquillo.
Aligi lo seguì, curioso di capire dove stava andando e,
soprattutto, cos’era quell’agnello.
“Mi stai seguendo?” gli chiese la bestiola,
lanciandogli un’occhiata da sopra una spalla.
“Sono curioso” rispose Aligi, con una scrollata di
spalle. Lui era davvero un ragazzo molto curioso, non poteva resistere
alle cose strane, figurarsi se era strana come quella, poi.
“Guarda che se vuoi venire con me basta dirlo. Nessuno fa
storie se c’è qualche imbucato.”
“Figo! Io mi chiamo Aligi” si presentò,
allungando la mano per stringere… la sua zampetta.
“Io sono Angiò.”
“Che nome è Angiò?” e fece
una risatina divertita.
“Primo” rispose l’agnellino, decisamente
irritato “questa domanda, fatta da uno che si chiama Aligi,
fa ridere i polli. Secondo, è il diminutivo di Angioneddu De
Latte2, Marchese di
Coili Becciu3. Non
azzardarti mai a chiamarmi col mio nome completo” lo
avvisò minaccioso.
Nel frattempo, erano arrivati davanti a un montacarichi, che scendeva
in una profonda fenditura del terreno.
“Che cos’è questo crepaccio?”
chiese Aligi.
“Hai presente il Golgo4?”
“No. È un nuovo reality?”
“Braccia rubate all’agricoltura” e,
scuotendo la testa, Angiò azionò il montacarichi.
“Dove stiamo andando?” chiese ancora Aligi.
“Nel Paese degli Spanti.”
“Oh, capito! Il Paese delle Meraviglie.”
“Cosa?!”
“Come Alice, hai presente?”
“Chi?!”
In quel momento, però, il montacarichi toccò
terra e Aligi si dimenticò di rispondere, troppo impegnato a
guardarsi intorno. Recuperò il pacchetto di sigarette dalla
tasca dei pantaloni e se ne accese una, mentre continuava a osservare
tutto quello che lo circondava. Quella stanza sembrava un museo di roba
antica.
“Il fumo nuoce gravemente alla salute” gli fece
notare Angiò.
“Che palle” rispose Aligi.
Poi si fermarono davanti a un tavolino. Sopra c’erano una
scodellina con della crema e una bottiglia piena d’acqua;
sulla scodella era poggiato un cartellino con la scritta MANGIAMI,
mentre quello poggiato sulla bottiglia diceva BEVIMI.
“Oh, questi servono per ingrossarsi e rimpicciolirsi,
vero?”
“E chi sei, Maradona? Comunque” disse
Angiò, col suo solito tono annoiato “io li
lascerei dove sono.”
Peccato che Aligi avesse già messo in bocca una cucchiaiata
di crema.
“Che cos’è?” chiese ad
Angiò, con la bocca in fiamme.
“Casu marsu” rispose lui, guardandolo come si
guarderebbe un bambino molto stupido.
Aligi osservò meglio la scodellina e quando vide degli
allegri vermicelli5,
che prima non aveva notato, fargli ciao ciao con la manina,
impallidì nauseato.
“Acqua!” urlò, e afferrò la
bottiglietta poggiata lì davanti.
“No!” urlò Angiò.
“Quello è Fil’e Ferru6
a 70°.”
Ma ormai era troppo tardi.
Dopo, successe tutto molto velocemente. Aligi lasciò andare
la bottiglia, che si rovesciò sul tavolo. Troppo preso dal
fuoco che aveva in gola, si era dimenticato di un altro fuoco, quello
della sigaretta, che si era consumata fino a sbruciacchiargli le dita.
Aligi la lasciò cadere con un urletto, senza far caso a dove
finiva. Quella, però, decise che voleva una fine in grande
stile e planò proprio sopra il liquido che stava
già colando dal tavolo, appiccando un incendio di
proporzioni bibliche.
Angiò si batté una zampetta sulla fronte e
afferrò Aligi per un passante dei pantaloni, tirandolo verso
un angolo della stanza. Fecero appena in tempo ad arrivare davanti a un
gommone che iniziò a diluviare.
“Come fa a piovere al chiuso?” chiese Aligi, con la
voce ancora rauca.
“Impianto antincendio” spiegò
Angiò. “Salta su.”
“Perché dobbiamo salire su un gommone?”
Angiò non rispose, troppo occupato ad accendere il motore, e
si limitò a indicargli il pavimento. Aligi
abbassò gli occhi e sobbalzò, affrettandosi a
raggiungere l’agnellino: il livello dell’acqua
stava salendo a vista d’occhio.
“Ma cosa succede?”
“È guasto” si limitò a dire
Angiò, guidando l’imbarcazione oltre una porta
scorrevole.
Aligi sgranò gli occhi, quando si ritrovò in mare
aperto. Il gommone stava costeggiando scogliere a picco
sull’acqua e spiagge dalla sabbia candida. Quando si sporse
in fuori, riuscì a vedere il fondale e i banchi di
pesciolini che lo salutavano con le pinne.
“Figo!” esclamò deliziato, tirando fuori
il cellulare per scattare delle foto.
“Per forza, è il mare più bello del
mondo!” gli fece sapere Angiò, tutto orgoglioso.
A quel punto, però, erano arrivati in vista di un piccolo
molo, dal quale li salutava un uomo vestito da marinaio.
“Quello è Capitan Libeccio?” chiese
Aligi, che quasi saltellava dalla contentezza.
“Chi?! Quello è Cumpari7
Severinu, pescatore a ventola.”
“A ventola?”
“Vedrai” disse Angiò, mentre attraccava.
Appena misero piede sul molo, Cumpari Severinu iniziò a
urlare, facendo fare ad Aligi, che non se lo aspettava, un salto dallo
spavento.
“Pisci friscu! Aria calda! Pisci buddiu!8
Aria fresca!”
Poi si rivolse ad Angiò, abbassando un po’ il
volume.
“Cosa vi do, oggi?”
“Una ventola grande, grazie” rispose
all’uomo che si allontanò in fretta. Poi si
girò verso Aligi, per dargli una spiegazione “Come
pescatore fa schifo, ma la sua pescheria è in un punto
strategico, e lui si sa arrangiare.”
Cumpari Severinu, infatti, era tornato con un condizionatore alto due
metri e un paio di funi, che legò alla vita dei suoi clienti.
“Per non farvi portare via” spiegò ad
Aligi e, prima ancora che il ragazzo potesse fare altre domande, si
allontanò e accese l’enorme ventola con il
telecomando.
I due viaggiatori vennero investiti da un potente getto di aria calda,
forte come la Bora quando le gira male. Dopo cinque minuti i due erano
asciugati e di nuovo con i piedi per terra. Pagarono Cumpari Severinu
con le foto, scattate poco prima da Aligi, di una coppia di muggini
maschi che ci davano dentro alla grande e ripresero il loro cammino.
A un certo punto, Aligi vide delle lampade di carta appese ai rami
degli alberi e, dopo l’ultima curva, si ritrovò
davanti quello che sembrava… un negozio di cinesi.
Angiò lo arpionò, ancora una volta, a uno dei
passanti dei pantaloni e accelerò il passo tirandoselo
dietro, ma non fu abbastanza svelto. Dalla porta del negozio sbucarono
fuori due piccoli… cinesi, come se si fossero appostati per
fare un agguato.
“Buongiolno Signoli” li salutò il
più basso, di circa tre centimetri, dei due.
“Voi avele bisogno di qualcosa? Vestiti? Scalpe?
Bolsoni?”
“Ehm… veramente…”
iniziò Aligi, in seria difficoltà.
“Oh, voi volele folse cintula? O copelta? O folse
stlofinaccio pel cucina? Pinco Pal-Lo” e si batté
una mano sul petto “e Pallo Rin-Co” e
indicò il compagno “tlova tutto quello che voi
volele.”
“Mi scusi” disse Aligi, con la fronte aggrottata,
ignorando i segnali che gli faceva Angiò perché
se ne andassero di lì alla svelta.
“Perché ha pronunciato bene la erre solo quando ha
detto il suo nome?” chiese, indicando Pallo Rin-Co.
“Pelché suo nome essele in cinese e noi essele
cinesi e pallale cinese. Altle palole essele in italiano e noi non
pallale bene italiano.”
Pallo Rin-Co annuì in segno di approvazione, Aligi li
guardò a bocca aperta e Angiò sospirò
affranto.
“Allola” riprese l’omino “voi
cosa celcale? Noi avele tutto!”
“Ecco…” iniziò Aligi
“non è che mi serva qualcosa, però sono
curioso di sapere perché il vostro negozio è qui
in mezzo al bosco, invece che in paese.”
“Oh, questa essele stlana stolia” disse Pinco
Pal-Lo, annuendo con forza.
“Stlana stolia” ripeté Pallo Rin-Co.
“Laccontiamo lui nostla stolia?” chiese Pinco
Pal-Lo al suo compagno.
“Quale stolia?”
“Slana stolia.”
“Ah, quella stolia” disse Pallo Rin-Co, che
iniziò a raccontare. “Stolia di Patelle!”
“Patelle?” chiese Aligi.
“Patelle?” gli fece eco Pinco Pal-Lo.
Angiò si batté una zampetta sugli occhi,
disperato.
“Stolia di Patelle” confermò Pallo
Rin-Co. “Di Patelle e Dottole e Mulatole.”
“Ma non erano le Ostrichette, il Tricheco e il
Carpentiere?” chiese Aligi, perplesso.
“Chi?!” gli risposero in coro i due cinesi.
“Stolia di Patelle e Dottole e Mulatole”
confermò Pallo Rin-Co. “C’ela una volta,
anno scolso, Dottole che voleva fale villetta in liva di male.
Chiamò Mulatole e andalono nella spiaggia. Su scogli
c’elano tante belle Patelle e Dottole e Mulatole volele
mangiale. Allola Dottole si avvicina a Patelle e dice: ‘Belle
Patelle, venile voi mangiale con noi?’. Ma Patelle gualdano
lolo male e più piccola tila fuoli faccina e dice:
‘Noi non essele fesse e col cavolo che ci fale mangiale da
voi!’, poi tila su ditino medio e si attacca di nuovo a
scoglio. Allola Dottole e Mulatole celcale di staccale lolo, ma Patelle
azzeccate a scoglio come pallone ai piedi di Pelè, e Dottole
e Mulatole quel giolno mangiale pastasciutta.”
Alla fine del racconto, sul gruppo scese il silenzio. Fu Pinco Pal-Lo a
interromperlo.
“Che c’entlale questa stolia con nostla
stolia?” chiese.
“Quale stolia?”
“Stlana stolia.”
“Tu lacconta stlana stolia?”
“No, tu laccontato stolia di Patelle.”
“Che c’entlale stolia di Patelle con stlana
stolia?”
Aligi non riuscì a sentire la risposta perché
Angiò aveva approfittato della distrazione dei due cinesi,
tutti impegnati nella loro discussione, e lo aveva trascinato via.
Camminarono in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri, fino a
quando giunsero di fronte a una villa enorme, con tanto di giardino
all’italiana e piscina olimpionica.
“Dove siamo?” chiese Aligi, curioso.
“A casa mia” rispose Angiò.
“Porca miseria!” fece notare Aligi.
“Te l’avevo detto che sono un Marchese”
si difese Angiò, entrando in salotto.
I due, però, furono accolti da un forte odore di fumo, e
l’agnellino si rabbuiò.
“Ma porca… quel cavolo di camino tira di nuovo
male. Bisogna ricontrollarlo.”
“Ora arriva Biagio Lucertola lo Spazzacamino,
vero?” chiese Aligi, che quasi saltellava dalla contentezza.
“Chi?! No, mi basterà farlo fare a
Nikita.”
“Chi è Nikita?”
“Nikita Badescu, la badante rumena.”
Come se il solo nominarla l’avesse evocata, Nikita Badescu
entrò in salotto. Era una giovane donna non molto alta, con
capelli neri, lunghi e lucenti, due labbra che sembravano un canotto e
una quinta di reggiseno, almeno almeno. Indossava un vestitino nero che
le arrivava appena sotto l’ombelico e un grembiulino bianco
che copriva a malapena l’isola del tesoro. Aligi
restò a guardarla imbambolato, a bocca aperta e bandiera a
mezz’asta. Angiò gli pestò un piede.
“Signorino chiamato? Signorino vuole mangiare? Io porto
merenda per Signorino e amico di Signorino, così Signorino
cresce forte. E in fretta!”
“Guarda che te l’ho già detto: posso
anche diventare un marcantonio, ma resto sempre minorenne” le
fece notare Angiò. “Non ti potrei sposare nemmeno
se lo volessi e, per inciso, non voglio. Avresti fatto meglio a
cercarti un vecchio babbione. Piuttosto, controlla il camino, che ha
smesso di nuovo di tirare.”
Nikita si avvicinò ad Aligi, con gli occhi lucidi e il
labbro inferiore che sporgeva in fuori di almeno mezzo metro.
“Signorino cattivo, vero? Amico di Signorino dice lui di non
essere così cattivo con Nikita, vero?”
Aligi continuò a guardarla imbambolato, a bocca aperta e
lancia in resta. Angiò gli diede un calcio sullo stinco che
quasi gli spezzò la gamba.
“Perché l’hai fatto?” gli
chiese Aligi, che stava per mettersi a piangere per il dolore.
“Stavi crescendo troppo. Guarda che da questa altezza certe
cose non passano inosservate” e gli fece notare che i suoi
occhi erano allo stesso livello della patta dei suoi pantaloni.
Aligi arrossì, ma continuò a guardare la badante
con due occhi da pesce lesso.
“Va bene, ho capito. Andiamo!” sbottò
Angiò e, arpionandolo al solito passante dei pantaloni, lo
trascinò fuori di casa, ignorando tutte le sue proteste.
Camminarono in silenzio, offesi l’uno con l’altro,
fino a quando arrivarono in uno strano giardino.
“Cosa sono… quelli?” chiese Aligi
allibito, indicando delle cose verdi che, a prima vista, sembravano
cardi e cicorie troppo cresciuti.
Angiò si batté una zampetta sugli occhi, a quella
vista.
“Lascia perdere, andiamo.”
“Ma quello è uno stereo? E quello è
fumo? Ma sta bruciando qualcosa?” insistette Aligi.
“Andiamo, poi ti spiego.”
Ancora una volta, però, l’agnellino non fu
abbastanza svelto a fuggire.
“Cosa vi porta qui, fratelli?” chiese il Cardo
più vicino a loro, ondeggiando pericolosamente a tempo di
musica.
“Abbiamo sbagliato strada” si affrettò a
dire Angiò. “Ora andiamo via.”
“Non c’è bisogno di avere fretta. Prendi
la vita come viene, fratellino, e vivi felice” disse una
Cicoria, muovendo la testa in cerchi lenti.
“Giusto!” le diede man forte un altro Cardo.
“No woman no cry, fratello.”
“Cosa c’entra Bob Marley adesso?” chiese
Aligi perplesso.
“E che ne so, io. Lo sta cantando lo stereo” gli
rispose il Cardo con un sorrisone ebete.
“Ma si può sapere dove siamo capitati?”
chiese Aligi all’agnellino, senza perdere di vista quei cosi
verdi, per evitare che facessero scherzi.
“È l’orto sperimentale e quelli sono i
Cardi e le Cicorie Transgenici. Di norma sono personcine serie e anche
piuttosto intelligenti, la loro sfortuna è che qui a fianco
c’è il giardino del Califfo.”
“Il giardino di chi?” chiese Aligi, che a dire il
vero non aveva capito molto di quella spiegazione.
“Titino Pani, detto il Califfo” gli rispose
Angiò.
“Perché il Califfo?”
“Perché fuma come un turco.”
“Oh, capito, ma perché è un problema?
Voglio dire, non è possibile che tutto quel fumo sia delle
sue sigarette.”
“Primo, non ho mai detto che fuma sigarette. Secondo, il
Califfo, ogni tanto, brucia le sterpaglie.”
Aligi rimase in silenzio per una manciata di secondi, annuendo come se
la situazione, a quel punto, fosse chiara.
“Ma lo sai che non ho capito?” disse, infine, ad
Angiò. “Voglio dire, come è possibile
che il fumo di qualche sterpaglia bruciata faccia questo effetto?
Sembrano fatti!” esclamò, indicando i Cardi e le
Cicorie Tras… Trang… Tres… troppo
cresciuti!
“Sono fatti, tonto! Nel suo giardino il
Califfo coltiva marijuana, e questo è il
risultato” disse Angiò, ormai esasperato.
All’improvviso, arrivò una jeep della Guardia
Forestale. I due uomini che ne scesero si diressero verso il giardino
del Califfo e lo costrinsero a spegnere il fuoco, perché non
era ancora stagione per bruciare le sterpaglie, subissati dai fischi e
dalle lamentele vivaci di Cardi e Cicorie.
A quel punto, però Angiò ne aveva avuto
abbastanza e trascinò via Aligi. I due camminarono per un
po’, ciascuno perso ancora una volta nei propri pensieri, e
giunsero in una grande piazzola attrezzata per il pic-nic. Intorno a un
barbecue enorme si affaccendavano due uomini corpulenti e amanti del
vino, a giudicare da quanti bicchieri si riempivano e si scolavano.
“Quelli non sembrano il Cappellaio Matto e la Lepre
Marzolina” fece notare Aligi, piuttosto deluso.
“Chi?!” chiese Angiò.
“Chi?!” chiesero i due, che si erano avvicinati a
loro e avevano sentito le parole di Aligi.
“Io sono Giuanniccu Pirasa, Allevatore Porcino,” si
presentò il più anziano e in carne dei due
“e lui è Antoni Ibba.”
“Coetanei 19609”
aggiunse l’altro, con un gran sorriso.
“Ma i funghi non si allevano, si coltivano, e senza
offesa,” fece notare Aligi, rivolgendosi al signor Pirasa
“mi sembra che lei abbia un po’ più di
cinquant’anni.”
“Io sono del ‘44” rispose lui.
“E cosa c’entrano i funghi? Io allevo
porci!”
“Ma… ma… lei ha detto
porcino… e lui ha detto coetanei” cercò
di difendersi Aligi.
“Io sono il Coetaneo 1960. L’unico, tra
l’altro, quindi mi tocca occuparmi di tutte le feste da solo.
È brutto essere soli” spiegò il signor
Ibba, con le lacrime agli occhi.
L’Allevatore Porcino gli batté una mano sulla
spalla, solidale. Aligi lo guardò comprensivo, intristito
per la sua solitudine. Angiò scosse la testa, decisamente
seccato.
“E cosa state facendo, qui?” chiese ancora Aligi,
nel tentativo di stemperare l’atmosfera.
“La Sagra del Porchetto!” rispose
l’Allevatore Porcino, tutto orgoglioso.
“Volete un piatto?” chiese il Coetaneo 1960, di
nuovo felice e contento.
“Ehm… ecco…”
tergiversò Aligi.
“Io sono vegetariano” fece sapere Angiò,
beccandosi un’occhiataccia da parte dell’Allevatore
Porcino.
“Allora un bicchiere di buon Cannonau, eh?” propose
ancora il Coetaneo 1960, speranzoso.
“Siamo minorenni” rispose ancora Angiò
“e, tra l’altro, andiamo di fretta. Alla
prossima” e, afferrato Aligi sempre allo stesso passante,
iniziò ad allontanarsi.
Alle loro spalle, i due sentirono l’Allevatore Porcino e il
Coetaneo 1960 iniziare a litigare per stabilire di chi fosse la colpa
della loro fuga e del conseguente fallimento della Sagra del Porchetto,
ma Aligi e Angiò li ignorarono, almeno fino al momento in
cui giunsero alle loro orecchie degli strani rumori metallici. A quel
punto la curiosità ebbe la meglio e si girarono, giusto in
tempo per vedere i due, che stavano duellando a colpi di spiedo e
insulti ai rispettivi antenati e discendenti, voltarsi verso di loro,
all’improvviso e contemporaneamente, con delle espressioni
truci in faccia. Aligi e Angiò si guardarono per un istante
e, senza bisogno di dirsi nulla, iniziarono a correre più
veloce che potevano.
Corsero e corsero e corsero. E poi corsero ancora, perché
nessuno dei due voleva rischiare di essere infilzato con uno spiedo,
come un porchetto qualsiasi. Si fermarono solo quando si ritrovarono
nel bel mezzo di un querceto secolare.
Il tempo di riprendere fiato e Angiò iniziò a
guardarsi intorno, come se stesse cercando qualcosa. Dopo qualche
secondo, evidentemente, lo trovò, perché si
girò verso Aligi con un’espressione soddisfatta.
“Senti,” gli disse “ero passato da casa
per fare una commissione, ma tra una cosa e
un’altra non ci sono riuscito, quindi ne approfitto ora. Tu
puoi aspettarmi qui, se non devi appartarti.”
“Scusa,” lo fermò Aligi “ma
che commissione puoi fare in un bosco? E con chi mi dovrei appartare,
io?”
Angiò fece un respiro profondo, per cercare di mantenere la
calma.
“Mi riferivo all’espletamento di impellenti
necessità fisiologiche” gli spiegò.
“Eh?” fu la risposta di Aligi.
“Devo pisciare, tonto!” sbottò
Angiò “Tu fai quello che vuoi, con chi vuoi, ma
non muoverti di qui” e si allontanò, borbottando
qualcosa che assomigliava molto a un “Braccia rubate
all’agricoltura”.
Aligi si ritrovò solo soletto in quella piccola radura,
senza necessità impr… impl…
filol… senza dover pisciare! Solo che si annoiava, senza la
compagnia di Angiò. Si sedette sulla radice sporgente di una
quercia, indeciso se tirare fuori il cellulare per mandare qualche
messaggino o accendersi una sigaretta, quando vide qualcosa che lo
esaltò.
“Lo Stregatto!” urlò, saltando di nuovo
in piedi e indicando con un dito una cosa tonda a strisce, ferma sul
ramo di un albero.
“Chi?!” chiese un volpacchiotto, vestito Gas dalla
testa ai piedi, che fece capolino da dietro il tronco di una quercia.
Aligi guarda il volpacchiotto e il volpacchiotto guarda nel sole,
mentre il mondo sta girando senza fretta…10
Ops, quella è un’altra storia.
Riproviamo…
Aligi guardò il volpacchiotto e il volpacchiotto
guardò Aligi.
“Quello…” cominciò il
ragazzo, col dito sempre puntato verso la cosa tonda a strisce.
“Quello è il mio pallone, lo stavo cercando da un
po’” gli rispose il volpacchiotto.
Aligi si afflosciò deluso e si sedette di nuovo sulla radice
sporgente.
“Io sono Aligi” si presentò, mogio
“e tu?”
“Io sono Ned.”
“Che razza di nome è Ned?”
“Che razza di nome è Aligi?” gli rispose
la volpetta, offesa. “Comunque, Ned è
l’abbreviazione di Margianeddu, Margianeddu Mazzone11,
PR Comunale.”
“I comuni non hanno un PR” gli fece notare Aligi.
“Il Comune del Paese degli Spanti c’e
l’ha!” disse Ned, battendosi una zampetta sul
petto. Poi si avvicinò ad Aligi, con uno sguardo
calcolatore. “E a questo proposito, che cosa ci fa un bel
ragazzo come te tutto triste e solitario in questo ospizio per querce
arteriosclerotiche? Dovresti essere a divertirti! Dovresti essere ad
assistere ai Grandi Eventi offerti giornalmente dal Comune del Paese
degli Spanti! Mica si chiama così per sport, sai?”
Aligi fu costretto a socchiudere gli occhi, per evitare di essere
accecato dal riflesso abbagliante dei denti di Ned che, in quel
momento, più che una volpe sembrava una iena.
“Sto aspettando un amico” spiegò Aligi.
“Ma dove dovrei andare per assistere a questi grandi
eventi?”
“Grandi Eventi” lo corresse Ned “e non
c’è problema, ti ci porto io, e ci porto anche il
tuo amico, con la mia Ape Cross ecologica a olio di semi.”
“Giri ancora su quel catorcio?” giunse inaspettata,
e irritata, la voce di Angiò.
All’improvviso, l’atmosfera nella piccola radura si
raggelò.
“Angioneddu” salutò Ned.
“Margianeddu” ricambiò Angiò.
Dopo queste sentite formalità, sui tre cadde il silenzio. Il
problema era che non sembrava volersi rialzare, quel silenzio. Ned e
Angiò si guardavano assorti, ma nessuno dei due spiccicava
parola e Aligi iniziò a sentirsi a disagio. Detestava non
capire le cose ed era chiaro anche a lui che lì
c’era qualcosa da capire grande come il San Siro.
“Ehm… grandi eventi…” disse,
per cercare di distogliere quei due l’uno
dall’altro.
“Grandi Eventi” lo corresse ancora Ned, anche se, a
dire il vero, ad Aligi sembrò che avesse aperto la bocca in
automatico, senza nemmeno capire quello che stava dicendo. Poi,
però, Ned parve riprendersi, tutto d’un colpo.
“I Grandi Eventi, giusto! Se…
Angioneddu… è d’accordo”
disse fin troppo gentile “vi ci porto con l’Ape
Cross.”
“Chiamami ancora così e ti castro” gli
ringhiò contro Angiò.
“Dov’è quel botto12?”
chiese più calmo, con l’aria di un re che fa una
concessione al più misero dei suoi sudditi.
Aligi vide chiaramente che Ned si mordeva la lingua per non rispondere
e, quando fece loro cenno di seguirlo, gli andò dietro senza
dire nulla, troppo concentrato a fare ipotesi su quale potesse essere
il motivo della lite tra i due. Perché, ed era una cosa che
lo rendeva molto fiero di se stesso, Aligi aveva capito che, in
passato, Ned e Angiò dovevano aver litigato.
L’Ape Cross di Ned era molto diversa da quelle che Aligi
aveva visto fino a quel momento. Nel cassone, al posto di legna e
attrezzi, c’erano un comodo divano a due posti di pelle rossa
e un frigobar, nemmeno troppo piccolo, nero metallizzato. Ned li fece
accomodare, poggiando una mano sulla schiena di Angiò per
aiutarlo a salire, e dopo essersi assicurato che la ribalta fosse
chiusa bene partì sgommando.
Durante il viaggio, che a dire il vero fu piuttosto breve, Aligi fu
talmente impegnato a esplorare il frigobar da non avere il tempo di
chiacchierare con Angiò, tanto impegnato che un
po’ si dispiacque quando Ned fermò l’Ape
Cross in un parcheggio già pieno di veicoli,
perché gli mancava ancora da scoprire cosa contenessero le
ultime due o tre bottigliette. Ned scese di corsa e, col suo sorriso
più abbagliate, apri la ribalta per farli scendere, mettendo
una mano sulla vita di Angiò per aiutarlo, e Aligi si
chiese, un po’ seccato, perché Ned aiutasse sempre
e solo lui. L’agnellino lo guardò a lungo, senza
dire nulla, e Aligi capì di nuovo, sempre più
fiero di se stesso, che era successo qualcosa, ancora una volta.
Peccato che lui non avesse proprio capito cosa.
La sua attenzione, però, fu attratta da tre ragazzi, che
sembravano poco più grandi di lui, tutti intenti a lucidare
degli aspirapolvere, facendogli dimenticare in fretta tutto quello che
riguardava lo strano comportamento dell’agnellino e del
volpacchiotto.
“Cosa fanno?” chiese, indicando ad Angiò
i tre ragazzi.
“I furbi” rispose lui, che lanciò loro
solo una breve occhiata, troppo concentrato a guardare Ned che si
allontanava facendogli ciao ciao con la zampetta.
Senza dar tempo ad Aligi di fare altre domande, Angiò lo
arpionò al solito passante, che a quel punto ne aveva le
scatole piene di essere strattonato in continuazione, e lo
guidò per le vie del Paese. Appena giunsero in piazza, Aligi
vide che il suo amico aveva iniziato a guardarsi intorno, come alla
ricerca di qualcosa.
“Ti scappa di nuovo?” gli chiese, iniziando a
pensare che l’agnellino soffrisse di incontinenza.
“Cos…? No!” gli rispose lui, indignato
“Non sono mica un bambino!”
“Certo che no!” confermò una vocina
stridula e potente, accompagnata dal suono di alcune launeddas13
“È già ora che ti sistemi,
Angiò.”
La proprietaria di quella voce fastidiosa era una donna vestita a
festa, con un seno a balcone che faceva quasi scoppiare la camiciola
bianca e un fondoschiena immenso coperto da una fardetta14
del diametro di due metri. Aligi la vide piombare su Angiò,
allungare le mani verso la sua faccia e dargli due pizzicotti
stritolaguance, per salutarlo.
“Cattivo, ché ti sei fatto aspettare
così tanto. Stavamo pensando di dover iniziare senza di
te” e, sempre con le guance dell’agnellino strette
in quelle morse che erano le sue dita, si girò a guardare
Aligi. “Ma chi è questo bel ragazzo, eh? Hai amici
così bellini e non me li presenti? Cattivo!”
Angiò riuscì a staccare le dita dalla sua faccia
e iniziò a fare le presentazioni.
“Lui è Aligi” disse, senza aggiungere
altro, e Aligi ci restò un po’ male per il fatto
che non lo avesse presentato come un suo amico.
“Lei è Sci’Elisa” disse
presentandogli la donna “e lui è suo marito, il
Sindaco” aggiunse indicando l’ometto al suo fianco,
vestito di velluto nero e con la berritta15
in testa, che Aligi non aveva notato fino a quel momento.
La donna non gli diede nemmeno il tempo di aprire bocca per salutare e
si attaccò alle sue guance come prima aveva fatto con quelle
di Angiò.
“Ma che bellino che sei! Hai anche un bel nome” gli
disse tutta contenta.
Angiò fece una smorfia scettica e il Sindacò
sollevò gli occhi al cielo.
Quando lo lasciò andare, Aligi aveva le lacrime agli occhi
per il dolore, ma lei non gli diede nemmeno il tempo di massaggiarsi le
guance arrossate. Lo prese a braccetto e si rivolse al marito e ad
Angiò, con il cipiglio di un generale
dell’esercito con le emorroidi.
“È ora di iniziare! Muovetevi e chiamate i
concorrenti” poi si girò, allegra e sorridente,
verso Aligi. “È la prima volta che assisti, vero?
Vedrai che ti divertirai” gli assicurò,
battendogli una mano sul braccio con un po’ troppa forza.
“Mi scusi, ma che cosa succede ora?” chiese Aligi,
sfidando la buona sorte per soddisfare la sua curiosità.
“Oh, ma non ti hanno detto niente?” gli chiese
affranta, mentre gli stringeva in una morsa il braccio già
martoriato. “Oggi c’è il Palio! A dire
il vero, c’è il Palio tutti i giorni, ma
è sempre divertente” gli confidò,
battendogli ancora dei poderosi colpetti sul braccio.
“Oh” disse Aligi, troppo impegnato a cercare di
sfilare il suo arto maltrattato dalle grinfie di quel lottatore di sumo
travestito da donnina, per pensare a qualcosa di più
intelligente da dire. Solo quando riuscì a riprendersi il
suo braccio si guardò intorno e ricominciò a far
domande.
“Mi scusi, dove sono le rose rosse? E i
fenicotteri” e indicò i volatili seduti sulle
gradinate, che sembravano divertirsi in compagnia di un gregge di
mufloni “non dovrebbero essere le mazze per le partite di
cricket?”
“Io sono allergica alle rose” gli spiegò
Sci’Elisa “e non era cricket, era golf.
Ché non siamo mica damerini inglesi, noi.”
“Oh, allora giocavate a golf con i fenicotteri. Sembra
divertente” disse Aligi, con un sorriso incoraggiante.
“È divertente!” rispose secca
Sci’Elisa.
“E perché avete smesso?” si
informò Aligi, interessato, senza far caso al tono di voce
della donna.
“Tutta colpa di quei rompiscatole di animalisti”
sbottò Sci’Elisa. “Con la scusa che i
fenicotteri sono specie protetta ci hanno costretto a smettere e a
cercare un altro sport nazionale.”
“Oh, capisco. È per questo che avete scelto
l’equitazione.”
“Macché,” rispose lei sempre
più seccata “ti pare che quelli
se ne stavano buoni a guardare, se usavamo dei cavalli? Figurati! Non
gli andavano bene nemmeno la Discesa Libera con Muflone, il Tiro al
Falchetto in Movimento, il Volteggio su Cavallino della Giara con
Serrature e il Sollevamento del Cinghiale16.
Eravamo arrivati a pensare alla Caccia alla Volpe, con la scusa che era
per tenerne sotto controllo il numero, visto che ultimamente stavano
figliando troppo, ma poi qualcuno ha suggerito il Palio e io ho pensato
che fosse proprio una bella idea” concluse, evidentemente
orgogliosa della sua decisione.
“E chi ha suggerito l’idea del Palio?”
chiese ancora Aligi.
“Il nostro PR. È un ragazzo che sa fare il suo
lavoro, quello” rispose Sci’Elisa, convinta.
Aligi aveva la sensazione che a Ned non piacesse molto l’idea
della Caccia alla Volpe, per ovvi motivi, ma evitò di dirlo
alla donna.
“Ma se non usate i cavalli, che Palio è il
vostro?” chiese invece.
“È quella l’idea geniale”
strillò Sci’Elisa, evidentemente impaziente di far
sapere quanto fosse furba la loro trovata. “È un
Palio a Quadd’e Perr’e Canna!17”
“Un… cosa?” chiese Aligi perplesso.
“Un Palio a Quadd’e Perr’e
Canna” ripeté lei. “Non sai
cos’è?” chiese, delusa, e al segno di
diniego di Aligi cominciò a spiegare. “Visto che
non possiamo usare animali, usiamo le canne. In pratica, i fantini
cavalcano le canne, capito?”
“Ma certo, ora ho capito!” rispose Aligi.
Poi, però, vide i fantini avvicinarsi
alla linea di partenza, compresi i ragazzi che poco prima stavano
lucidando gli aspirapolvere, e si girò di nuovo verso
Sci’Elisa.
“Però non hanno delle canne” le fece
notare.
“C’è stata l’evoluzione dei
materiali” gli spiegò lei, come se fosse una cosa
ovvia.
“Oh, adesso è chiaro. Ecco perché
quelli hanno degli aspirapolvere…”
“Cosa? Dove?” urlò Sci’Elisa,
interrompendolo, per poi partire come una furia verso i tre ragazzi che
Aligi gli aveva indicato.
Le sue grida, probabilmente, si sentirono anche a chilometri di
distanza, insieme ai fischi degli spettatori. Aligi non aveva capito
granché di quello che stava strillando, a dire il vero, a
parte che se l’era presa per qualcosa che aveva a che fare
con il doping delle cavalcature, anche se lui, di cavalli, non ne aveva
visto nemmeno l’ombra. Quando la situazione si fu calmata, e
i tre con gli aspirapolvere vennero allontanati dalla piazza, salutati
dallo sventolio di fazzoletti di alcune ragazzine e dagli insulti degli
altri concorrenti, Sci’Elisa tornò da lui, di
nuovo sorridente, e Aligi vide Angiò dare finalmente il via
al Palio. I fantini si misero i loro bastoni tra
le gambe e partirono saltellando per fare il giro della piazza,
incitati dal tifo delle persone e degli animali seduti sugli spalti.
Aligi, per essere sinceri, non capiva cosa ci fosse di così
divertente, ma pensò, in un raro lampo di furbizia, che
fosse meglio non dire nulla.
Angiò e il Sindaco, espletate le loro funzioni –
istituzionali! Che avevate capito? – tornarono da loro, ma
Sci’Elisa li ignorò allegramente.
“Non so davvero come ringraziarti. Se non fosse stato per te,
quei disgraziati sarebbero riusciti a farcela sotto il naso.”
“Ma non ho fatto nulla” si schermì
Aligi, che non riusciva davvero a capire il perché di tutte
quelle moine.
“Ah, ma un ragazzo bellino e onesto come te sarà
l’orgoglio dei suoi genitori” continuò
lei, ignorando le sue parole. “E dimmi, e dimmi, che lavoro
fa tuo padre?”
Angiò iniziò a scuotere la testa, il Sindaco
sollevò gli occhi al cielo e Aligi non riuscì a
capire, di nuovo, cosa stava succedendo.
“Mio padre ha un’impresa edile” rispose
comunque, educato.
“Ooohhh, un costruttore!” strillò
Sci’Elisa, al settimo cielo. “E dimmi, e dimmi, ce
l’hai la fidanzata, eh? Ce l’hai?”
“Ehm… veramente no…” rispose
Aligi, imbarazzato, senza capire – e chi l’avrebbe
mai detto? – perché volesse saperlo.
“Ma come?” urlò ancora
Sci’Elisa, oltraggiata. “Un così buon
partito come te! No no, dobbiamo rimediare. Ora ci penso io!”
e partì in quarta verso un gruppo di donne di diverse
età.
Aligi vide che in molti si giravano a guardarlo, qualcuno molto
interessato, qualcuno solo curioso e qualcun altro decisamente
irritato. Visto che non aveva ovviamente idea di quello che stava
succedendo, si girò verso Angiò,
perché gli desse qualche spiegazione, e solo allora
notò che Ned si era di nuovo avvicinato a loro e stava
guardando concentrato il fondoschiena dell’agnellino.
“Non te l’avevano detto?” gli chiese il
volpacchiotto, senza sollevare lo sguardo.
“Detto cosa?” gli rispose Aligi che, a quel punto,
era sinceramente stanco di non capire mai nulla di quello che gli
succedeva intorno.
“Sci’Elisa è la Paraninfa Ufficiale del
Paese degli Spanti” annunciò Ned, col suo sorriso
più brillante.
“Para… che?” chiese Aligi, con la mano
davanti agli occhi per ripararsi da quella luce abbagliante.
Il Sindaco sollevò gli occhi al cielo, Ned
allargò ancora di più il suo sorriso e
Angiò sbuffò.
“Paraninfa, significa che è una persona che
organizza matrimoni” gli spiegò
l’agnellino “e quegli imbecilli a cavallo dei
bastoni sono gli scapoli del Paese, che si prestano a questa idiozia
solo perché sperano che lei gli trovi moglie.”
Aligi si prese il suo tempo per cercare di capire le parole di
Angiò. Gli ci vollero almeno dieci minuti di doloroso sforzo
intellettuale, che lasciò i suoi poveri neuroni
più morti che vivi, ma alla fine gli sembrò di
essere riuscito ad afferrare il concetto. Gli servivano solo alcuni
piccoli chiarimenti.
“Ma allora, mi ha chiesto se avevo una ragazza
perché…”
“Perché voleva sapere se poteva fare la mezzana
senza problemi” concluse per lui Angiò.
“E quelle donne mi guardano come se fossi un gelato al
cioccolato perché…”
“Perché sono tutte madri che cercano di accasare
le figlie e figlie che cercano un pollo da sposare” gli
confermò il Sindaco.
“E quegli uomini mi fanno tutti quei gesti poco carini
perché…”
“Perché loro sono costretti a fare i cretini, per
trovarsi una moglie, mentre tu che sei l’ultimo arrivato ne
recuperi subito una. Non credo che siano molto contenti di questa
cosa” gli fece sapere Ned.
“Oh” disse Aligi.
Si fermò a pensare ancora qualche minuto, chiedendo
l’ultimo sforzo ai suoi neuroni moribondi.
“Ma cerca di organizzare matrimoni per tutti?” fu
il massimo che riuscì a tirar fuori.
“Basta che respirino” assicurò Ned.
“Ci ha provato anche con te?” chiese Aligi ad
Angiò.
“No, con me no.”
“Ma anche tu respiri” gli fece notare Aligi.
“Ma lui è un agnellino gaio” gli
spiegò Ned, stranamente soddisfatto.
“Perché, se fosse stato infelice, invece, gli
avrebbe già trovato una fidanzata?” chiese ancora
Aligi, sempre più confuso.
“No, Aligi, no” gli spiegò
Angiò, con una buona dose di pazienza. “Gaio nel
senso di gay. Mi piacciono i maschi, quindi non può cercarmi
nessuna fidanzata. Al massimo, dovrebbe cercarmi un fidanzato, ma
quello non è il suo campo.”
“Ma dai?” esclamò Aligi, decisamente
stupito. “Ma tu non ci hai mai provato con me!”
“Non sono così disperato” gli rispose
l’agnellino con una smorfia schifata.
“E vorrei vedere!” disse in contemporanea Ned,
passando un braccio intorno alla vita di Angiò, possessivo,
e quasi ringhiando contro Aligi.
“Ehm, non per voler interrompere le vostre interessanti
discussioni,” si intromise il Sindaco, tra un colpo di tosse
allusivo e l’altro “ ma qui mi sa che la situazione
sta precipitando.”
In effetti, Aligi scoprì che molte persone si stavano
avvicinando a loro. Sci’Elisa era alla testa di un gruppo di
giovani donne e mature madri di famiglia che lo guardavano con occhi
sognanti e calcolatori, gli scapoli avevano interrotto il Palio e
andavano verso di lui brandendo i bastoni con delle espressioni poco
rassicuranti, c’erano persino l’Allevatore Porcino
e il Coetaneo 1960 che impugnavano ancora i loro spiedi, Pinco Pal-Lo e
Pallo Rin-Co che continuavano a parlare senza quasi prendere fiato e i
tre esclusi che roteavano torvi i tubi dei loro aspirapolvere. Il tutto
accompagnato dall’incoraggiamento, il tifo e le scommesse
degli spettatori.
Aligi iniziò ad avere un po’ di paura.
“Corri” gli consigliò Angiò,
che aveva messo le braccia intorno al collo del suo ex-non-più-ex volpacchiotto.
“Da quella parte” gli suggerì Ned,
indicandogli una stradina alle sue spalle con una zampetta, mentre con
l’altra accarezzava il fondoschiena del suo-e-soltanto-suo-alla-faccia-di-tutti-quelli-che-ci-provavano agnellino.
“Adiosu18”
lo salutò il sindaco, sventolando la berritta e osservando
con interesse i due animaletti che avevano iniziato a sfranellare19.
Aligi non si preoccupò nemmeno di ringraziare, anche
perché nessuno se ne sarebbe accorto visto che erano tutti
troppo presi da attività decisamente più
soddisfacenti. Si limitò a girare sui tacchi e
iniziò a correre.
Corse e corse e corse, addentrandosi sempre di più
all’interno del Paese, con la quasi totalità degli
abitanti che gli andava dietro e quei bastardi di fenicotteri che lo
seguivano dall’alto per assicurarsi che non potesse
nascondersi e scappare, perché quello spettacolo era molto
più divertente di quella scemenza di Palio.
Dopo quelli che gli sembrarono chilometri, Aligi si ritrovò
davanti alla stessa porta scorrevole che aveva attraversato in gommone
con Angiò. Senza nemmeno chiedersi come avesse fatto ad
arrivare lì, si spiaccicò sui vetri e
aspettò che si aprisse, ma quella non si mosse di un
millimetro. Sull’orlo della disperazione, perché i
suoi inseguitori erano ancora sulle sue tracce, Aligi prese a battere i
pugni contro quella stupida porta e a gridarle
“Apriti!”, ma lei continuò a restare
perfettamente immobile.
“Non serve a nulla prenderla a pugni. E nemmeno a calci, se
mai avessi avuto l’idea di fare una prova.”
Aligi fece un salto per lo spavento, a sentire quella voce che lo aveva
colto di sorpresa.
“Tu che sei?” chiese.
“Il Cappellaio Matto, naturalmente.”
“E perché sei vestito come Jack Sparrow?”
“Disturbi della personalità”
tagliò corto quello.
Aligi decise di non indagare oltre, anche perché non gli
restava molto tempo.
“Sai come si apre?” chiese, indicando la porta.
“Allontanati di un passo e mezzo e mettiti proprio al centro
della porta. Le Fotocellule sono orbe e ti vedono solo se sei in quel
punto preciso.”
Aligi seguì le istruzioni e osservò le
Fotocellule provare ad aguzzare la vista, per capire chi ci fosse, e
soprattutto se ci fosse davvero qualcuno, davanti alla loro porta.
“Comunque è inutile che ti affanni tanto per
uscire” gli disse ancora il Cappellaio Matto Sparrow.
“Ma sono inseguito da tutta quella gente!” si
disperò Aligi.
“E allora? Tanto tu sei già fuori.”
“Cosa vuol dire che sono già fuori?”
chiese Aligi perplesso.
“Vuol dire che sei lì che russi come un
trombone” gli spiegò il Jack Sparrow Matto.
E in effetti, oltre la porta a vetri, Aligi vide se stesso che ronfava
allegramente, ancora sdraiato vicino a Zi’Anita nel cortile
della sua casa.
“Ma… ma…” balbettò
Aligi.
“Non sei un ragazzo molto sveglio, vero?”
“Certo che no, sono lì che dormo!” gli
fece notare Aligi.
“Mi sa che tu ci sei nato addormentato”
commentò lo Sparrow Matto Jack. “Ti basta
svegliarti e quelli non possono più raggiungerti”
gli rivelò magnanimo.
“E come faccio a svegliarmi?” piagnucolò
Aligi.
“Oh, ti aiuto io!” si offrì Sweeny Todd
con un sorrisino poco rassicurante e, prima che Aligi capisse quello
che stava succedendo, estrasse con tutta calma la sua spada dal fodero
e gli infilzò il didietro.
Aligi si risvegliò di soprassalto, guadagnandosi
un’occhiataccia da parte di Zi’Anita,
perché il suo urlo le aveva fatto perdere il filo del
rosario, che si era tutto sgranato, e adesso era costretta ad andare a
prenderne un altro e a ricominciare da capo. Aligi la seguì,
nella speranza di riuscire a farsi raccontare finalmente qualche
vecchia storia per finire la sua ricerca, e si chiese che cosa avesse
sognato che lo aveva spaventato tanto. E si domandò anche
perché, all’improvviso, avesse tanta voglia di
vedere Queer As Folk mentre mangiava un bel cosciotto di agnello
arrosto.
Note:
1. Spantu significa meraviglia, sorpresa, ma anche gran divertimento
2. Letterlamente, Agnellino Da Latte
3. Ovile Vecchio
4. Il Golgo è una vallata, nelle campagne del paese di
Baunei, in Ogliastra, nel quale si apre una profonda voragine che si
diceva fosse l’ingresso per l’Inferno
5. Il casu marsu, che letteralmente significa formaggio marcio,
è un formaggio fatto andare a male, che mette dei
particolari tipi di vermi e diventa molto piccante. Se si lascia
stagionare molto, i vermi scompaiono e il formaggio diventa una crema.
Dicono sia buono, ma io mi guardo bene dall’assaggiarlo ^_^
6. Acqua vite; a settanta gradi è quasi alcool puro -_-
7. Compare
8. Nell’ordine, pesce fresco e pesce caldo
9. È usanza, in molti paesi, che
dell’organizzazione delle feste si occupino i cinquantenni
10. Personale rivisitazione di una strofa della canzone Alice di
Francesco De Gregori: Alice guarda i gatti e i gatti guardano nel sole,
mentre il mondo sta girando senza fretta
11. Letteralmente, Volpacchiotto Volpe; nel mio dialetto volpe si dice
margiani, in quello logudorese mazzone
12. Da bottu, qualcosa che non vale nulla, riferito principalmente a
automezzi e elettrodomestici, qui inteso come catorcio
13. Strumento musicale a fiato, formato da varie canne di diversa
lunghezza
14. Tipica gonna sarda, lunga fino alle caviglie, tutta a pieghettine
15. Tipico cappello sardo, nero e dalla forma allungata
16. A parte il cinghiale, sono tutte specie più o meno
protette
17. Può voler dire sia “a cavallo di una canna
spaccata a metà” che “a cavallo di una
canna messa tra le gambe”, ma non ha grande importanza
perché, in realtà, è solo un modo
molto colorito per dire “a piedi”
18. Addio
19. Pomiciare