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Autore: Nanyscia    27/03/2010    4 recensioni
Lei otteneva sempre quello che voleva. Desiderava che sua figlia potesse avere una buona esistenza, avere tutto quello che le era mancato. Così pianificò tutto nei minimi dettagli... e venne ugualmente sorpresa.
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La prima volta che ti ho visto sapevo sarebbe stata anche l’ultima

13 Aprile 1987

 

La prima volta che ti ho visto sapevo sarebbe stata anche l’ultima.

 

Sai, ne sento tante sul mio conto – dicono sia gelida e calcolatrice, perfida e senza cuore, nata quantomeno da una costola di Satana, e pronta a qualsiasi cosa pur di ottenere quello che voglio. Modestamente, è tutto assolutamente vero.

 

Non credere invece a chi ti potrà dire che quello che ciò che ho fatto sia stato per codardia. Che ci sia stato egoismo da parte mia, non c’è  dubbio -  non potevo certo rischiare di perdere tutto quello che ero riuscita a costruirmi – ma codardia, no, mai. Anzi, è quasi superfluo notare come forse sia stato il più grande atto di coraggio della mia vita.

 

Io ottengo sempre quello che voglio. Volevo che mia figlia potesse avere una buona esistenza, avere tutto quello che a me era mancato. E così ho pianificato tutto nei minimi dettagli, ogni cosa.

 

A partire dal nome che ti ho scelto.

 

***

 

Non aveva calcolato quanto potesse essere forte, e fastidiosa, la luce solare da quelle parti. Dall’ultima volta che era stata in Svizzera aveva conservato ricordi di aria fresca e sole pallido, e invece quella mattina si ritrovava quasi accecata dai raggi solari che stavano invadendo la stanza.

 

Tentò di girarsi dall’altra parte per evitarli, ma senza molto successo. Allora allungò una mano verso il comodino, cercando i suoi occhiali da sole. La gente banalmente pensava fossero solo un vezzo, un modo di distinguersi dalla massa, tenendo lontano il proprio sguardo. Vero, ma all’occorrenza avevano decisamente scopi molto più pragmatici.

 

Tirò un sospiro di sollievo quando finalmente li trovò, e poté avere una qualche difesa da quel maledetto sole.

 

Esausta, si ributtò poi sul guanciale. Non aveva immaginato potesse essere così stancante.. cioè, sapeva a cosa poteva andare incontro, ma dieci ore di travaglio per qualcosa che nemmeno le sarebbe rimasto erano state decisamente troppe.

 

(Qualcosa. Non si era mai permessa di associarci un pronome personale, o peggio un nome).

 

Dieci ore, Dio. Non riusciva nemmeno a ricordare perché aveva deciso di portare avanti la gravidanza.

 

Chiuse gli occhi, cercando di riprendere sonno. Ma ancora una volta, aveva fatto male i suoi conti…

 

“Fey?”

 

Sospirò, mentre decideva se rispondere a Wanda o fingere di dormire.

 

“Fey… sei sveglia?” insistette Wanda.

 

Non se ne sarebbe andata comunque, uh?

 

“Per la tua gioia sì, sono sveglia” rispose alla fine, ancora con gli occhi chiusi.

 

“Come stai?” chiese l’assistente entrando finalmente nella stanza (nella quale prima si era solo affacciata).

 

Fey ridacchiò “Beh, diciamo che starei molto meglio se quell’idiota di medico mi avesse dato gli antidolorifici che doveva…”

 

“Ma non è stata colpa sua, siamo arrivate tardi, eri già..”


“Bla bla bla” la interruppe Fey “Ricordami ugualmente di farlo licenziare”

 

“Certo, come vuoi.”

 

Fey la squadrò per qualche instante. Come non sopportava lo sguardo sempre un po’ depresso di quella ragazza. Era un’ottima assistente, senza dubbio, ma proprio non riusciva a togliersi dalla faccia quello sguardo.

 

“Santo cielo Wanda, sorridi un po’! Non lo so, pensa al tuo naso nuovo” L’assistente si portò una mano su quello che ancora aveva “Pensa a tutto quello che potrai fare grazie a quello, e a un bravo parrucchiere.” (Lo sguardo salì sulla prorompente capigliatura afro della ragazza).

 

Poi tacque. Wanda però continuava a fissarla.

 

“Che c’è? Puoi andare ora” la avvertì Fey. Ma Wanda ancora la guardava “Si può sapere che hai?”

 

“E’ una bambina... è sana.” rispose piano.

 

Già l’istante dopo aver parlato, Wanda sentì che avrebbe dato qualsiasi cosa pur di vedere lo sguardo di Fey dietro quei suoi occhialacci scuri.

 

“Oh, bene... sì, perfetto. Hai fatto bene a dirmelo... è un bene sia sana, in caso contrario magari Tanen poteva fare storie... Una femmina uh?”

 

Anche senza vedere dietro quegli occhiali, Wanda capì di aver colpito nel segno. Da quando lavorava per quella donna, mai l’aveva percepita – oh, non pensava avrebbe mai usato quella parola per lei – vulnerabile. Ma quel giorno, in quel momento, per la prima volta sentiva l’armatura di ghiaccio incrinarsi… Ed era uno spettacolo da godersi fino in fondo.

 

Quando avrebbe ceduto?

 

“Non sta lontano da qui,” riprese l’assistente “si prende il corridoio di fronte a questo, e in fondo c’è la nursery…”

 

“Cosa diavolo stai dicendo?” la interruppe Fey.

 

“Pensavo…”

 

“Non m’interessa. Piuttosto, procurami delle sigarette.”

 

“Sei sicura sia una buona idea? Insomma, hai-”

 

“E’ dall’inizio di questa follia che non fumo, direi che ormai non devo più nulla a, beh si insomma, alla bambina.”

 

Oh perfetto, c’era cascata. Per colpa di Wanda ora la cosa era personificata, tanto per rendere più complicato il tutto.

 

“Vattene, sono stanca, voglio restare sola” ordinò alla fine.

 

Wanda senza aggiungere altro ubbidì. Uscendo però non poté fare a meno di lanciare un ultimo sguardo a Fey: la vide immobile, lo sguardo fisso davanti a sé, i pugni serrati.

 

Cedeva.

***

Quella buona a nulla di Wanda non si era più ripresentata. Cosa c’era di tanto difficile nel rimediare un pacchetto di sigarette? Un dannatissimo pacchetto di sigarette, diamine.

 

Furiosa per la mancata consegna, Fey vagava ora per le corsie della clinica, probabilmente senza nemmeno sapere bene dove andare, concentrata com’era su un’unica cosa: nicotina!

 

Dopo appena una decina di minuti di peregrinazione disperata, però, sentì il bisogno di fermarsi da qualche parte per riposare (le dieci ore pesavano ancora su quel corpo tutto sommato troppo minuto per uno sforzo del genere). Poggiatasi a una parete, cominciò a guardarsi intorno alla ricerca di una qualsiasi superficie adatta alla seduta. Vedeva porte, quadri, corridoi, ma nessuno a cui chiedere aiuto. Chiuse gli occhi un attimo, tendendo le orecchie alla ricerca di voci umane, ma ben preso si rese conto di non riuscire a percepire nient’altro che un irreale silenzio. Fortuna che gli Svizzeri erano considerati tra i popoli più laboriosi al mondo…

 

Allora fece un respiro profondo, riaprì veloce gli occhi e risoluta riprese il cammino. Aveva fatto solo qualche metro quando si ritrovò davanti l’ultimo posto dove avrebbe voluto essere.

 

D’istinto, rivolse subito le spalle alla grande vetrata della nursery. Come era finita lì? Boh, non importava. Doveva solo andarsene al più presto, prima di fare cose di cui poi si sarebbe sicuramente pentita.

Ma le gambe non ne volevano sapere.

 

Probabilmente non aveva mai desiderato una sigaretta quanto in quel momento.

 

Dove andarsene sì, ma non lo aveva ancora fatto. Avrebbe potuto dare almeno un’occhiata però… no, non poteva farlo.

 

Ora avrebbe decisamente ucciso per una sigaretta.

 

Un istante dopo si voltò.

 

“E’ lei chi diavolo è?”

 

Si aspettava di vedere una distesa di culle piene di mocciosi, si ritrovò invece all’ombra di qualcuno molto più alto, imponente, e scuro di lei.

 

La squadrò meglio: gli abiti che portava – un vestitino bianco striminzito, cuffietta e golfino giallino tristezza – le diedero subito la certezza che quella che si trovava davanti doveva  essere un’infermiera. Certo, non aveva troppo l’aspetto della tipica svizzera

 

“Piuttosto chi è lei?” ribatté Fey “E non mi venga a raccontare che lavora qui.”

 

“Come preferisce, non glielo dico. Ora mi spiega cosa sta cercando o rimaniamo qua a discutere sulle nostre identità per un’altra mezz’oretta?”

 

“Oh, io non ho fretta. A proposito, sa dirmi dove posso trovare delle sigarette?”

 

L’infermiera la fissò incredula per un attimo, cercando di convincersi che quanto aveva appena chiesto quella donna fosse per effetto degli antidolorifici o qualcosa di simile. Quando però si rese conto che diceva sul serio, scoppiò a ridere.

 

“Sta scherzando vero?” disse ridendo “Non può essere seria!” e poi di colpo le afferrò il braccio destro per leggere sul braccialetto che Fey portava.

 

Dopo, lasciandola (piuttosto bruscamente) si fermò un attimo, e alla fine, come colta da una qualche illuminazione, riprese la parola.

 

“Signora Summer…”

 

“Sommers”

 

“Qual che è… sicura di voler proprio delle sigarette uh?”

 

“Certo, cos’altro?”

 

La tipica svizzera sospirò profondamente, scuotendo il capo.

 

“Una puerpera di fronte alla nursery… non ci vuole molto a capirlo.”

 

Fey sbuffò “Oh, ho capito dove vuole arrivare. E’ inutile, non mi interessa, io ho già preso la mia decisione”

 

Forse, se l’avesse ripetuto qualche altra volta sempre ad alta voce, se ne sarebbe convinta davvero.

 

La faccia dell’infermiera però (“Katherine”, riuscì finalmente a leggere sulla divisa) d’un tratto si fece realmente seria.  

 

“Non vuole nemmeno darle un nome?”

 

Un nome! Oh, un nome! Ci mancava questa adesso. Un nome, che assurdità. E poi cosa, magari tenerla per giocare alla mammina?

 

“Non credo proprio…” rispose infine, ma quella che doveva essere un’affermazione decisa risultò poco più di un sussurro.

 

“Come vuole. Io comunque ora vado a prendermi un caffè…”

 

“Sì sì… basta che si ricordi le mie sigarette!” esclamò rivolta all’infermiera che se ne andava, in un tono che dava prova di forza ritornando improvvisamente deciso.

 

Il corridoio tornò deserto e assordantemente silenzioso.

 

Fey era ancora di fronte alla nursery. Lentamente, riportò gli occhi alla vetrata. Là dietro, i neonati se ne stavano tutti quieti – e dire che si era sempre immaginata i bambini come costantemente urlanti!

 

Chissà se anche lei dormiva.

 

Magari, se fosse stata addormentata, avrebbe potuto darle un’occhiata… ma sì, uno sguardo veloce, senza il pericolo di sentirsi osservata. O forse era troppo pericoloso? Oh, al diavolo, con tutta la fatica che ci aveva messo nel farla…

 

Naturalmente non poteva andare così. Dio non poteva di certo permettere una cosa rapida e indolore, figurarsi.

 

La vide quasi subito, appena fu entrata. Non dormiva.

 

Fey si sentì subito gli occhi di quella creatura addosso. Grandi, verdi, vivaci, dolcissimi.

 

“Per Dio...”

 

D’istinto si tolse gli occhiali, lasciando che cadessero a terra. Ora che era lì, voleva vederla bene, la creatura. Per Dio, a guardarla negli occhi era come guardare in uno specchio, come fatta con lo stampino.

 

Che stava facendo? Per nove mesi si era riferita a lei come quella cosa, appena nata si era rifiutata perfino di ascoltare il suo pianto, ma ora ecco, rompendo tutte le regole che si era data, se ne stava lì, a guadare due occhi uguali ai suoi.

 

“Beh.. visto che ormai ci siamo.. Salve

 

La bambina agitò una manina. Salutava? Probabilmente la stava solo agitando a caso, ma per un secondo a Fey piacque pensare che stesse ricambiando il saluto.

 

Si avvicinò un altro po’, tentata di provare ad accarezzarla. Beh, più che altro voleva stringerla, quella zampetta.. ci si stringe la mano quando ci si saluta, no?

 

Poi improvvisamente, irrazionalmente, se la ritrovò tra le braccia.

 

Dapprima ebbe paura. Anzi, era terrorizzata. Dalle conseguenze di quel gesto, e da quegli occhi troppo grandi e troppo brillanti.. o magari solo di tenerla nel modo sbagliato. Chi l’aveva mai tenuto in braccio un neonato?

 

Dopo un po’ forse capì che doveva averlo fatto bene, perché lei continuava a sorriderle, e continuava a guardarla quieta quieta.

 

“Complimenti per lo sguardo ipnotico cara…” ancora non riusciva a prenderle la manina “Davvero, con quegli occhioni conquisterai il mondo, lo sai? Oh, certo che lo sai…”.

 

Le prese la mano, e tacque, perché non sapeva più cosa dirle. Cosa voleva? Considerato che fino a qualche minuto fa non era nei piani nemmeno il guardarla, e ora era lì a concederle il privilegio di essere tenuta in braccio e tutto…

 

Poco dopo però riprese “Sì certo, conquisterai il mondo. Stai solo attenta agli uomini… come i Meade” e rise, pensando a quanta poca fiducia già le infondevano già le nuove generazione nella persona di quei due mocciosi - specie il piccolo - a cui B. permetteva decisamente troppo spesso di infestare gli uffici. 

 

D’un colpo le vennero in mente le parole dell’infermiera. Un nome..?

 

La strinse al seno, d’impeto, perché anche solo per un secondo sua figlia sapesse che le apparteneva. Nel farlo, seppe anche il suo nome.

 

 

 

***


13 Aprile 1987

Sera

Credo ancora che con quegli occhi conquisterai il mondo. Crescendo sono diventati ancora più vivaci.

 

***

La palla le era sfuggita appena fuori dalla sua camera, ed era rotolata veloce lungo il corridoio. Subito le corse dietro, sperando di riuscire ad acchiapparla prima che finisse di nuovo nello studio di suo padre. L’ultima volta che era successo lui si era arrabbiato parecchio, e le aveva nascosto la palla per tutto il resto della giornata.

 

Quando pensò che poteva raggiungerla, quella andò a finire la sua corsa proprio nello studio. Le si lanciò lo stesso dietro, pensando che magari il suo papà poteva essere uscito alla ricerca di un po’ di fresco, in quella giornata troppo calda per essere solo primaverile.

 

Stringendo la palla a sé per un attimo credette di averla scampata, perché nessuno le aveva urlato niente.  Ma alzando gli occhi le sue speranze furono immediatamente deluse.

 

Dritta davanti a lei stava una signora molto elegante, con un paio di grandi occhiali neri che le nascondevano buona parte della faccia. D’istinto indietreggiò, perché quello sguardo nero le faceva paura. (Avrebbe voluto che se li togliesse, era curiosa di sapere di che colore avesse gli occhi).

 

La bella signora sorrise “Cosa c’è? Hai paura di me?”

 

La bambina annuì candidamente.

 

“Oh, e perché?”


“Non sei arrabbiata per la palla?”

 

“No.”


“Davvero? Il mio papà si arrabbia sempre quando mi scappa qui.”

 

“E io no.”

 

“Sei una brava signora allora. Come ti chiami?” chiese alla fine, rialzandosi anche se quegli occhiali neri le facevano ancora paura.

 

La signora si sedette (forse per abbassarsi un po’ al suo livello, pensò la bambina) e sospirò.


“Io mi chiamo Fey. E tu?”


“Amanda. Ho appena compiuto cinque anni, lo sai? La mia mamma dice che ormai sto diventando una signorina.”

 

La signora che si chiamava Fey fece una smorfia, poi le rispose che la sua mamma aveva ragione, e che era davvero una signorina ormai, e che più di tutto aveva un nome molto bello.

 

“Tu lo sai cosa vuol dire Amanda?” le chiese alla fine.

 

Amanda scossa la testa: no, non lo sapeva, lei invece sì?

 

“E’ latino, una lingua parlata dagli uomini tanto tempo fa, lontano da qui. Vuol dire ‘colei che deve essere amata’ ”

 

“Oh.. forte!”

 

“Ti piace?”

 

“Sì, è forte.”

 

“E dimmi, credi sia vero?”

 

“Beh sì. Il mio papà mi vuole bene.”


“E la tua mamma?”


“Anche la mia mamma.”

 

La signora allora si fece tutta seria.

 

“Sì, la tua mamma ti vuole tanto bene.”

 

 

 

 

 

 

 



 

 

  
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