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Autore: S h i n e    03/04/2010    2 recensioni
E’ strano il mondo. A volte sei legata a una persona in modo così viscerale, che ti sembra impossibile pensare che un giorno questo potrebbe cambiare. Poi accade, il mondo non ci sta, ti separa da quella che per molto tempo era stato il fulcro della tua vita. Si insinua il destino nelle vostre vite. Perché il destino è una puttana capricciosa e viziata, è un’invidiosa che si nasconde sotto le sembianze della giustizia. Contrariamente a chi non lo sapesse, il destino è donna.
Genere: Romantico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Continuavo a logorarmi dentro: andare o non andare alla festa?
Roberto insisteva fastidiosamente da giorni, che facciamo a casa tutta la serata?, ripeteva. Non so cosa cazzo facciamo a casa, ma se la festa la posso evitare, la evito, pensavo. Era la festa di compleanno di Lucia, ex compagna di liceo di entrambi. Pochi giorni fa c’eravamo accidentalmente scontrati in centro, soliti formalismi, saluti e abbracci falsi come la borsa che mostrava orgogliosamente al braccio.
“State ancora insieme, voi due? Quanto sarà? Sei anni?”, aveva detto, in tono civettuolo e ostentando un sorriso pieno di invidia.
“Eh già” avevo risposto, senza neanche guardarla negli occhi.
 “Ci siamo incontrati giusto in tempo, settimana prossima compio i venticinque, sto organizzando una festa in grande, roba chic, tu puoi capire, Penny”, m’aveva detto, tirandomi una gomitata complice e facendomi l’occhiolino. E’ dai tempi del liceo che Lucia pensa di essere chic, io ho sempre pensato che sia solo una che va stupidamente dietro alle mode del momento e che, come le mode, abbia bisogno di cambiare ogni stagione.
 “Oh, certo che capisco”, le avevo risposto.
 “Insomma, dammi il tuo numero, ti mando un sms”
Lucia era il tipo che diceva sms e non messaggio, perché sms era figo, messaggio era antiquato, fuori moda. Era il tipo che cambiava acconciatura ogni mese, ogni volta che veniva lasciata, allora lei cambiava acconciatura, e noi capivamo che l’ennesimo ragazzo l’aveva mollata. Era il tipo che per non sentire il peso della sua mediocrità aveva bisogno di elencare ad alta voce i difetti di tutti: hai le doppie punte, Penny, che scarpe out che indossi, Penny, il tuo biondo si sta spegnendo,Penny, hai preso 8 al tema, Penny, ma quanto sei secchiona, Penny?
Quelle parole risuonavano ancora violente nella mia mente. Non che mi sfiorassero minimamente, non più di tanto, avevo imparato a non ascoltarle, ma purtroppo le sentivo. Quando parlava Lucia, immaginavo che dalla sua bocca venissero fuori solo una serie di grugniti animaleschi, cosi che non dovessi sorbirmi ogni volta i suoi monologhi sul colore della stagione.
“Stai ascoltando, Penny?”
 “Certo”
 “Allora ci sentiamo presto, ci saranno tutti gli ex compagni, sarà proprio una rimpatriata chic”
 “Cosa intendi con tutti gli ex compagni?”
 “Oh sì, intendo proprio tutti”
 Ciò che aveva detto durante quel fugace incontro ancora mi risuonava nella testa, ricordo che al momento mi aveva provocato quasi un attacco di panico, sudavo freddo, sentivo la bocca secca e il peso del mio corpo troppo pesante da sorreggere. “Ti fa ancora quell’effetto, eh?”
 “Scusa, devo andare. Ci vediamo. Mi ha fatto piacere rivederti.”, avevo salutato, sorridendo. La conversazione si era conclusa allo stesso modo in cui era iniziata. Ipocrisia. Quanto può essere falso l’essere umano. Sorrido, e invece vorrei solo mettermi a piangere, “Mi ha fatto piacere vederti”, e invece nella mia mente si fa già spazio l’idea di lei sotto terra in una bara, viva.
Quando ero tornata a casa, avevo raccontato tutto a Roberto, mi aveva fatto uno dei suoi sorrisi a 32 denti e aveva urlato: “Andiamoci, amore!”.
L’avevo guardato ed ero andata a letto. “Scusa, sto male”.
Io e Roberto stavamo insieme da sei anni, tre mesi, 7 giorni e 22 ore. Scherzosamente, solevo definirlo “Il cardinale” durante i nostri giochetti notturni, e ciò lo eccitava molto, ma non era solo un giochetto erotico, per me. Quella parola aveva un significato d’importanza vitale. Roberto era il cardine della mia vita, quello che cercava di tenere insieme i pezzi di un io sempre più frammentario e quello che me li riattaccava quando proprio non ce la faceva a mantenermi integra. Era il cucchiaino di zucchero in quel caffè amaro che era la mia vita. Era quello che si accontentava dei miei silenzi immensi, anzi, cercava di riempirli. Forse inutilmente, nessuno ci riusciva. Ma quei suoi occhi, marroni come il cioccolato al latte, erano la mia riva sicura quando affogavo nel turbine dei miei pensieri sconnessi e dolorosi.
Poco dopo era venuto anche lui a letto, mi aveva cinto con un braccio e mi aveva stretto a sé, posandomi un leggero bacio sul collo, mi aveva detto “Ci sono qui io”. E io, da grandissima egoista la quale non ho mai nascosto di essere, non avevo pensato all’infinita dolcezza dell’uomo che giaceva accanto a me. Avevo pensato subito che quella era la stessa frase che mi aveva ripetuto lui, poco prima di sparire per sempre dalla mia vita. “Ci sono qui io, con te” e poi era sparito, lasciandomi a metà. E ora avevo appena saputo che l’avrei rivisto tra una settimana, dopo sei anni di assenza. Confusione.
Indecisione.
Paura.
 C’era, come sempre, una strana forza di gravità che mi attirava dovunque fosse lui.
E ce n’era un’altra, opposta, che mi diceva di fuggire. Non potevo spezzarmi di nuovo, proprio ora che stavo un po' meglio.  Il problema era che la direzione che prendevo era sempre, senza eccezioni, quella sbagliata.
“Andiamo al party chic”, avevo sussurrato la sera stessa della festa a Roberto.
“Hai deciso ora?!”
“Sì, è un problema? Non abbiamo niente da fare, qui a casa.”
“Non è un problema, sono un problema i tuoi continui sbalzi d’umore. Stai bene? C’è qualcosa che non mi dici?”
“E’ tutto okay. Vado a prepararmi.”
Avevo aperto l’armadio, buttando tutti i miei indumenti sul letto, alla rinfusa. Poi  avevo iniziato ad esaminarli uno per uno, alla disperata ricerca dell’abito esatto. Dopo due crisi d’esaurimento raggirate solo grazie all’intervento di Roberto che non faceva altro che ripetermi “Tanto sei bella sempre”, l’avevo trovato. Era un vestitino di chiffon, verde smeraldo, senza maniche e lungo fin sopra le ginocchia, a palloncino, al quale avevo abbinato un copri spalle nero, calze e ballerine nere. Avevo abbinato gioielli e borsa al vestito, mi ero stirata i lunghi capelli biondi con la piastra e avevo sistemato perfettamente la frangetta che mi copriva la fronte, mi ero truccata e mi ero spruzzata un velo di profumo sul collo e sui polsi. Mi ero data un ultimo sguardo allo specchio, e mi ero trovata… perfetta. E Roberto lo era in egual modo, con un maglioncino a righe grigie e un paio di jeans che gli fasciavano perfettamente le gambe toniche e snelle.
Ci eravamo recati nel luogo del party chic, un locale di Lucia mi aveva scritto l’indirizzo tramite sms. Fortunatamente, distava solo pochi chilometri dal nostro piccolo appartamento universitario, nel quale vivevamo da ormai 4 anni e nel quale avremmo continuato a vivere fino al conseguimento della mia laurea, in giornalismo, e della sua, in economia.
Avevamo fatto la nostra entrata trionfale, tutti si erano girati a guardarci, mormorii, sospiri e frasi dette sotto voce avevano accompagnato il nostro ingresso. Poi, soliti formalismi. Baci e abbracci a tutti gli ex compagni, persone che non rivedevamo da anni, che noi non avevamo cercato e i quali non avevano cercato noi. Era semplice, persone che non ci importava di rivedere. Solo pochi fui davvero felice di rincontrare, le uniche persone alle quali un tempo ero stata davvero legata. Una in particolare: Clelia. E’ strano il mondo. A volte sei legata a una persona in modo così viscerale, che ti sembra impossibile pensare che un giorno questo potrebbe cambiare. Poi accade, il mondo non ci sta, ti separa da quella che per molto tempo era stato il fulcro della tua vita. Si insinua il destino nelle vostre vite. Perché il destino è una puttana capricciosa e viziata, è un’invidiosa che si nasconde sotto le sembianze della giustizia. Contrariamente a chi non lo sapesse, il destino è donna. A quella brutta stronza proprio non andava giù che io e Clelia vivessimo in funzione l’una dell’altra, così ha deciso di dividerci. Lei si è trasferita con i suoi, ci siamo fatte promesse che sapevamo impossibili da mantenere, ci siamo tatuate anche le nostre iniziali, sotto il collo, unite a formare un cuore. Ricordo che il tatuaggio l’avevo disegnato io, avevo detto “così saremo unite per sempre”. Roba da ragazzine piene di speranze e desideri. Da quando io e Clelia c’eravamo perse del tutto, ogni volta che guardavo il tatuaggio, era quasi come se bruciasse. Bruciava da uccidere. Erano i sensi di colpa, era la nostalgia di quella purezza che aveva il nostro rapporto. Avevo spesso pensato di farmelo cancellare. Ma non l'avevo fatto e sapevo che mai ci sarei riuscita . Non avevo mai smesso di pensare a Clelia, sarebbe rimasta per sempre la mia migliore amica. E nel rivedere il suo dolce sorriso imbarazzato, il suo naso un po’ imponente, i suoi lunghi capelli che finalmente aveva tinto di rosso, come aveva sempre desiderato, e i suoi occhi, un po’ piccoli, circondati da lunghe ciglia, timorosi, che puntavano un po’ troppo spesso verso il basso, il tatuaggio bruciò come non aveva fatto mai. Rivederli mi aveva fatto tornare ad avere 16 anni, mi aveva fatto tornare a quel giorno del tatuaggio. “E cosa faremo quando ci perderemo, lo cancelleremo?” “Noi non ci perderemo mai”, avevamo detto. E poi c’eravamo perse, ma il tatuaggio era sempre lì. L’avevo guardata, era bellissima, con un vestitino color vinaccia ch emetteva in risalto il suo fisico snello e la sua pelle chiarissima, c’eravamo sorrise. Poi c’eravamo abbracciate. Poi c’eravamo messe a piangere, come avevamo già fatto tante volte in passato. “Guarda che ti si sbava il trucco”
“Tu ce l’hai già sbavato, eh”
Non era cambiato nulla. Quei sei anni non erano passati, quelle promesse non erano state infrante, eravamo Penelope e Clelia, due adolescenti che credevano di cambiare il mondo con la loro forza, solo loro due contro tutti. Così per sempre.
 “C’è anche lui, è nell’altra stanza”, mi aveva sussurrato nell’orecchio, dopo avere fatto allontanare Roberto con una scusa.
“Lo so” avevo risposto, con la rassegnazione dei vinti.
“Tranquilla, piccola” e mi aveva preso per mano.
Eravamo entrate, avevamo fatto gli auguri alla festeggiata.
 “Tesoro, auguri!” le avevo detto, stampandole due baci sulle guancie e porgendole il pacchetto regalo.
“Guarda chi si rivede insieme! Il duetto si è ricomposto! Alessandro, guarda chi c’è!” aveva urlato, con tono ocheggiante. In quel momento l’avevo maledetta in tutte le lingue che conoscevo, compreso il latino. Avevo desiderato solo sparire, non essere mai andata a quella merda di festa. Feci per fuggire, come sempre. Ma Clelia mi strinse la mano e mi tenne ferma, non voleva che fuggissi, aveva ragione lei, come sempre. Poi l’avevo visto, dopo sei anni, l’avevo visto. I suoi occhi verde scuro circondati da folte ciglia nere, un abisso profondo nel quale ero affogata parecchie volte, erano ancora lì. Ma stavolta non sarei affogata di nuovo. Distolsi lo sguardo. Lui si avvicinò, saluto prima Clelia con due baci sulle guancie. Poi mi guardò, sentii il suo sguardo così forte su di me, come se mi stesse penetrando, come se potesse con quei suoi occhi magnetici vedermi dentro, in quella parte che tenevo nascosta al mondo, ma che lui conosceva. Era qualcosa di asfissiante, mi faceva mancare l’aria. Non volevo che mi vedesse. Non volevo che neanche mi guardasse. “Ciao, Penny”, e si era avvicinato, sempre più vicino, fino a poggiare delicatamente le sue labbra sulla mia guancia, prima destra e poi sinistra. A quel contatto si era scaricata una scintilla elettrica. Contrariamente a quanto dicono tutti, non è romantico, non è sintomo di passionalità. Fa solo male. Esattamente come quando prendi la corrente. Avevo sentito il suo profumo, forte e deciso, dalla tonalità acre ma con un retrogusto dolciastro. Poi avevo alzato lo sguardo, e l’avevo guardato. Le labbra erano sempre lì, al loro posto, sempre le stesse, carnose e rosse come una fragola, la sua pelle scura, i suoi capelli corvini e spettinati. Era tutto come sei anni fa. “Ciao, Alessandro” e poi me n’ero andata, lontana da Clelia, Roberto, Lucia. Mi ero chiusa nel cesso, rannicchiata sulla tazza de water, a piangere. Tutto questo per uno stupido ragazzo? Oh no, non era solo per questo. Lui era il mio tutto. Era la mia anima gemella, è indescrivibile come ci si senta dopo che si perde la propria anima gemella. È unica al mondo, sai che potrai innamorarti altre volte, ma amare no, quello è non succederà mai più. Eravamo due opposti. Due poli opposti. Non ci saremmo mai trovati, forse, in un’taltra vita. Eppure, in quella vita, era capitato, e non c’era voluto molto, era bastato uno sguardo, e il nostro destino s’era compiuto. Com’era possibile che si fosse sgretolato tutto così facilmente? Il destino non è una forza così potente, come ci dicono. Il destino ce lo facciamo soli, con le scelte che compiamo giorno per giorno, con quelle, scriviamo il nostro destino. Alessandro aveva scritto semplicemente qualcosa di diverso da ciò che avevo scritto io. Di sua spontanea volontà, se n’era andato dalla mia vita. Cercavo di odiarlo, ma non ci riuscivo, odiarlo mi sfiniva, ma mai quanto amarlo. Amarlo mi uccideva.
Durante quella profonda riflessione seduta sulla tavola del cesso, qualcuno era entrato in bagno, una voce inconfondibile
 “Pen?”
Silenzio.
“Lo so che sei qui”
Silenzio.
“Devo guardare in tutti i cessi?”
E si era messo a guardare in tutti i cessi, aprendone la porta, uno alla volta. Poi aveva aperto la mia, mi aveva guardata in faccia. Aveva visto il trucco sbavato a causa delle lacrime, gli occhi rossi, la labbra screpolate. Si era avvicinato, e mi aveva abbracciato. Poi mi aveva preso il viso tra le mani, e aveva avvicinato le sue labbra. Si erano prima posate sulla mia guancia, avvicinandosi poi alla mia bocca, per sfiorarla  delicatamente, come una foglia d’autunno che cade dal suo albero e si accascia a terra, con delicatezza, ma anche quasi con la rassegnazione di sapere che a breve essiccherà, qualcuno la pesterà e si frantumerà in mille pezzettini, fino a diventare polvere. Le sue labbra sembravano avere la stessa certezza della foglia, la stessa rassegnazione. Erano esattamente come sei anni fa, quelle labbra. Fu un bacio che sapeva di nostalgia, e di lacrime, come due persone che sapevano che il loro destino sarebbe rimasto incompiuto, che quel bacio sarebbe stato solo l’addio che sei anni fa non si erano dati per bene, sarebbe stata la fine di tutto, l’inizio di nulla. Ognuno avrebbe continuato la propria vita, con i rispettivi compagni, sarebbe rimasto solo il ricordo di un amore rimasto a metà, esattamente come lo erano loro, separati: a metà. Perché la metà di ciascuno di loro risiedeva nel cuore dell’altro. Avrebbero condotto un’esistenza a metà. Era questo il prezzo per riuscire a vivere serenamente, vivere a metà? Forse lo era. Nessuno dei due avrebbe più abbandonato i propri compagni per quella che, in quel bagno, poteva sembrare una futile passione, anche se quella passione, per pochi minuti, sembrava l’unica cosa importante del mondo. Chiusi in quella toilette, con Roberto e Cristina a pochi metri da loro, a riparo dal mondo intero, si amarono come mai avevano fatto. Si amarono con la certezza che quella sarebbe stata l’ultima volta. Sentivano il calore dei propri corpi, che aderivano perfettamente l’uno all’altro, le mani dappertutto, i sospiri, i gemiti, il loro odore che, una volta usciti da quel bagno, sarebbe rimasto per sempre impresso sui loro corpo, come una ferita, sempre pronta a bruciare al minimo urto o non appena ci fosse andata su un po’ d’acqua, e quando – se mai l’avrebbe fatto – la ferita si fosse chiusa, sarebbe rimasta per sempre la cicatrice, la cicatrice del loro amore a metà.
Ma bisogna imparare a conviverci, con le cicatrici.
Quando uscirono da quel bagno, si riunirono ai propri compagni, sorrisero di un sorriso che fa male, come se quel gesto che dovrebbe essere di norma così naturale, costasse una fatica immane, sorrisero di un sorriso fatto solo con la bocca, perché i propri occhi tutto facevano, tranne che sorridere. Si cercavano con lo sguardo, si trovavano e poi si evitavano, in un circolo vizioso dal quale Penelope voleva uscire, al più presto.
"Robi, mi sento poco bene. Andiamo via?"
"Ti vedo strana… cos’è successo? Devi dirmi qualcosa?"
"No, ho solo mal di testa" gli rispose, abbassando lo sguardo.
Roberto la guardò con la consapevolezza di sapere già cosa fosse successo, ma con al stupidità che hanno le persone, pensano che se non sentono direttamente una cosa dalla bocca di qualcuno, allora quella cosa non sarà vera, allora la si può ignorare, le prese la mano, salutò velocemente tutti, e se ne andarono.
Alessandro guardò per l’ultima volta Penelope, poi si girò e baciò la sua Cristina.

 Qualche anno dopo, Penelope e Roberto si sposarono.
Alessandro fece un salto al loro matrimonio. La vide, Penelope, avvolta in un abito da sposa bianco, che le ricadeva delicatamente sul corpo, era bellissima, con il viso coperto dal velo, per nascondersi, forse, dal mondo.
 Ma Alessandro lo sapeva cosa c’era, sotto quel velo.
Due occhi, il tormento in quei due occhi, una lacrima silenziosa che sgorgava da quei due occhi, il loro amore incompiuto, in quei due occhi.
E Alessandro sapeva cosa c’era, sotto quel vestito, a sinistra del petto, coperto da un corpetto di perle.


Metà del suo cuore.
 


  
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