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Autore: Hi Fis    06/04/2010    1 recensioni
È una storia strana, né favola, né tragedia, ma possiede le qualità di entrambe. Narra di Sogno, rettile oscuro creato con lo scopo di vendicarsi dei malvagi signori del regno della Mente, i tre fratelli me, Me e ME, che governano senza pietà sulle terre di memoria, del suo viaggio per trovarli e degli inganni con cui li combatte.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Diciassette verticale: via pedonale coperta su tre lati. Nove lettere.
me stava ponendo la domanda ad un bambino seduto sulle scale del saloon. Da dove era seduto, il piccolo si godeva l’ombra del porticato e la sua frescura, succhiando pigramente un lecca lecca.
me invece era accomodato in mezzo alla strada, seduto al contrario su di una sedia di paglia sgangherata, impolverata e sbiancata dal sole, che era riuscito a trovare in una delle case del villaggio fantasma dove si erano fermati. Gli avresti dato trent’anni: per ripararsi dal sole indossava un cappello di paglia sproporzionato, dal quale la sua zazzera di capelli corvini sfuggiva come una barzelletta oscena, e un paio nuovo di occhiali da sole da vero duro. I suo bicipiti allenati e la sua carnagione abbronzata risaltavano grazie ad una camicia rossa a maniche corte che terminava rimboccata in un paio di jeans scoloriti, ormai del colore del cielo d’estate. Ai piedi indossava un paio di stivali da cowboy lustri, senza la minima traccia di polvere.
Il bambino che aveva di fronte indossava un completino elegante color cachi coordinato con la camicia dello stesso colore. I pantaloncini corti mostravano due gambe pallide come il gesso, ma stranamente le mani erano di colori molto diversi: la sinistra con cui si trastullava col lecca lecca era azzurra, ma quando toglieva il dolce dalla bocca diventava subito rossa, per poi tornare del colore celeste quando il dolce tornava al suo posto. La mano destra invece poggiava inerte sulla coscia e la pelle era di colore nero, unghie comprese; lo stesso colore dei suoi capelli tagliati a scodella, che assieme alle sopracciglia ornavano due occhi viola dallo sguardo liquido. Ai piedi calzava due scarpe senza stringhe che si muovevano avanti e indietro; quella delle due che rimaneva indietro diventava azzurra, mentre quella che era davanti, rossa.
Quando le due scarpe di incontravano a metà strada diventavano per un breve momento verdi entrambe, facendo scoccare una piccola scintilla elettrica. Poi tornavano ad allontanarsi di nuovo, ognuna prendendo il colore che gli spettava.
Il piccolo poteva avere dieci anni, anche se aveva un sguardo incredibilmente adulto.
“Lo sai vero, che è inutile?” disse, togliendosi il lecca lecca dalla bocca.
Anche quello era azzurro, ma erano solo venature su un corpo sferico bianco come il bastoncino. Il bambino osservò per un attimo la sua mano rossa con le unghie azzurre, prima di rimettersi in bocca il dolcetto, continuando a far dondolare le gambe.
“Cosa sarebbe inutile, mezza sega?” la voce di me era ringhiosa, quella di una bestia.
Il bambino aveva invece una voce argentina, da uccellino:
“Anche se ti sforzi, non sarai mai intelligente come loro.”
me si alzò di scatto, rovesciando la sedia:
“Chi ti credi di essere? Adesso ti faccio a pezzi” disse, buttando nella polvere le parole crociate e la stilografica che aveva tenuto in mano fino a quel momento.
Prima che potesse fare però un’ulteriore passo vero il porticato e il suo piccolo ospite, una lama arancione si fece strada attraverso il petto. Sul terreno cominciarono a raccogliersi le gocce che stillavano dalla lama.
me si voltò, con la spada comicamente infissa nel petto, spargendo un ventaglio di gocce attorno a se, mentre la macchia umida si allargava sulla sua camicia:
“Sei tu! Sai, a volte, potresti dirmi di fermarmi invece di piantarmi questa tua lama del cazzo nel corpo ogni volta. Guarda che disastro: era la mia camicia rossa preferita.”disse indicando l’alone sul suo petto. Non tentò nemmeno di togliere la spada: finché il suo padrone non avesse deciso altrimenti, quella sarebbe rimasta al suo posto.
“Taci cane, il rumore della tua voce è estremamente fastidioso.” ordinò ME, la padrona della spada. Ogni parte del suo corpo era invisibile, coperta com’era da un burqa completo del colore del mare. Era emersa dalle ombre delle case dall’altra parte della strada e aveva fermato me, colpendolo alle spalle. La sua voce era sintetica, una voce da macchina, senza intonazioni o inflessioni particolari, ma dal timbro decisamente femminile.
me raddrizzò la sedia, prima di sedersi nuovamente, avendo cura di girare lo schienale in modo che la spada non gli desse fastidio.
“Allora, a cosa devo l’onore di questa visita?” chiese me, dopo essersi seduto con un grugnito, dando le spalle al bambino.
“Mi sembrava di averti detto di tacere.”
Poi ME continuò, seppure controvoglia:
“Mi stavo annoiando là sopra, così sono scesa a vedere come andava da queste parti.”
“Grazie della visita: ora puoi andare a farti fottere.”
La spada che me aveva in corpo decise in quel momento di tornare dalla sua padrona, uscendo dalla ferita aperta nel verso da cui era entrata.
Perfino me si azzittì a quel dolore: dieci di centimetri di sciabola più la guardia che ti attraversano il corpo non sono una sensazione piacevole. ME accolse la sua spada, permettendole di pulirsi il sangue sul burqa, come farebbe un cane: sulla sua veste si vedevano altri segni di quella pratica. Poi la fece scomparire nelle pieghe del vestito.
Ora me aveva un buco di cinque centimetri nel petto e la camicia mancante di un bottone, ma oltre a sputacchiare un po’ di sangue non sembrava che la cosa gli disse fastidio. Non si curò nemmeno di coprire il foro con la camicia, attraverso il quale, oltre alla trachea, ME poteva vedere il bambino seduto dietro di lui, concentrato sul suo dolce.
“Sei davvero una puttana, lo sai?” disse me ringhioso.
“Se non cessi subito questa tua inclinazione, ti decapiterò, chiaro?”
“Tu non decapiti un cazzo di nessuno: la tua spada può farlo, ma non tu sorella. Tu non hai le mani nemmeno per afferrarti una tetta!” dichiarò gioioso me.
“Sei davvero un essere odioso, lo sai?” disse a voce bassa ME, un accenno di pianto nelle sue parole.
“E tu sei debole! Nonostante Lui ti abbia privato delle mani, ancora non ti ribelli.”
“Non potresti mai capire: Lui è ormai al di sopra della nostra portata.”
“Bha, se ci alleassimo tutti nemmeno Lui potrebbe sconfiggerci. E potremmo riprenderci quello che ci ha rubato” Disse me, sputando per terra.
Il bambino deviò la traiettoria del grumo e lo indirizzò su un bersaglio più interessante. Nessuno degli altri due si accorse della cosa e una macchia di sangue catramoso andò a macchiare gli stivali di me.
“Cazzo e por cazzo. Anche gli stivali mi sono macchiato!Accidenti.” disse quello accorgendosi della cosa.
La risata argentina del bambino accolse quella sua osservazione, un rumore simile al battito d’ali di uno stormo di rondini mentre partono per i caldi territori dell’Africa.
“Ehi tappo, cosa ti ridi?” disse me, girando la testa.
“Rido della tua boccaccia.”
I suoi inquietanti occhi viola catturarono quelli di me per un momento. Quando si liberò dal suo incantesimo, me si accorse che il paesaggio era cambiato: ora si trovavano nella radura di una fitta foresta boscosa; in lontananza i rumori del vento e il canto degli insetti accompagnavano lo scorrere di una fonte d’acqua che era comparsa dove prima c’era il saloon. il bambino si era tramutato in una statua di pietra color cachi. I suoi occhi erano chiusi, ma il lecca lecca giaceva sul prato, ancora degli stessi colori azzurro e bianco.
“È andato via, me” disse ME, anche lei sorpresa dall’improvvisa dipartita del bambino. Ora si trovava seduta sotto un albero di salice. me si alzò dalla sedia, che era rimasta impolverata e sbiancata come prima.
“…e gli avevo portato anche un dolce, che bastardello ingrato” disse, mentre raccoglieva il lecca lecca da terra; tentò di ripulirlo, poi ci ripensò e si mise il dolce in bocca, ancora sporco d’erba.
“Se davvero disgustoso, lo sai?”
“Il sentimento è reciproco, sorella.”
ME accolse con un sospiro quell’osservazione.
“Prima che io me ne vada, mi dici perché eri venuto fin qui, me? Cosa volevi dal bambino?”
“Lo sai, volevo che mi prestasse la sua forza, per sconfiggerlo.”
“Sei uno sciocco me, il bambino non agirà contro di Lui fino a quando Me non lo deciderà. E poi il suo potere è quello della fantasia. Non serve per combatterlo.”
“Non farmi la predica: non siamo in chiesa”
“Sei sicuro me?” Disse ME, mentre il terreno circostante cambiava, trasformando gli alberi in colonne e le nuvole in navate, i coloratissimi uccelli tropicali divennero putti di marmo bianco e la fonte divenne un altare. Sull’altare c’era un presepio in miniatura e nella culla, al posto di Gesù bambino, una piccola statuetta color cachi.
“Assolutamente, sorella”rispose me, mentre tra le panche vuote cominciarono a comparire donne seminude. Dopo un attimo di iniziale incertezza, cominciarono a ballare una danza lasciva e lenta, che parlava di peccato e voluttà, gemendo e contorcendosi una sull’altra.
“Smettila, me.”
“Prima tu, puttana” disse me; lo sguardo ormai perso sulla marea di corpi nudi ai suoi piedi, il membro turgido sotto il tessuto dei jeans.
“Va bene, torniamo all’inizio.” disse ME, mentre tutto scompariva, e il paesaggio tornava a essere quello di una città fantasma del vecchio West.
 
“Sai ME, quello che mi fotte il cervello non sei tu, alla fine noi siamo due opposti: è naturale che ci odiamo. Quello che mi fa incazzare è il nostro capo: passa tutto il giorno con Lui a discutere.” Disse me, stravaccandosi come un vecchio, osceno gatto sulla sua sedia.
“ A proposito dove sono?”
“Laggiù, all’orizzonte, li vedi?” rispose ME.
Appena visibile sopra una duna, il riflesso rosa di un ombrello molto familiare si intravedeva appena, distorto dal calore del deserto.
ME e me rimasero a guardare quell’osceno ombrello cercando di distinguere il loro capo e Lui, senza troppo successo.
 
Nel frattempo, Me camminava assieme al suo ospite nel deserto, addosso solo i pantaloni di un’hakama beige, a petto nudo, i capelli corvini sciolti al vento. Al contrario, il suo ospite sembrava infastidito dal calore del deserto e si riparava dai raggi del sole morente sotto un ombrello rosa, rimanendo al suo fianco, ma scostato di qualche passo. Me aveva solo un occhio per osservare il paesaggio: l’altro continuava a girare tra le dita del suo ospite, come un attrezzo da prestigiatore, ad una velocità allarmante.
“Quindi sei convinto che la vita sia un fenomeno direzionale dotato di scopo, Me?” chiese il suo ospite. Era una voce che faceva venire in mente cose che strisciavano su cadaveri di affogati, ormai gonfi d’acqua; una voce oscura e umida.
L’aspetto non migliorava la prima impressione: da capo a piedi la sua pelle era nera e lucida. Completamente nudo, gli unici suoi accessori erano l’ombrello, chiuso nelle grinfie lunghe come pallide zampe di ragno e l’occhio, dall’iride violetta, che roteava fra le dita della mano libera. Non aveva un volto o dei lineamenti: la sua faccia era un unico pozzo oscuro, senza bocca, capelli o occhi. Da quel pozzo usciva la sua voce.
“Assolutamente no, sono convinto invece che la vita sia un fenomeno privo di causa prima, ma che trova in sé lo scopo stesso della sua esistenza.” Rispose Me, la cui voce era una versione adulta di quella del bambino, pura e argentina.
“Stai forse dicendo che la vita è perfetta?” ghignò il suo ospite, ammesso che un viso senza bocca e denti possa fare qualcosa del genere.
“Che sciocchezza,nemmeno qui esistono cose perfette; dovresti saperlo, Sogno.”
Perfino la sabbia del deserto rabbrividì a sentire il nome della figura sotto l’ombrello rosa.
“Allora cosa credi?” chiese Sogno, con un’espressione di puro terrore sul muso serpentino che gli era ricresciuto quando il nome era stato detto.“Che continuerò a passeggiare con te ancora un’altro po’.”.



Nata come favola, doveva essere la metamorfosi che un Sogno deve compiere per poter essere realizzato. In breve ha però virato verso toni molto cupi, come vedrete dai prossimi capitoli e quindi ho deciso di pubblicarla come spuria, senza un genere di riferimento: per quanto mi sforzi non riesco proprio a dargliene uno.
Come avrete capito ME, Me e me sono il super ego, l’ego e l’id che secondo la teoria freudiana compongono la nostra personalità. Su questa base ho creato tre figure archetipiche, forse troppo. Poiché il terzetto mi sembrava incompleto, ho aggiunto il bambino interiore per rendere il gruppo più realistico. L’immagine di lui e me che fanno le parole crociate è stata la prima a venirmi in mente quando ho cominciato a scrivere questo racconto.

  
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