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Autore: Shadowolf    09/04/2010    2 recensioni
Fissa l’orologio davanti a sé. Le due di mattina. Cazzo.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Tomorrow There'll Be Sunshine And All This Darkness Past'
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Fissa l’orologio davanti a sé. Le due di mattina. Cazzo. Si passa una mano sugli occhi, e poi via sulla fronte; comincia a scostare le coperte cercando di fare il più piano possibile, il più dolce possibile, per non svegliarla. Si agiterebbe soltanto, basta una minima cosa fuori posto a farla preoccupare per lui, per la sua felicità. E questo non lo vuole, perché lei non se lo merita. Non si merita nulla di tutto questo gran casino che lui, e lui soltanto, ha piantato su e che ora se lo sta lentamente divorando, distruggendolo come fosse una droga.

Per fortuna ormai è talmente abituato a questi movimenti notturni che riesce a sgattaiolare via dal letto senza fare il benché minimo rumore, cosicché quando raggiunge la porta e la apre lei si gira dall’altro lato, completamente catturata da Morfeo. Si richiude silenziosamente la porta alle spalle, fa qualche passo e si affaccia alla camera di suo figlio, la cui porta è solo socchiusa; si infila nel piccolo spazio lasciato aperto e si appoggia al muro, incantato come sempre nel guardarlo dormire: è da quando è nato che viene rapito dal suo volto angelico, soprattutto quando lui non può restituirgli lo sguardo. Gli vuole troppo bene, e sa che se si facesse sorprendere in un momento come questo capirebbe in un momento che c’è qualcosa che non va. Non è più un bambino ormai, sta crescendo e per lui suo padre è un libro aperto, contrariamente a quel che avviene di solito. È soprattutto per lui che non sta facendo assolutamente niente, in nessuna direzione, riguardo questa situazione logorante, e se riesce ad accumulare un giorno dopo l’altro in soffitta è sempre grazie a lui, alle volte che gli chiede di fare due tiri a canestro, o di accompagnarlo da qualche parte, o semplicemente di fare una passeggiata in spiaggia; è lui che gli dà la forza di non prendere quella maledetta decisione, quella che manderebbe tutto, ma proprio tutto, a puttane. Sicuro, un’alternativa ce l’ha, un’alternativa c’è sempre, ma è una di quelle di cui faresti a meno, perché ti sembra – anzi, è – impossibile da superare.

Rimane lì per un po’, sposta il suo sguardo dal letto alla scrivania, al MAC, alle penne sparse ovunque, al cappello autografato dei Lakers, allo stereo, ai dischi; allo skateboard appoggiato distrattamente contro l’armadio, alle varie magliette accatastate alla rinfusa sulla sedia, alla tv, alla consolle di cui non ricorda mai il nome quando glielo chiedono, al joystick lasciato sul comodino, alle foto che tiene appese senza un ordine preciso poco sopra la spalliera del letto; e poi di nuovo i suoi occhi si posano su di lui. Sospira a fondo ed esce.

Scende le scale, sempre stando attentissimo a come si muove, lei ha il sonno leggerissimo, basta davvero un niente per svegliarla. Attraversa il soggiorno, va in cucina, tira fuori una bottiglia d’acqua dal frigo e ci si attacca come fosse birra. Le prime volte che il medico gli ha consigliato di farlo gli sembrava una stupidaggine, credeva di non farcela, credeva che finito quel periodo avrebbe smesso; invece no, gli è rimasta l’abitudine e questo è solo un bene. Anche in quel caso, è stata lei ad aiutarlo. Come sempre. Cazzo. Vuol riprovare a smettere di fumare, glielo ha chiesto anche lui, e a lui di solito non riesce a dire di no. Per un po’ c’era anche riuscito, ma da Gennaio ha lentamente ripreso, abbastanza lampante il perché.

Rimette la bottiglia ormai mezza vuota a posto, va nel suo studio, recupera il cellulare che non usa quasi mai dal giubbotto di pelle, lo accende; sbaglia due volte il pin, alla terza lo azzecca. Attende qualche minuto perché ricevi il segnale, poi ancora e ancora con la speranza che arrivi un messaggio, o un avviso di chiamata. È un mese che va avanti con questa commedia notturna. Questo numero lo ha dato a pochissime persone, quelle che sa non lo disturberebbero per stronzate, si illude così che qualsiasi cosa venga segnalata sul display sia degna di esser letta. Passa un quarto d’ora e niente, la sua stessa stanza gli sembra inquietante, forse gli manca anche un po’ l’aria perché gli sembra che ogni respiro che fa gli depositi un masso di qualche libbra sullo stomaco. Prende il telefono, esce di lì, ritorna in cucina ed esce dalla porta posteriore. Fuori l’aria è tranquilla e distesa, c’è una leggera brezza ma non gli dà fastidio, non passano macchine e così riesce anche a sentire le onde rifrangersi sul bagnasciuga poco più in là. È in momenti come questo che ringrazia di aver deciso di vivere in California, perché è Aprile e non fa freddo, e può tranquillamente uscire nel cuore della notte con indosso solo una t-shirt e star bene. A New York cose come questa te le sogni.

Si siede al bordo di un lettino vicino alla piscina, fissa per qualche secondo il sempre muto e vuoto display del cellulare, non succede niente come al solito, sospira e si sdraia. Alza gli occhi verso il cielo, è terso, c’è la luna a metà spicchio circondata dalle stelle. Non c’è inquinamento luminoso da queste parti, non ancora almeno, perciò tutto il firmamento luccica chiaramente, risplende, illumina il mondo sotto di sé quasi a giorno, ma in un modo più tenue, più delicato. Ritorna a guardare il telefono, compone lentamente un numero che ormai sa a memoria (strano, quelli che è riuscito ad imparare da quando ne ha uno si contano sulle dita di una mano), preme il verde e subito dopo il rosso. Non posso, cazzo. Devo resistere ancora. Finché non passa. Devo farlo per mio figlio. Devo guardare oltre, a quello che ho. Devo dimenticare, anche se ora mi sembra impossibile. Sono ormai due mesi e mezzo che mi faccio forza, non posso mollare proprio adesso! Ma il punto è esattamente questo, le prime settimane sono passate come niente, non se n’è accorto neanche, pensava alla sua vita, alla sua famiglia, a tutte le cose fantastiche che gli stavano capitando e che solo dieci anni prima sarebbe sembrato fantasticare ad occhi aperti, o parlare di qualcun altro, e che invece erano diventate realtà, erano diventate le sue. Pensava a tutto questo, si sentiva meglio, credeva di starci riuscendo alla grande, di aver chiuso definitivamente una parentesi, bella quanto si vuole, certo, ma solo una parentesi. Si sbagliava, ovviamente, e se n’è accorto quando ormai era troppo tardi per farci davvero qualcosa, o almeno tentare.

È capitato così, all’improvviso, da un giorno all’altro, qualche settimana fa. Era a casa, suonava il piano, si sentiva felice, a posto con il mondo. Sua moglie era fuori una settimana su a New York per questioni di lavoro, così aveva badato lui alla casa, aveva cucinato un po’ di schifezze varie per sé e per suo figlio, uno strappo alla regola ora che non c’era nessuno a controllarli. Era stata una grande cena, si erano divertiti un sacco a fare le imitazioni, avevano sparecchiato insieme ed ora lui era seduto lì al piano e suo figlio guardava la tv. A lui non piaceva, l’accendeva assai di rado per conto suo, giusto per il Super Bowl o magari gli Oscar quando non andava alla cerimonia. Per il resto niente, solo dvd e blu-ray. La voce alla tv arrivava distintamente anche a lui, il volume era alzato più del necessario perché l’ultima volta che la stavano guardando c’era il giardiniere a tagliare l’erba del prato fuori e non riusciva a sentire nulla, così l’aveva aumentato troppo e quando aveva spento si era dimenticato di riportarlo a livelli normali. Comunque era un po’ sovrappensiero, stava suonando piano delle vecchie ballads country che aveva da poco riascoltato in radio, ma lo stava facendo quasi senza rendersene conto, sorridendo tra sé per la bella serata che aveva trascorso con suo figlio. Alla tv stava parlando una giovane intervistatrice (come nel 75% dei casi) in diretta da Londra, lì era già mattina e in più faceva freddo. Poche parole di benvenuto ai telespettatori e poi la prima domanda per l’ospite (il nome era già stato annunciato in precedenza), la classica sui progetti in cantiere a cui sta lavorando al momento. Una breve pausa (al solito, in cui si pensa a cosa si può rivelare e in quale misura), e poi parla l’intervistato. Bastano le prime tre parole (“Well, thank you...”) a farlo smettere di suonare, a richiamarlo di forza nel mondo reale, a fargli girare la testa in direzione della tv così in fretta che per un attimo teme di essersi appena procurato un torcicollo. Tre misere e banalissime parole udite per puro caso neanche lui sa come perché gli sembri di avere un dannato martello pneumatico in funzione nel petto; si alza, inciampa nello sgabello del piano, riesce a rimanere in piedi, in un attimo è dietro al divano sul quale è sdraiato suo figlio. Guarda quella faccia sullo schermo e deve trattenere con quanta più forza gli è possibile le lacrime dentro di sé.

Si mordicchia il labbro inferiore, l’aver ricordato quel momento gli ha fatto provare ancor più un senso di abbandono misto a frustrazione, sentimenti che mai e poi mai dovrebbero appartenergli, non adesso che le cose stanno davvero girando nel verso giusto. Tira su col naso, torna a fissare il display per qualche secondo; poi è un attimo, un unico, breve, lucido attimo di follia, va al menù e dalle impostazioni rende il suo numero privato, compone quella maledetta sequenza di cifre e stavolta rimane in linea. Uno, due, tre, quattro squilli, non si è manco chiesto che ora possa essere dall’altra parte del mondo, o se possa star disturbando qualcuno o qualcosa. Rimane là, in attesa, non si rende nemmeno bene conto di quel che sta facendo. La mano destra regge il telefono all’orecchio, ma è come paralizzata, fredda, morta, mentre tutto il resto del suo corpo sembra in preda a frenetiche convulsioni, e non è la temperatura a causarle, sa di non avere freddo. Un brivido gli attraversa tutto il petto, guarda fisso davanti a sé, gli sembra che gli tremino perfino i denti in bocca. Non sa quanto tempo se ne rimane così, probabilmente la prima chiamata finisce nel nulla e ci pensa il cellulare, in automatico, a ricomporre il numero al suo posto. Ormai non sente nemmeno più gli squilli, è completamente in trance.

“Hi, who is this?” domanda all’improvviso una voce all’altro capo del telefono, prima di essere coperta dal suono di un clacson. Un’ondata di calore si diffonde subito in lui, lo fa sentire vivo come non gli capitava da mesi ormai, lo fa sentire a suo agio. Abbandona la testa all’indietro sullo schienale del lettino, si porta il telefono al petto e respira profondamente. Un sorriso si fa lentamente largo sul suo viso.

“Hello?” grida di nuovo la voce per sovrastare il mondo che deve avere intorno, così forte che la riesce a sentire anche se ha l’apparecchio distante dall’orecchio, premuto con ancora più forza contro di sé. Passa qualche secondo di attesa, poi subentra il bip-bip della caduta di linea. Alza il telefono davanti ai suoi occhi, si stupisce di avere la vista sfuocata, tanto da non riuscire a distinguere le cifre sullo schermo, ma non importa, gli basta spingere il verde per richiamare l’ultimo numero selezionato. Questa volta non c’è attesa, il tempo di appoggiare il cellulare all’orecchio che la stessa voce di prima prende a parlare, con un tono più autoritario (o presunto tale) e decisamente meno accondiscendente.

“Look, I don’t know who you are...” dice, e a sentire quelle parole gli viene spontanea la replica, immediata anche se la sua voce trema.

“You know who I am...” gli risponde flebile, tanto che l’altro inizialmente non lo ascolta nemmeno e continua a parlare come se non fosse mai stato interrotto.

“... or why you’re... calling...” rallenta però, realizzando d’un colpo d’aver in effetti udito una voce all’altro capo della comunicazione.

Silenzio. Lui sospira, sospira a fondo, ogni sospiro gli fa un male cane ma non c’è molto altro da fare se non starsene lì in silenzio, in attesa delle prossime parole magiche. Anche se totalmente sconvolto per quello che gli si sta muovendo dentro, riesce a cogliere nella pausa dell’altro il momento di incertezza, sta cercando di stabilire se quel che ha appena udito sia vero o solo frutto della propria fantasia.

“Rob?” domanda alla fine, con un’emozione trattenuta quanto più possibile per evitare una delusione, ma che a lui non può in alcun modo sfuggire.

Bingo!, ha appena pronunciato il suo nome, l’unica cosa capace di dargli di nuovo il coraggio di rispondere.

“Jude...” gli fa di rimando in un soffio, prima di lasciare andare un gemito a metà tra il disperato e il liberatorio, che gli sblocca il groppo in gola e permette finalmente alle lacrime di rigargli il volto, silenziose e piene di dolore, tutto quel dolore anche fisico che aveva invano cercato di reprimere nelle ultime dieci settimane, da quando si erano visti l’ultima volta. Non ce la fa proprio a continuare, abbassa il telefono, se lo lascia scivolare in grembo, rannicchia le gambe al petto e comincia a singhiozzare, cerca di trattenersi, si morde perfino sul polso pur di riuscirci ma niente, si vergogna immensamente di sé stesso ma non ce la fa proprio a smettere. Va avanti per cinque minuti, la comunicazione sempre aperta anche se lui non se ne ricorda quasi, è talmente perso dentro di sé da dubitare di aver sentito la sua voce, si chiede se non se la sia completamente inventata giusto per far contento il proprio subconscio. Ne è così convinto che quando la risente si spaventa e per poco non caccia via un urlo.

“Rob? Rob, come on, stop crying please. I-I don’t know what to do, you’re the one who always cheers me up! Please, just talk to me, say something for chrissake!”

Sta cercando, sta cercando pian piano di calmarsi, di ritrovare sé stesso. Perché è vero, io non sono così, non sono il tipo che piange, cazzo! Gli torna in mente lo yoga, prende tre, quattro respiri profondi, rilassa il diaframma, mette i piedi per terra, riprende il controllo di sé stesso. Recupera il cellulare, se lo porta all’orecchio, è pronto per portare avanti una conversazione (almeno lo spera), è calmo adesso. Parla.

“Matter of fact, you’re right, you know. Usually, you cry and I make you smile, that’s what we do. Sorry for the role-change, it’s not gonna happen again. I just… I just didn’t believe I’d hear your voice again.”

“I was thinking almost the same thing about you…”

Quelle parole gli fanno male, sa che sono vere. Ogni sera aveva pensato che chiamarlo, ogni dannata sera da quando avevano rilasciato quella cavolo di intervista a Gennaio, poco dopo che aveva vinto il Golden Globe. Ogni sera di quei maledetti due mesi e mezzo era stato tentato di farlo, anche dopo giornate in cui non gli era tornato in mente nemmeno una volta, e più volte aveva considerato l’idea di prendere il primo aereo disponibile per Londra. Ma alla fine non aveva mai avuto il coraggio di portare a termine questi suoi progetti, perché credeva, era convinto di riuscire a dimenticarlo, anche se dentro di sé sapeva fin troppo bene che si stava pigliando per il culo da solo, era impossibile crederci per davvero. Certo, aveva una famiglia bellissima, stravedeva per suo figlio, ma la verità è che lui gli mancava ogni singolo girono. Gli mancava avere il suo profumo sui vestiti, le sue mani tra i capelli, la sua testa sulla spalla. Gli mancava non poter cingere la sua schiena con il braccio, poggiargli la testa sul petto e sentirlo respirare. Ma soprattutto gli mancava da impazzire il ritrovare il suo sguardo tra tanti, quando era in mezzo ad una folla di sconosciuti o tra amici, gli mancavano quei suoi occhi da piccolo lord che lo facevano sempre sorridere.

“Well, I’ve made it now!” gli risponde, cercando la battuta facile, come ha imparato a fare da Tony Stark.

Silenzio all’altro capo del telefono. Tocca sempre a lui giocare, perché è lui che ha iniziato. Lui che ha ceduto.

“Listen, I don’t really know how to put this out…”

“Just use one verb between the words ‘I’ and ‘you’, it’s gonna work out fine. Oh, I’ll help you even more, it’s four letters, three of them consonants. Make your choice now.”

Sente la voce distesa ora, sollevata. L’ha fatto sorridere, anche se ce l’aveva – e a ragione – con lui. Prende un altro respiro profondo, l’ennesimo della serata ma il primo felice, e si apre anche lui in un sorriso.

“Alright, I guess I know the right answer. It’s…”

“Remember: three words, not more.”

“I miss you.” gli risponde, quasi coprendo le sue ultime parole. Ora che finalmente l’ha ammesso il corpo smette del tutto di tremargli, il cuore riprende a correre più veloce e il sorriso gli si distende da un orecchio all’altro.

“Say it again” gli sussurra il suo interlocutore, e lui sa che ha gli occhi che gli brillano.

“I miss you, I miss you, I fucking miss you… I couldn’t stand one more day not hearing your goddamn voice speaking with that fucking accent. I have a desperately need to see you… I fucking miss you, Judsie.”

Parla proprio così come le parole gli vengon fuori, senza più remore, non ha più paura di niente. Dopo aver sopportato quei mesi in silenzio, di nascosto, per timore che chi gli stava attorno potesse capire tutto, ora si sente invincibile, intoccabile. Sta parlando con lui, ed è solo questo quel che gli importa adesso.

“I miss you, too. I just… I didn’t ever call because I was afraid…”

“That it was all over…”

“Yes. I’ve been such an idiot, I know, but… you… you’re married, got a kid and I, I was afraid that you’d…”

“Come here, Judsie. Please, come here.”

“What!?”

“Just come here. For Easter.”

“Easter is tomorrow here, Rob!”

“Oh, please. You’re an actor, a famous actor! It wouldn’t be such a problem getting a flight to L.A.”

“You don’t understand, I’ve a life here! How I’m supposed to tell my girlfriend I have to come there on Easter? She’s gonna get mad!”

“You’re not supposed to. You’ll take her with you, it’s easy.”

“A-Are you drunk or something? What for?”

“I’m serious. She’s gonna get along well with Susan, they’re gonna go on the beach or out for shopping together and they will totally forget about the two of us. You’re taking her to California, for goddsake, not in Russia!”

Silenzio dall’altro capo del telefono.

“Any other dumb objection?”

“Yes.”

“What?”

“Are you gonna pick us up at the airport?”

“I would, but I’m afraid your girlfriend wouldn’t like my way to say ‘hello’ to you after ten fucking weeks I’ve been not seeing you.”

   
 
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