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Autore: Shadowolf    09/04/2010    0 recensioni
Okay, questa è roba abbastanza datata, periodo tra l'altro in cui ero un po' giù di corda, quindi ecco spiegato il perchè. Non è niente di che, il protagonsita fa un po' il punto della situazione sulla sua vita, senza capirci nemmeno molto.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chuck era in piedi appoggiato contro il muro, fissava senza troppa speranza né convinzione le cifre che la luce laser dell’orologio proiettava sul soffitto. Cazzo, pensò tra sé, fuori ci sono tre gradi. E oggi è 8 marzo. Poi si ricordò che la notte tra il 24 e il 25 Dicembre se ne era stato tranquillamente in veranda con addosso solo una felpa e gli unici pantaloni di pigiama che gli fossero rimasti negli ultimi dieci anni. Quell’anno per la prima volta si era fatto da solo il suo albero di Natale, in miniatura, con le lucine alimentate a pile comprate dall’Ikea. L’aveva fatto perché diceva che altrimenti non sarebbe sembrato Natale, ma in cuor suo sapeva benissimo che l’aveva fatto per avere l’impressione, solo l’illusione, di non essere da solo, in quella casa, la vigilia di Natale. Non che la solitudine fosse qualcosa che lo spaventasse, aveva talmente fatto pratica fin da quando era un ragazzino che ormai non era naturale il contrario. Però a Natale... A Natale non funzionava così, a Natale si sentiva solo anche quando era circondato dalle persone che gli volevano bene, era sempre stata quella, la storia. Così aveva messo su il piccolo alberello, l’aveva addobbato ascoltando un doppio cd di musiche a tema che lui stesso si era preparato, tutte canzoni sulla magia del Natale, sulla neve che cade e su Rudolph, la renna di Santa Claus. Soltanto due canzoni parlavano di qualcuno che rimane solo, durante la notte, e non era certo un caso che le avesse scritte il suo cantante preferito. Cantante, poi. Che assurdità. Era un poeta, un estremo conoscitore della solitudine. Ecco perché scriveva canzoni che sembravano così vive, così vere.

Si scostò dalla parete e tornò nella sua stanza, si sedette sul letto e riprese a fissare fuori dalla finestra. Poi si sdraiò e prese a fissare il soffitto. Fuori aveva cominciato a piovere. Alzò gli occhi verso il soffitto e sentì il suono delle gocce spezzarsi contro la superficie ruvida del tetto. Spesso si chiedeva se fosse depresso. Normalmente la gente non si pone certe domande da sé, ma lui non aveva nessun altro che gliele facesse, quindi ci pensava da solo. La risposta che si dava con maggiore frequenza era che no, non era depresso, soffriva di un qualche disturbo bipolare. Ed era anche meteoropatico, come se non bastasse. Non era un caso che adesso stesse buttato sul letto pensando al nulla, fissando il vuoto. Fuori pioveva, e dava l’impressione di voler peggiorare. Il problema, con questo genere di disturbi, è che o accetti di umiliarti e vai da uno psicologo, nel qual caso la gente comunque ti considererà malato (se non pazzo), o fai finta di niente e la gente si convince che hai qualche rotella fuori posto. Mentre se, per esempio, una persona soffre di emicrania non c’è problema, perché quello è un disturbo fisico, e quindi è curabile, perché la tua testa non ti impedisce di prendere farmaci per farlo smettere. Nessuno capiva che il genere di disturbi di cui soffriva lui erano pari a delle malattie fisiche, e che quando capitavano quei momenti non c’era un rimedio opportuno, se non sperare che passassero presto. No, gli dicevano che era pigro, svogliato, pesante. E lui non aveva una risposta da dare in cambio.

Aveva avuto una ragazza, un tempo. Erano stati insieme per un anno e mezzo, due al massimo, prima che lei si stancasse di quei sabato sera passati a gironzolare da una città all’altra, o seduti nel solito vecchio pub, o passeggiando sul boardwalk ascoltando le onde abbattersi sulla sabbia. Ma, soprattutto, alla fine non ne aveva potuto più di tutte le volte in cui gli aveva chiesto attenzione e lui aveva preferito concentrarsi sui suoi film, sulla sua musica, sulle sue parole. Quando l’aveva lasciato era rimasta un attimo sulla soglia di ingresso della sua casa, lo aveva fissato, e aveva sperato che dicesse qualcosa, qualsiasi cosa per convincerla a restare. Lo stava pregando perché lo facesse, con lo sguardo. Ma lui se n’era rimasto in quella sua vecchia e rattoppata poltrona, con la sua solita penna in bocca, a fissare il vuoto. Ed era allora che era successo il fatto. Mentre lei parlava, l’unica cosa che riuscì a dirle per tutta risposta fu se per caso fosse stata così gentile da chiudere la porta, una volta uscita. Così quegli stessi occhi che un attimo prima gli stavano dicendo che lo amava ancora, il momento dopo erano pieni di odio, di frustrazione per non essere riuscita a cambiarlo, a smuoverlo. Si era diretta a grandi passi verso di lui, urlandogli contro parole che non sentì nemmeno, e aveva cominciato a smuoverlo, sempre più forte, per farlo costringere ad alzarsi, a guardarla negli occhi. All’inizio oppose resistenza, ma poi lei passò ai pugni, e fu costretto ad alzarsi, perché la sua ormai ex ragazza aveva alle spalle anni di pugilato, e sapeva dove colpire per far male. Dove non era riuscita con le parole, riuscì con la forza. Chuck incrociò il suo sguardo per un attimo, e subito dopo venne colpito dalle quattro nocche della sua mano destra direttamente sul naso. Sentì un dolore lancinante esplodergli dentro, solo in parte fisico, e in quel momento capì cosa Jenny gli avesse tentato di spiegare in tutti quei mesi. Cadde all’indietro, mise male la mano d’appoggio e un leggero crack invase la stanza, urlò come mai aveva urlato prima mentre guardava inerme il sangue scivolargli addosso, sulla sua adorata maglia bianca degli Yankees; si lasciò andare a terra e rimase a guardare il soffitto ansimando sempre più forte. Vide Jenny che si chinava preoccupata su di lui, ma mise la mano ancora sana davanti e le disse di andar via. Lei lo guardò un istante ancora, non trovò i suoi occhi, e allora raccolse la sua borsa da terra e se ne andò, questa volta senza girarsi. Chuck rimase per terra ancora a lungo, fin quando non si sentì abbastanza calmo da alzarsi in piedi ed andare all’ospedale.

Gli erano tornate in mente tutte queste cose mentre se ne stava lì a fissare il soffitto, quando sentì bussare alla porta. Non aveva molta voglia di andare ad aprire, e meno ancora di vedere gente, ma dal modo in cui il toc-toc si ripeteva aveva capito chi era e sentiva che, in quel momento, era l’unica persona al mondo che volesse davvero vedere. Si alzò e senza chiedere l’identità della persona al di là della porta aprì, trovandosi davanti come si era aspettato Ted.

“Sapevo che sarei dovuto passare” lo salutò.

“Sapevo che saresti passato” gli rispose, e si fece di lato per farlo entrare.

“Dio santo, Chuck, non ti puoi ridurre così ogni volta che cambia il tempo”

“Andiamo, non farmi incazzare, lo sai che non dipende da me”

“Certo che se provassi a cambiare atteggiamento...”

Chuck si fermò a queste parole, e si voltò a fissarlo.

“Credo che tu non volessi entrare, dopotutto” gli disse a denti stretti, avvicinandosi al suo volto.

Ma Ted non indietreggiò, né distolse lo sguardo. Ormai lo conosceva talmente bene da sapere che non gli avrebbe mai fatto male, neanche per sbaglio. Non quel male lì, almeno. Rimasero a fissarsi per qualche secondo, prima che Chuck capitolasse e gli poggiasse la testa contro il petto. Ted era un po’ più alto di lui, ed ogni volta che l’altro gli si abbandonava contro si ritrovava con il mento vicino alla sua guancia, fattore non di poco conto perché gli permetteva di parlargli dritto all’orecchio.

“Sei un arrogante di prima categoria” gli disse piano.

Chuck rimase fermo in quella posizione, respirava a fondo, cercava di calmarsi. Le altre persone non capivano quanto frequentemente era arrabbiato, perché spesso riusciva a mascherarlo sotto l’indifferenza, sotto la sua calma apparente. Ted però lo conosceva da un bel po’ di anni, e sapeva la verità, sapeva che quando respirava così forte c’era qualcosa che non andava.

“Chuck,” gli disse chinando la testa per trovare il suo sguardo, “che c’è?”

Quando si incontrarono per la prima volta fu qualche giorno dopo che Jenny gli aveva rotto il naso e spezzato (anche se indirettamente) il polso; era un venerdì di fine autunno, non troppo freddo per fortuna, e Chuck se ne stava seduto su una di quelle panchine di pietra che ci sono sul boardwalk a guardare il movimento delle onde e il sole che lentamente andava tramontando. Aveva la fascia che sorreggeva il gesso appesa al collo, e i piedi appoggiati alla ringhiera davanti all’Oceano. Si era portato dietro una bottiglia di birra, ed ora sedeva a berla. Era impegnato ad impedire al suo cervello di pensare, così non si accorse del tipo che si sedette sulla panchina e si accese una sigaretta, tirando sporadiche boccate di fumo e scrivendo ogni tanto una parola su un piccolo block-notes nero che si era cavato dalla tasca posteriore dei jeans. Dopo una ventina di minuti Ted gli chiese se avesse una penna, perché la sua non andava più. L’alcool sembrava non avere effetto su Chuck, non diventava ubriaco, solo più incline a far conversazione. Gli porse la penna e gli chiese che cavolo avesse da scrivere di tanto importante.

“Sono solo stanco, ecco tutto” gli rispose, e si staccò da lui, precedendolo in salotto e sprofondando nella poltrona, sempre quella.

Ted restò per qualche attimo a guardarlo, le mani in tasca, appoggiato al muro, cercando di decifrare cosa stesse passando per la testa di Chuck. Quando ormai stava per rinunciare e mettersi seduto sul divano di fronte a lui, Chuck prese a parlare.

“Mi è tornata in mente Jenny prima” gli disse, guardando fisso davanti a sé.

Ted aspettò, aveva imparato che riempire quel vuoto non portava a niente. Dopo un po’ Chuck continuò.

“Quando se n’è andata. Quando mi ruppe il naso. Quando mi slogai il polso.”

“È stato quasi sei anni fa, Chuck.”

“Non ci conoscevamo.”

Ted teneva gli occhi fissi su di lui, cominciava a preoccuparsi perché gli sembrava come in trance, e sapeva che di solito non era una cosa positiva.

“Se ci fossi stato tu, le cose non sarebbero andate così.”

“Così come?”

“Così.”

Di nuovo silenzio. Ted aveva voglia di andar lì ed abbracciarlo, con quei suoi capelli tutti spettinati e lo sguardo perso nel nulla gli sembrava davvero un cucciolo, ma farlo non avrebbe portato ad una soluzione, non avrebbe portato neanche ad una spiegazione.

“Hai una sigaretta?” gli chiese Chuck dopo un po’.

“Ho smesso.”

“Già.”

“Sei stato tu.”

“Almeno una cosa buona l’ho fatta, eh?”

“Avanti, Chuck, dimmi cos’è questa storia.”

“La mia vita fa schifo.”

Ted trasse un lungo sospiro, prima di rispondere.

“Benvenuto nel XXI secolo...”

“No, sul serio. Sono uno psicolabile, sono riuscito a mandare all’aria l’unica relazione che avessi mai avuto!” Chuck cominciò a gridare.

“È stato cinque anni fa, cinque anni fa! E non è vero che sei malato, sei solo più sensibile degli altri, ecco cosa.”

“Più sensibile? Bel modo di essere più sensibile, se l’unica cosa che ti riesce a scuotere è un pugno sul naso così potente da rompertelo!”

“Mi dici perché ti è tornato in mente questo fatto oggi?”

“Non c’è una ragione, m’è tornato e basta.”

“Andiamo, non mi prendere in giro! Non ci credi neanche tu, le cose non capitano per caso.”

“Invece è così. Anzi, forse non lo è, ma sai una cosa? Me ne stavo lì seduto a pensare ad ogni schifo di Natale che passo da solo e poi mi è venuta in mente lei.”

Ted rimase spiazzato da questo: ancora una volta cercò il suo sguardo ma non lo trovò.

“Cristo, Chuck, mi avevi detto che andavi dai tuoi per Natale...”

In quel momento Chuck alzò la testa e guardò in direzione di Ted; aveva gli occhi lucidi.

“Mi dispiace, Ted.” disse, e le lacrime cominciarono a scendergli silenziose lungo il viso.

Ted provò a rimanere impassibile, ma si sciolse quasi all’istante; si staccò dal muro e si accovacciò vicino a Chuck.

“Hey, non fare così...” fece in tempo a dire, prima di ritrovarsi la testa di Chuck sotto il mento. In quel momento gli tornò in mente sua madre e la sua infanzia, di come lei lo calmasse quando si svegliava nel cuore della notte in preda agli incubi. Così gli cominciò piano ad accarezzare i capelli, e a sussurrargli: “Calmati ora, va tutto bene, ci sono qua io...”

   
 
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