Volevo
solo vivere
Lo guardavo
da quella finestra mentre passeggiava in giardino, con
la brezza che lasciava scivolare giù dai rami degli alberi una cascata di
petali rosa confetto. Il suo viso bianco e fresco, che sapeva di vita, mi incuriosiva molto. Sembrava una persona
gentile, calma e ben educata. Non avevo ancora potuto guardarlo bene
negli occhi, ma quando ciò avvenne, scoprii il
significato della parola “dolcezza”.
Non avrei
mai dovuto lasciare che quello sconosciuto mi guardasse in viso, benché io lo
stessi spiando di nascosto, fu un avvenimento fortuito, che neppure riuscii a prevedere.
Perché il
mio volto aveva iniziato a scottare?
Mi posai le
mani sulle guance.
Subito dopo
mi resi conto che c’era dell’altro.
Perché il
mio cuore stava battendo così forte?
Mi posai le
mani sul petto.
Non avevo
mai provato una cosa simile. Tant’è che io stessa non
riuscivo a dare un titolo a quella strana sensazione. Il prete che mi teneva sotto sorveglianza mi avrebbe di sicuro sgridata. Eppure io non avevo fatto niente di male, ma in realtà anche
spiare di nascosto quel giovane sconosciuto non mi era consentito.
Mi dissero che per un po’ di tempo non dovevo più guardare
dalla finestra.
Ubbidii.
E poi,
inaspettatamente, un giorno lui venne a farmi visita. Fu per me quella che le
persone normali chiamano “sorpresa”.
Passeggiamo
a lungo nel cortile del palazzo, e parlammo di tante
cose. Mi insegnò i nomi di ogni fiore, e lo fece con
pazienza, benevolenza.
Per lui ero
buffa. Non sapevo niente, o quasi, del mondo che mi stava attorno. Avevo
bisogno di essere guidata, proprio come una bambina, di essere presa per mano, e lui lo fece. Quando le sue dita s’intrecciarono con le mie, mi sembrò di ritornare
in vita. Era da tempo, ormai, che nessuno mi toccava più le mani. Erano anni,
ormai, che nessuno più aveva l’ardire di sfiorarmi anche solo con la punta di
un dito. Temevano di trasmettermi, come la chiamavano loro, la “voglia di vivere”, mentre io dovevo rinunciare a questo mondo e non
avere più legami con nessuno.
Tra un
pensiero e l’altro ritornai in me, ricordandomi amaramente di essere una fanciulla delle corde. Ritirai la mano, lui mi guardò con
curiosità soltanto, ma garbatamente non aggiunse altro.
Mi ero innamorata.
Ecco
cos’era quella strana sensazione.
Ma io non
potevo farlo. Dovevo adempiere al mio dovere.
Mi avevano
insegnato fin da piccola a non amare mai nessuno. Però nessuno mi aveva
spiegato come scacciare l’amore se io mi fossi veramente
innamorata di qualcuno.
Successe
ancora. Un’altra volta ci incontrammo. Mi portò in
cortile, dopo essere venuto nella mia cella, e lì parlammo ancora. Stavolta i
fiori non centravano nei nostri discorsi.
Mi lasciai
sfuggire qualcosa, riguardo al mio compito, e lui si rattristò. Forse aveva già
capito tutto.
Mi
abbracciò, mi strinse così forte che per un attimo desiderai di vivere.
Già, perché io non lo avevo mai desiderato prima d’ora.
Può una
persona scegliere di non avere desideri?
Può una
persona scegliere di non vivere nonostante essa sia ancora in vita?
Me lo sono
chiesto tante volte. Ma non riuscivo a darmi una
risposta.
Prima di
incontrare lui, io questo non lo sapevo.
Prima di
incontrarlo ero vuota.
Ero solo
una figura di carne a cui le ancelle facevano indossare tutti i giorni un
kimono bianco.
Nulla più.
In verità,
non mi sentivo neppure di essere una persona. Ero come un grande oggetto
ornamentale che guarniva quella cella.
Non mi era
consentivo fare nulla, nella mia esistenza c’era una lunga scia di obblighi, regole e divieti da rispettare solennemente.
Mi sentivo
legata, benché io non avessi corde indosso. Eppure io
appartenevo oramai a loro.
Innegabilmente.
Ed
innegabilmente, ancora corde attorno ai miei polsi. Tutto il giorno. Mi
esercitavo a non sentirne il peso, per ore ed ore. Seduta a fissare il nulla da dietro a quella frangia che spesso mi
accecava gli occhi. Così li abbassavo, li chiudevo
per non sentire più dolore. Isolata da ogni cosa, con essi
anche il mio cuore si chiudeva.
Non ho mai
pianto una volta. Non potevo farlo, per il rituale era
sinonimo di debolezza.
Non ho mai
detto basta o chiesto di essere slegata anche solo per distendere le gambe.
Loro non avrebbero mai acconsentito perché presagio di sventura.
E quando
una volta ebbi la dabbenaggine di sorridere ad una delle ancelle che veniva a porgermi il pranzo, fui severamente richiamata.
Così, da quell’istante smisi di farlo.
Ho vissuto a lungo con una vita che non era più la mia. Una vita che
non mi apparteneva.
Ma da
quando cominciai a desiderare qualcosa, tutto cambiò improvvisamente.
Dapprima in
bene.
Poi in
male.
Non avevo
mai pensato di incontrare qualcuno che mi avrebbe distolto dall’unico scopo a
cui ero indissolubilmente legata.
Lui non mi
trattava come una reliquia umana il cui corpo nudo veniva
fasciato ogni mattina da vesti bianche come il latte.
Per quello
straniero io ero una persona.
Una
ragazza.
Sì, lui mi
fece sentire come una ragazza che poteva avere la sua volontà, i suoi sogni, le sue speranze.
E furono
proprio queste ultime che mi fecero desiderare con entusiasmo di restare in
vita.
Per lui.
Per vederlo
ancora sorridere.
Per
sentirlo ancora chiamare il mio nome.
Quel
desiderio fu la rovina di ogni cosa.
Non lo
rividi più da quel giorno.
I preti mi dissero che era dovuto partire.
Ma il
suono delle loro voci mi fece male al cuore.
Non mi
aveva neppure salutato. Forse non ne aveva avuto il
tempo.
Però una
persona con quel sorriso così gentile, penso che lo avrebbe trovato.
Eppure io
mi tormentavo in ogni istante della giornata, mille perché affollavano la mia
mente, cento ricordi riempivano le mie ore passate chiuse in quella cella buia
e lignea.
Pensavo a
lui, a quello straniero. Provavo rammarico, forse rabbia verso me stessa. E quando cercai di rimembrare il giorno in cui lo vidi per
la prima volta nel giardino, bagnato da quella cascata di petali rosa, il
dolore al petto aumentò a dismisura, e quei pensieri mi arrecarono dolore.
Nient’altro che dolore.
Forse aldilà delle mura di palazzo Himuro,
quello straniero aveva una famiglia a cui volere bene. Perché
mai avrebbe dovuto perdere tempo con una persona che presto non ci sarebbe
stata più? Con me, una fanciulla sacrificale.
Una delle
tante.
L’ennesima sacerdotessa delle corde che futuro davanti a sé non ha.
Sì, perché quando una di noi nasce, sa che la sua permanenza su questa
terra non sarà lunga.
Tutte le
ragazze predestinate come me, convivono sapendo che un domani non ci saranno.
Perché il nostro destino è non avere futuro.
Viviamo nel
passato, legate a quei ricordi che ci fanno compagnia quando
ci sentiamo più sole che mai, e poi continuiamo ad esistere nel presente.
Ma
nessuna di noi potrà mai immaginarsi come sarà il futuro.
Perché
esso non ci sarà.
Io avrei
voluto però averne uno. Non desideravo altro.
Forse,
quello straniero era andato via perché i preti avevano intuito qualcosa.
Per il mio
bene, anzi, per il bene della cerimonia stessa, lo
avevano allontanato da palazzo.
Da me.
Dalle mie
mani che non smettevo mai di fissare nelle ore morte della giornata, quando il
suo ricordo più profondo mi assaliva all’improvviso.
Spesso ho
desiderato che lui me le stringesse ancora, come quella volta. La prima ed
unica volta.
Ma sapevo di dovermi assoggettare al volere della rassegnazione.
Perché non l’avrei più rivisto. E
c’era qualcosa in me che mi faceva credere a ciò.
Scoprii la
verità una settimana dopo.
Credetti
di impazzire.
Mi assalì
una voglia incontrollabile di urlare.
Ma dovetti
contenere in me quelle grida.
Tutto quel
male, tutto quel dolore. Sempre e solo dolore.
E consumata
da esso giorno dopo giorno, aspettai in silenzio. Muta
come non lo ero mai stata in tutta la mia non vita.
Il rituale
si sarebbe compiuto molto presto.
Ma io non
volevo più essere una fanciulla delle corde. L’ennesima.
Volevo solo
che qualcuno mi slegasse.
Tuttavia al
tempo stesso pretendevo di adempiere al mio dovere
perché questo era il mio compito. O forse, il mio era
più un volere vincolato, quello di portare a termine il rituale.
Eppure…
Ciò che desideravo,
era solo restare con lui.
Chiedevo solo
di vederlo ancora una volta. Una soltanto.
Forse in
questo modo sarei riuscita a placare il mio animo inquieto e a rinunciare alla
mia vita.
Anche se, oramai, grazie a lui non volevo più morire.
Ho imparato in pochi attimi il
significato di parole come amore, gioia e libertà.
Cose che comunemente si cominciano a
conoscere fin da bambini.
Avrei potuto riversare questi
sentimenti alle persone che mi avevano in qualche modo voluto bene.
Un bene strano agli occhi degli
altri, ma per me, che non avevo mai ricevuto affetto da nessuno, era pur sempre bene.
Non me ne hanno dato la possibilità.
Non hanno accolto la mia richiesta.
Hanno tutti finto di non sentire.
Ed ora loro proveranno quello che ho provato io in tutti questi anni.
Non avranno
neppure il tempo di gemere, perché facendo ciò, da me non otterranno nient’altro
che dolore.
Perché io volevo essere salvata, e non sacrificata.
Fine
Kirie.
Solo e
semplicemente Kirie. Senza dubbio la mia sacerdotessa
preferita.
Cosa
aggiungere? Purtroppo questo è uno dei personaggi meno amati della saga. Sono
in molti a preferire Sae e Reika.
Soprattutto la prima. Niente in contrario… Però, a storia di Kirie è stata quella che mi ha fatto provare più dolore
delle altre.
Il motivo è
uno soltanto: quando lei dice “I don’t want to die!”
in una scena dell’ultimo capitolo che si chiama proprio come lei. Ebbene, Kirie a differenza delle
altre due, non voleva morire. E ce lo ha comunicato
con la sua stessa voce, e fatto capire più volte.
Nel secondo
capitolo, Sae si vedeva chiaramente che voleva
diventare un tutt’uno con la sorella, mentre nel
terzo, Reika non aveva fatto granché per opporsi al
rituale. Sembrano in un certo senso entrambe consenzienti, anche se la cosa
ovviamente le spaventa, però dentro di loro sentono che va bene così.
Kirie al
contrario è l’unica che fa del tutto per opporsi. Piange, cerca di dimenarsi, e
soprattutto durante il rito la si vede soffrire
fisicamente più delle altre, proprio perché non preparata a ciò.
A me fanno
rabbia i preti che, nonostante lo sapessero, hanno voluto lo stesso
sacrificarla, giusto per fare un tentativo. Ma come si può costringere una
persona a morire in quel modo, quando sai che ella ha
cambiato idea e desidera vivere?
E poi ciò
che hanno fatto a quello straniero, è orribile. Se
penso a quanto lei abbia sofferto in completa solitudine, dopo aver scoperto la
verità, mi sale l’amaro in bocca.
Tutto ciò
che voleva, era solo restare con lui. Lei dice che voleva
rivederlo ancora una volta. Una banalissima richiesta, ma purtroppo sappiamo
tutti com’è andata.
Penso che Kirie sia, tra le tre sacerdotesse (evito di menzionare la
quarta, dato che non la conosco come le altre), la più “umana”, quella che ha
mantenuto una lucidità mentale maggiormente elevata. Quella
che a differenza di Sae e Reika,
è stata uccisa non da un rituale, ma dalle persone che ne facevano parte.
Tuttavia, ciascuna
di loro ha una particolarità diversa che le rende uniche agli occhi di ognuno
di noi. E, nel mio caso, Kirie
lo è per me perché è stata quella che mi ha fatto sentire dentro più emozioni.
Ho creato
questa fanfic per darle maggiore luce. Se lo merita.
Spero di
aver fatto un lavoro decente, ma soprattutto spero vivamente di aver
ricostruito al meglio la sua “non vita” da ragazza che voleva essere salvata e
non sacrificata.
Grazie come
sempre a tutti coloro che recensiranno la storia! Ogni
commento sarà più che gradito perché mi darete l’opportunità di conoscere persone
che stimano Kirie come me!
Un forte
abbraccio a tutti voi!
Niko niko,
Botan