La
beauté
Je suis belle, ô
mortels! comme un rêve de pierre
Et mon sein, où
chacun s’est meurtri tour à tour,
Est fait pour
inspirer au poëte un amour
Éternel et muet
ainsi que la matière.
Je trône dans
l’azur comme un sphinx incompris;
J’unis un cœur de
neige à la blancheur des cygnes;
Je hais le
mouvement qui déplace les lignes,
Et jamais je ne
pleure et jamais je ne ris.
Les poëtes,
devant mes grandes attitudes,
Que j’ai l’air
d’emprunter aux plus fiers monuments,
Consumeront leurs
jours en d’austères études;
Car j’ai, pour
fasciner ces dociles amants,
De purs miroirs
qui font toutes choses plus belles;
Mes yeux, mes
larges yeux aux clartés éternelles!
Charles Baudelaire
LA BELLEZZA
“A chi leggerà:
Il mio nome è Elena, e vi dico addio.
Ricordo i lunghi
pomeriggi passati, anno dopo anno, per tutta la mia infanzia, seduta
sul letto,
fissando il mio riflesso nel grande specchio intarsiato della camera di
mia
madre, mentre lei mi pettinava lentamente, con cura. Ricordo il
contrasto del
vecchio pettine d’avorio nei miei capelli neri e le parole
che mia madre mi
mormorava. Mi diceva che ero bella, bella come lei non era stata mai e
come mai
sarebbe diventata, bella e inquietante come una notte senza luna. Mi
parlava di
quella Elena di Troia e della guerra scoppiata per lei, sorridendo
mentre
sussurrava che anche per me uomini si sarebbero immolati, felici di
morire al
mio comando, stregati dalla mia bellezza; e mi chiamava piccola sirena,
bella e
pericolosa come il mare profondo.
Io le credevo. Lei
era la mia dea, bella e perfetta, e dalle sue labbra non poteva uscire
che la
verità. Mi osservavo riflessa nello specchio per quelle
lunghe ore, mentre il
pettine scivolava nei miei capelli come in una cascata
d’acqua nera e il mio
sguardo diventava sempre più freddo e altero.
Sono cresciuta come
un’aristocratica, con la stessa superbia e lo stesso
contegno. Andavo a scuola,
ma non mi mescolavo agli altri bambini: ero loro superiore, sia per
aspetto che
per provenienza. Il lavoro da modella famosa e ricercata di mia madre
ci
permetteva di vivere quasi nel lusso e mi dava un’altra
ragione per sentirmi ad
un livello più alto di tutti i miei compagni di scuola.
Ripensandoci adesso,
credo che il fatto che io sapessi di essere bella mi rendesse ancora di
più
tale: il mio comportamento freddo e sprezzante da nobildonna era, ed
è sempre
rimasto, uno dei miei tratti distintivi, uno degli elementi che mi
elevavano
dalla massa.
Penso che, a partire
da quel tempo, io andassi assomigliando sempre di più ad una
fotografia, e
quanto fosse vero l’avrei capito solo qualche anno dopo.
Durante quegli anni,
prima della mia adolescenza, ero spesso sola in casa. Tornavo a casa
subito
dopo la fine delle lezioni, non volendo perdere tempo chiacchierando di
cose
stupide o facendo giochi stupidi, come invece facevano gli altri. Io ne
ero
superiore. Però a casa non c’era quasi mai
nessuno: mia madre spesso era fuori
per lavoro, e nessun’altro oltre a noi abitava nella nostra
casa. Era una villetta
appena fuori città, grande e molto curata, di una gelida
eleganza che
caratterizzava anche me e mia madre.
A volte sentivo la
donna delle pulizie borbottare tra sé che sembrava quasi un
museo, o una casa
di bambola, che era troppo grande solo per due persone, e quindi alcune
stanze
erano praticamente disabitate, anche se arredate fin nel dettaglio. La
sentivo
lamentarsi del fatto che si sentiva a disagio in un posto
così asettico e
freddo, come senza un’anima, e domandarsi come potessimo
vivere in un luogo del
genere.
Non capiva, non
poteva capire. Se quella era una casa di bambola io ne ero la bambola
regina,
che si muoveva senza fare un suono nel suo regno di ghiacci e broccati
e si
sedeva sul letto, davanti al grande specchio, ad aspettare immobile e
impassibile la sua dea, ogni pomeriggio per tanti lunghi anni.
Ero una bambina
fredda come l’inverno, quindi, con l’apparenza e il
portamento di una bambola
di porcellana e che non lasciava trasparire emozione alcuna.
Dietro la mia
facciata, però, cominciavo ad essere inquieta.
Mi rendevo conto che
mia madre stava invecchiando: vedevo le prime rughe comparire sul suo
viso,
qualche raro capello bianco iniziare a striarle la lunga capigliatura
castana,
il suo corpo farsi piano piano più pesante. Ne ero
spaventata. Sapevo che un
giorno sarebbe toccato anche a me; è un processo
inesorabile, che non lascia
scampo: aveva toccato anche mia madre, la mia bellissima madre, la mia
dea. Per
arrivare addirittura a lei doveva essere così.
Ne avevo paura, una
paura atavica e terribile. Non passava giorno senza che cercassi di
trovare un
rimedio, un argine allo scorrere del tempo, ovviamente senza alcun
risultato.
Fu in quel periodo
che iniziarono ad arrivarmi le prime proposte per servizi fotografici,
da parte
di persone che conoscevano mia madre. E io, vedendo me stessa catturata
nell’immagine per un istante eterno, immutabile,
mi sentivo in qualche modo più al sicuro.
Mi gettai nella
carriera di fotomodella appena mi fu possibile: la scuola non mi
interessava,
per cui la lasciai senza esitazioni appena a sedici anni. Non avevo
niente che
mi legasse né al luogo, né alle persone che avevo
conosciuto là.
Mi trasferii in
un’altra città due anni dopo, per il mio lavoro.
Vivevo da sola, in un
appartamento che non aveva niente a che vedere con la mia vecchia casa,
ma dove
comunque mi trovavo bene: era il mio regno pieno di cristalli, bambole
e
fotografie, piccolo ma bianco e perfetto. Era la casa di bambola in
miniatura.
Non frequentavo
nessuno, naturalmente, se non quando ne ero costretta: non ho mai amato
mescolarmi alla gente, mi è sempre sembrato solo una perdita
di tempo e una
fonte di nervosismo. I miei colleghi, i fotografi e tutti coloro con
cui avevo
a che fare per via del lavoro erano semplicemente
l’equivalente di ciò che
erano stati i miei compagni di scuola o i miei insegnanti: presenze
necessarie,
ma non importanti. Non c’era nessuno di veramente importante
nella mia vita,
nessuno con cui valesse la pena lasciar scorrere via il tempo.
E poi, avevano paura
di me. Gli sguardi che mi venivano rivolti erano all’inizio
di incomprensione
profonda, che poi degenerava in inquietudine, e nelle persone
più deboli in
vero e proprio terrore. C’era una ragazza, una bambinetta
viziata e coccolata,
che cercava in tutti i modi di evitare di incontrarmi, arrivando al
punto di
rifiutare di lavorare con me, dicendo che lei posava con esseri umani,
e non
con mostri. Povera sciocca, non aveva capito niente di me. Come se mi
fosse
importato qualcosa di lei.
Mi avevano dato
della pazza, apertamente e non, ma l’unica reazione di cui li
avevo degnati era
stata la mia espressione di ghiaccio. Potevano dire quello che
volevano, non mi
interessava; le fotografie c’erano ancora, la mia bellezza
continuava ad essere
immortalata, con la mia pelle bianca e i capelli scuri che risaltavano
su
fondali dai toni cupi.
Per quanto riguarda
mia madre… beh, certo, mia madre c’era. Veniva a
trovarmi quanto più spesso
potesse, e mi chiamava ancora piccola sirena accarezzandomi i capelli.
Ma… non
era più la stessa cosa. Da quando, un giorno, avevo visto su
di lei i segni e
gli effetti della chirurgia plastica, il mio rispetto e la mia
adorazione per
lei erano crollati. Mia madre non era più la bellissima dea
della mia infanzia,
non era più la custode della casa di bambola: ora si era
trasformata nella
pallida imitazione della se stessa di un tempo, travolta dal fiume
degli anni a
cui opponeva una diga fatta di miseri ciottoli, e sembrava soltanto una
vecchia
bambola rattoppata e imbellettata. Ridicola.
E io… io non volevo
finire come lei.
La paura degli anni
e del tempo, addormentatasi per un poco nelle mie fotografie che mi
osservavano
con occhi freddi e scuri, immobili, fisse e perfette
dalle pareti, apparve di nuovo più forte che mai. Le
immagini non bastavano
più, perché il mio corpo avrebbe comunque
iniziato la sua discesa, e allora
anche l’immutabile sarebbe divenuto solo un ricordo,
confrontabile con il
presente caduto. Come fare, dunque, come fare? Era un tormento che mi
accompagnava costantemente.
Avevo pochi svaghi,
li trovavo inutili, facenti parte di quel mondo mortale che temevo e a
cui non
volevo appartenere. L’unica cosa a cui mi dedicavo con la
stessa passione del
mio lavoro era la lettura: ero affascinata dai mondi, dalle intere
esistenze
che andavano a tracciarsi sulla carta, dal potere delle parole che
davano la
vita a qualunque cosa e la rendevano eterna e compiuta in quelle stesse
pagine.
E, proprio
curiosando pigramente in libreria come facevo spesso, un giorno trovai
l’imbocco per l’uscita da quella situazione di
angoscia continua in cui mi
trovavo da tempo ormai: aveva la copertina di un libro di poesie di
Baudelaire
e si trovava in una delle pagine anonime di metà libro. Era
un sonetto poco
conosciuto tratto da ‘I Fiori Del Male’, una poesia
che mi stregò sin dalla
prima riga.
Comprai
immediatamente il libro e tornai a casa.
Sulla parete bianca
vicino al mio letto ricopiai in bella grafia queste parole:
La Bellezza
Sono bella come un sogno di pietra, mortali!
E il mio seno, ove ciascuno di volta in volta
s’è contuso,
È fatto per ispirare al poeta un amore
Eterno e muto come la materia.
Come sfinge incompresa io troneggio
nell’azzurro;
Unisco un cuore di neve al candore dei cigni;
Odio il movimento che scompone le linee,
E non piango né rido, mai.
I poeti, davanti alle mie grandi pose,
Che sembro imitare ai più fieri
monumenti,
Consumeranno i loro giorni in studi austeri;
Perché io, per affascinare questi docili
amanti,
Ho dei puri specchi che rendono tutte le cose
più belle;
I miei occhi, i miei grandi occhi in eterno
splendore!
Questa
poesia è
stata la via che mi ha condotto fino a qui, fino a oggi.
Piano piano, passo
dopo passo, tutto mi apparve sempre più chiaro,
finché non capii completamente
qual è il modo per arrivare
all’eternità. E allora iniziai a compiere quanto
necessario.
Diventai veramente
una sirena, come mi cantava mia madre quando ero bambina, bella e
pericolosa
come l’Oceano. Avevo il potere di tessere reti e catturare
chiunque
desiderassi; nessuno poteva sfuggire, nessuno poteva danneggiarmi: chi
ci
provava finiva soltanto per infrangersi, un naufrago sugli scogli della
mia
indifferenza.
E tutto ciò mi era
possibile perché avevo eliminato ogni emozione in me.
La vita è
cambiamento, sentimenti, emozioni. È il vento che sconvolge
i piani, il
movimento. Ma io, la Bellezza, ‘odio il movimento che
scompone le linee’. Io
sono immobile e fredda come il ghiaccio, irraggiungibile, e perfetta.
Sono il
‘sogno di pietra’.
Per un po’, stregata
dalla poesia e dalla nuova via aperta, mi illusi che bastasse agire sul
livello
delle emozioni per raggiungere la perfezione: senza di esse
l’animo umano è
congelato e impossibilitato a cambiare, portando alla
staticità e alla
compiutezza dell’eternità. Ma poi il ricordo del
declino di mia madre, il
terrore del pedaggio che gli anni inesorabilmente chiedono tornarono ad
affacciarsi dentro di me; così dovetti cercare modi
ulteriori di rendermi senza
tempo.
E infine, compresi.
Intrappolai
la mia
immagine in fotografie di artisti, fissai i miei lineamenti in ritratti
nelle
sfumature del blu; i miei occhi scuri sulla pelle bianca vennero
impressi su
tele e pellicole, i miei lunghi capelli neri divennero vesti
d’ombra nei
dipinti più audaci: così la mia figura sarebbe
rimasta, immutata, oltre il
passare degli anni, superando le barriere del tempo.
In quelle immagini,
rubate agli istanti, niente cambierà mai. Nessuna ruga si
farà strada sul mio
viso, nessun capello bianco apparirà nella monotonia
corvina. E io avrò
raggiunto il mio sogno di eternità e perfezione.
Però, perché tutto sia finalmente concluso, manca ancora un passaggio, di fondamentale importanza.
Adesso, una volta
finita di scrivere questa lettera, andrò ad appendere
ordinatamente le mie
fotografie, i miei ritratti, le pagine di giornali in cui sono apparsa,
ogni
mia immagine, nella mia vecchia grande casa. E dopodiché
passerò all’atto finale.
Perché la vita è
cambiamento, e il cambiamento è necessariamente imperfetto.
C’è bisogno di
staticità e immutabilità.
Ma staticità e
immutabilità non si possono trovare nella vita.
La vita è solo un ostacolo
per la perfezione a cui anelo.
Quindi, ne farò a meno.
Dopo la mia morte
sarò perfetta per sempre, a differenza di tutti voi,
perché non cambierò mai
più. Rimarrò perfetta nelle vostre menti
imperfette di viventi, negli anni e
nei secoli fino alla fine del mondo, perché sarò
diventata un ricordo che non
potrà mai più cambiare.
Non avrò la spinta al mutamento data dalla vita, non
avrò il calore delle
emozioni: sarò una sfinge dentro l’azzurro,
un’opera d’arte, fredda e distante;
irraggiungibile e meravigliosa. Sarò finalmente,
completamente, fino alla fine
dei giorni, perfetta.
E voi non potrete
mai dimenticarmi, non ve lo permetterò. Questa stessa
lettera non ve lo
permetterà.
Non troverete mai il
mio corpo. Non lo lascerò in balia della decomposizione, a
marcire in una
tomba: il fuoco lo porterà con sé, disperdendolo
e purificandolo, elevando il
mio spirito fino al cielo.
Non mi
dimenticherete mai.
Il mio nome è Elena,
e vi dico addio.”
~~~
La lettera arrivò a molti indirizzi.
I
primi a riceverla
si precipitarono alla casa natale della famosa fotomodella. Le finestre
erano
chiuse e la porta sprangata; era disabitata da tempo e non pareva che
qualcuno
vi fosse entrato recentemente.
Quando riuscirono ad
aprire la porta, all’interno videro solo tenebre:
l’interruttore delle luci del
corridoio d’accesso non funzionava. Percorsero velocemente
alcuni metri al buio,
fino a raggiungere un grande salone che emergeva appena
nell’oscurità. Non
c’era nessuno, nessun rumore poteva essere udito.
Dov’era, dunque? Cos’era
successo là?
Mossero alcuni
passi, di fretta. E, subito dopo, udirono un piccolo click.
Un piccolo lampo
elettrico e tremolante. E poi, improvvisamente, si accesero delle luci
intense,
che illuminarono violentemente tutta la stanza, senza lasciare alcuna
zona in
ombra. Gli uomini si fermarono dov’erano, sovrastati.
Nessuna parete era
vuota. Erano tutte coperte di fotografie e immagini e disegni di Elena,
occhi
scuri da egiziana su pelle chiara, e lunghi capelli neri a
incorniciarle il
viso. Mille e mille volti erano sui muri, tutti uguali, immobili,
congelati nel
loro istante e bloccati nella loro cornice, sospesi nel silenzio
irreale del
salone; ed ognuno di essi, fotografia, immagine o disegno, fissandoli
con occhi
freddi e alteri, e tuttavia folli,
pareva emettere un grido muto, terrificante, una risata pazza che
risuonava in
tutta la sala, in tutta la casa, in tutto il mondo, un messaggio eterno
e senza
tempo:
‘Sono bella come un sogno di pietra, mortali!'
_____________
Ce l'ho fatta. Dopo tanto tempo, molti ripensamenti e ritocchi, e tanto aiuto, finalmente l'ho finita.
E, sì, so che è strana e inquietante. Ma è importante, per me. A chi ha letto o addirittura commentato, grazie di cuore.
Ah, la poesia di Baudelaire 'La Bellezza', tratta da 'I Fiori del Male', che ho citato nella storia e nel titolo ovviamente non è mia, ma del suddetto genio.
Wiwo