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Autore: Wiwo    13/04/2010    2 recensioni
‘Sono bella come un sogno di pietra, mortali!'
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La beauté

Je suis belle, ô mortels! comme un rêve de pierre

Et mon sein, où chacun s’est meurtri tour à tour,

Est fait pour inspirer au poëte un amour

Éternel et muet ainsi que la matière.

Je trône dans l’azur comme un sphinx incompris;

J’unis un cœur de neige à la blancheur des cygnes;

Je hais le mouvement qui déplace les lignes,

Et jamais je ne pleure et jamais je ne ris.

Les poëtes, devant mes grandes attitudes,

Que j’ai l’air d’emprunter aux plus fiers monuments,

Consumeront leurs jours en d’austères études;

Car j’ai, pour fasciner ces dociles amants,

De purs miroirs qui font toutes choses plus belles;

Mes yeux, mes larges yeux aux clartés éternelles!

Charles Baudelaire

LA BELLEZZA

“A chi leggerà:


Il mio nome è Elena, e vi dico addio.

Sono cresciuta senza un padre, sola con mia madre. Fu lei a scegliere il nome Elena per me: mi chiamò così, come Elena di Troia, perché io diventassi bella, bellissima e desiderata come lei.
Ricordo i lunghi pomeriggi passati, anno dopo anno, per tutta la mia infanzia, seduta sul letto, fissando il mio riflesso nel grande specchio intarsiato della camera di mia madre, mentre lei mi pettinava lentamente, con cura. Ricordo il contrasto del vecchio pettine d’avorio nei miei capelli neri e le parole che mia madre mi mormorava. Mi diceva che ero bella, bella come lei non era stata mai e come mai sarebbe diventata, bella e inquietante come una notte senza luna. Mi parlava di quella Elena di Troia e della guerra scoppiata per lei, sorridendo mentre sussurrava che anche per me uomini si sarebbero immolati, felici di morire al mio comando, stregati dalla mia bellezza; e mi chiamava piccola sirena, bella e pericolosa come il mare profondo.
Io le credevo. Lei era la mia dea, bella e perfetta, e dalle sue labbra non poteva uscire che la verità. Mi osservavo riflessa nello specchio per quelle lunghe ore, mentre il pettine scivolava nei miei capelli come in una cascata d’acqua nera e il mio sguardo diventava sempre più freddo e altero.


Sono cresciuta come un’aristocratica, con la stessa superbia e lo stesso contegno. Andavo a scuola, ma non mi mescolavo agli altri bambini: ero loro superiore, sia per aspetto che per provenienza. Il lavoro da modella famosa e ricercata di mia madre ci permetteva di vivere quasi nel lusso e mi dava un’altra ragione per sentirmi ad un livello più alto di tutti i miei compagni di scuola.
Ripensandoci adesso, credo che il fatto che io sapessi di essere bella mi rendesse ancora di più tale: il mio comportamento freddo e sprezzante da nobildonna era, ed è sempre rimasto, uno dei miei tratti distintivi, uno degli elementi che mi elevavano dalla massa.
Penso che, a partire da quel tempo, io andassi assomigliando sempre di più ad una fotografia, e quanto fosse vero l’avrei capito solo qualche anno dopo.


Durante quegli anni, prima della mia adolescenza, ero spesso sola in casa. Tornavo a casa subito dopo la fine delle lezioni, non volendo perdere tempo chiacchierando di cose stupide o facendo giochi stupidi, come invece facevano gli altri. Io ne ero superiore. Però a casa non c’era quasi mai nessuno: mia madre spesso era fuori per lavoro, e nessun’altro oltre a noi abitava nella nostra casa. Era una villetta appena fuori città, grande e molto curata, di una gelida eleganza che caratterizzava anche me e mia madre.
A volte sentivo la donna delle pulizie borbottare tra sé che sembrava quasi un museo, o una casa di bambola, che era troppo grande solo per due persone, e quindi alcune stanze erano praticamente disabitate, anche se arredate fin nel dettaglio. La sentivo lamentarsi del fatto che si sentiva a disagio in un posto così asettico e freddo, come senza un’anima, e domandarsi come potessimo vivere in un luogo del genere.
Non capiva, non poteva capire. Se quella era una casa di bambola io ne ero la bambola regina, che si muoveva senza fare un suono nel suo regno di ghiacci e broccati e si sedeva sul letto, davanti al grande specchio, ad aspettare immobile e impassibile la sua dea, ogni pomeriggio per tanti lunghi anni.


Ero una bambina fredda come l’inverno, quindi, con l’apparenza e il portamento di una bambola di porcellana e che non lasciava trasparire emozione alcuna.
Dietro la mia facciata, però, cominciavo ad essere inquieta.
Mi rendevo conto che mia madre stava invecchiando: vedevo le prime rughe comparire sul suo viso, qualche raro capello bianco iniziare a striarle la lunga capigliatura castana, il suo corpo farsi piano piano più pesante. Ne ero spaventata. Sapevo che un giorno sarebbe toccato anche a me; è un processo inesorabile, che non lascia scampo: aveva toccato anche mia madre, la mia bellissima madre, la mia dea. Per arrivare addirittura a lei doveva essere così.
Ne avevo paura, una paura atavica e terribile. Non passava giorno senza che cercassi di trovare un rimedio, un argine allo scorrere del tempo, ovviamente senza alcun risultato.
Fu in quel periodo che iniziarono ad arrivarmi le prime proposte per servizi fotografici, da parte di persone che conoscevano mia madre. E io, vedendo me stessa catturata nell’immagine per un istante eterno, immutabile, mi sentivo in qualche modo più al sicuro.


Mi gettai nella carriera di fotomodella appena mi fu possibile: la scuola non mi interessava, per cui la lasciai senza esitazioni appena a sedici anni. Non avevo niente che mi legasse né al luogo, né alle persone che avevo conosciuto là.
Mi trasferii in un’altra città due anni dopo, per il mio lavoro. Vivevo da sola, in un appartamento che non aveva niente a che vedere con la mia vecchia casa, ma dove comunque mi trovavo bene: era il mio regno pieno di cristalli, bambole e fotografie, piccolo ma bianco e perfetto. Era la casa di bambola in miniatura.
Non frequentavo nessuno, naturalmente, se non quando ne ero costretta: non ho mai amato mescolarmi alla gente, mi è sempre sembrato solo una perdita di tempo e una fonte di nervosismo. I miei colleghi, i fotografi e tutti coloro con cui avevo a che fare per via del lavoro erano semplicemente l’equivalente di ciò che erano stati i miei compagni di scuola o i miei insegnanti: presenze necessarie, ma non importanti. Non c’era nessuno di veramente importante nella mia vita, nessuno con cui valesse la pena lasciar scorrere via il tempo.
E poi, avevano paura di me. Gli sguardi che mi venivano rivolti erano all’inizio di incomprensione profonda, che poi degenerava in inquietudine, e nelle persone più deboli in vero e proprio terrore. C’era una ragazza, una bambinetta viziata e coccolata, che cercava in tutti i modi di evitare di incontrarmi, arrivando al punto di rifiutare di lavorare con me, dicendo che lei posava con esseri umani, e non con mostri. Povera sciocca, non aveva capito niente di me. Come se mi fosse importato qualcosa di lei.
Mi avevano dato della pazza, apertamente e non, ma l’unica reazione di cui li avevo degnati era stata la mia espressione di ghiaccio. Potevano dire quello che volevano, non mi interessava; le fotografie c’erano ancora, la mia bellezza continuava ad essere immortalata, con la mia pelle bianca e i capelli scuri che risaltavano su fondali dai toni cupi.


Per quanto riguarda mia madre… beh, certo, mia madre c’era. Veniva a trovarmi quanto più spesso potesse, e mi chiamava ancora piccola sirena accarezzandomi i capelli. Ma… non era più la stessa cosa. Da quando, un giorno, avevo visto su di lei i segni e gli effetti della chirurgia plastica, il mio rispetto e la mia adorazione per lei erano crollati. Mia madre non era più la bellissima dea della mia infanzia, non era più la custode della casa di bambola: ora si era trasformata nella pallida imitazione della se stessa di un tempo, travolta dal fiume degli anni a cui opponeva una diga fatta di miseri ciottoli, e sembrava soltanto una vecchia bambola rattoppata e imbellettata. Ridicola.
E io… io non volevo finire come lei.
La paura degli anni e del tempo, addormentatasi per un poco nelle mie fotografie che mi osservavano con occhi freddi e scuri, immobili, fisse e perfette dalle pareti, apparve di nuovo più forte che mai. Le immagini non bastavano più, perché il mio corpo avrebbe comunque iniziato la sua discesa, e allora anche l’immutabile sarebbe divenuto solo un ricordo, confrontabile con il presente caduto. Come fare, dunque, come fare? Era un tormento che mi accompagnava costantemente.


Avevo pochi svaghi, li trovavo inutili, facenti parte di quel mondo mortale che temevo e a cui non volevo appartenere. L’unica cosa a cui mi dedicavo con la stessa passione del mio lavoro era la lettura: ero affascinata dai mondi, dalle intere esistenze che andavano a tracciarsi sulla carta, dal potere delle parole che davano la vita a qualunque cosa e la rendevano eterna e compiuta in quelle stesse pagine.
E, proprio curiosando pigramente in libreria come facevo spesso, un giorno trovai l’imbocco per l’uscita da quella situazione di angoscia continua in cui mi trovavo da tempo ormai: aveva la copertina di un libro di poesie di Baudelaire e si trovava in una delle pagine anonime di metà libro. Era un sonetto poco conosciuto tratto da ‘I Fiori Del Male’, una poesia che mi stregò sin dalla prima riga.
Comprai immediatamente il libro e tornai a casa.


Sulla parete bianca vicino al mio letto ricopiai in bella grafia queste parole:


La Bellezza


Sono bella come un sogno di pietra, mortali!

E il mio seno, ove ciascuno di volta in volta s’è contuso,

È fatto per ispirare al poeta un amore

Eterno e muto come la materia.

Come sfinge incompresa io troneggio nell’azzurro;

Unisco un cuore di neve al candore dei cigni;

Odio il movimento che scompone le linee,

E non piango né rido, mai.

I poeti, davanti alle mie grandi pose,

Che sembro imitare ai più fieri monumenti,

Consumeranno i loro giorni in studi austeri;

Perché io, per affascinare questi docili amanti,

Ho dei puri specchi che rendono tutte le cose più belle;

I miei occhi, i miei grandi occhi in eterno splendore!


Questa poesia è stata la via che mi ha condotto fino a qui, fino a oggi.
Piano piano, passo dopo passo, tutto mi apparve sempre più chiaro, finché non capii completamente qual è il modo per arrivare all’eternità. E allora iniziai a compiere quanto necessario.


Diventai veramente una sirena, come mi cantava mia madre quando ero bambina, bella e pericolosa come l’Oceano. Avevo il potere di tessere reti e catturare chiunque desiderassi; nessuno poteva sfuggire, nessuno poteva danneggiarmi: chi ci provava finiva soltanto per infrangersi, un naufrago sugli scogli della mia indifferenza.
E tutto ciò mi era possibile perché avevo eliminato ogni emozione in me.
La vita è cambiamento, sentimenti, emozioni. È il vento che sconvolge i piani, il movimento. Ma io, la Bellezza, ‘odio il movimento che scompone le linee’. Io sono immobile e fredda come il ghiaccio, irraggiungibile, e perfetta. Sono il ‘sogno di pietra’.


Per un po’, stregata dalla poesia e dalla nuova via aperta, mi illusi che bastasse agire sul livello delle emozioni per raggiungere la perfezione: senza di esse l’animo umano è congelato e impossibilitato a cambiare, portando alla staticità e alla compiutezza dell’eternità. Ma poi il ricordo del declino di mia madre, il terrore del pedaggio che gli anni inesorabilmente chiedono tornarono ad affacciarsi dentro di me; così dovetti cercare modi ulteriori di rendermi senza tempo.

E infine, compresi.

Intrappolai la mia immagine in fotografie di artisti, fissai i miei lineamenti in ritratti nelle sfumature del blu; i miei occhi scuri sulla pelle bianca vennero impressi su tele e pellicole, i miei lunghi capelli neri divennero vesti d’ombra nei dipinti più audaci: così la mia figura sarebbe rimasta, immutata, oltre il passare degli anni, superando le barriere del tempo.
In quelle immagini, rubate agli istanti, niente cambierà mai. Nessuna ruga si farà strada sul mio viso, nessun capello bianco apparirà nella monotonia corvina. E io avrò raggiunto il mio sogno di eternità e perfezione.

Però, perché tutto sia finalmente concluso, manca ancora un passaggio, di fondamentale importanza.


Adesso, una volta finita di scrivere questa lettera, andrò ad appendere ordinatamente le mie fotografie, i miei ritratti, le pagine di giornali in cui sono apparsa, ogni mia immagine, nella mia vecchia grande casa. E dopodiché passerò all’atto finale.


Perché la vita è cambiamento, e il cambiamento è necessariamente imperfetto. C’è bisogno di staticità e immutabilità.
Ma staticità e immutabilità non si possono trovare nella vita.


La vita è solo un ostacolo per la perfezione a cui anelo. Quindi, ne farò a meno.


Dopo la mia morte sarò perfetta per sempre, a differenza di tutti voi, perché non cambierò mai più. Rimarrò perfetta nelle vostre menti imperfette di viventi, negli anni e nei secoli fino alla fine del mondo, perché sarò diventata un ricordo che non potrà mai più cambiare. Non avrò la spinta al mutamento data dalla vita, non avrò il calore delle emozioni: sarò una sfinge dentro l’azzurro, un’opera d’arte, fredda e distante; irraggiungibile e meravigliosa. Sarò finalmente, completamente, fino alla fine dei giorni, perfetta.


E voi non potrete mai dimenticarmi, non ve lo permetterò. Questa stessa lettera non ve lo permetterà.


Non troverete mai il mio corpo. Non lo lascerò in balia della decomposizione, a marcire in una tomba: il fuoco lo porterà con sé, disperdendolo e purificandolo, elevando il mio spirito fino al cielo.


Non mi dimenticherete mai.

A chi ha letto, e ricorderà e racconterà e mai mi dimenticherà:


Il mio nome è Elena, e vi dico addio.”

~~~

La lettera arrivò a molti indirizzi.

I primi a riceverla si precipitarono alla casa natale della famosa fotomodella. Le finestre erano chiuse e la porta sprangata; era disabitata da tempo e non pareva che qualcuno vi fosse entrato recentemente.
Quando riuscirono ad aprire la porta, all’interno videro solo tenebre: l’interruttore delle luci del corridoio d’accesso non funzionava. Percorsero velocemente alcuni metri al buio, fino a raggiungere un grande salone che emergeva appena nell’oscurità. Non c’era nessuno, nessun rumore poteva essere udito. Dov’era, dunque? Cos’era successo là?
Mossero alcuni passi, di fretta. E, subito dopo, udirono un piccolo click.


Un piccolo lampo elettrico e tremolante. E poi, improvvisamente, si accesero delle luci intense, che illuminarono violentemente tutta la stanza, senza lasciare alcuna zona in ombra. Gli uomini si fermarono dov’erano, sovrastati.
Nessuna parete era vuota. Erano tutte coperte di fotografie e immagini e disegni di Elena, occhi scuri da egiziana su pelle chiara, e lunghi capelli neri a incorniciarle il viso. Mille e mille volti erano sui muri, tutti uguali, immobili, congelati nel loro istante e bloccati nella loro cornice, sospesi nel silenzio irreale del salone; ed ognuno di essi, fotografia, immagine o disegno, fissandoli con occhi freddi e alteri, e tuttavia folli, pareva emettere un grido muto, terrificante, una risata pazza che risuonava in tutta la sala, in tutta la casa, in tutto il mondo, un messaggio eterno e senza tempo:

Sono bella come un sogno di pietra, mortali!'

_____________

Ce l'ho fatta. Dopo tanto tempo, molti ripensamenti e ritocchi, e tanto aiuto, finalmente l'ho finita.

E, sì, so che è strana e inquietante. Ma è importante, per me. A chi ha letto o addirittura commentato, grazie di cuore.

Ah, la poesia di Baudelaire 'La Bellezza', tratta da 'I Fiori del Male', che ho citato nella storia e nel titolo ovviamente non è mia, ma del suddetto genio.


Wiwo
   
 
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