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Autore: The Corpse Bride    13/04/2010    10 recensioni
Orihime è sopravvissuta alla guerra ad Aizen. E così Ichigo, che va a trovarla ogni pomeriggio ma la lascia tra le lenzuola umidicce prima che cali la sera. Nel suo sguardo lampeggia il ricordo di qualcuno che in quella guerra è caduto. E i suoi occhi non si posano mai davvero su Orihime, ma ancora rincorrono le braccia esili di Rukia.
Genere: Drammatico, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inoue Orihime, Kurosaki Ichigo
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Alzò lo sguardo vacuo dal vuoto davanti a sé verso la finestra, dove splendeva un cielo azzurro da far male.
Era primavera e aveva caldo; si era messa una felpa pesante perché in fondo non era ancora estate, ma il sole di primavera sapeva bruciare altrettanto: solo, si ritirava dopo poche ore dietro una nuvola grigia e lasciava scendere il freddo, lo stesso freddo pungente del primo mattino.
Adesso era pomeriggio inoltrato, e Orihime aveva caldo. Tolse la felpa e liberò i seni prosperosi intrappolati in una polo rosa chiaro. I capelli lucidi e profumati le si erano appiccicati alla nuca.
La sua stanza diventava stantia quando faceva così tanto caldo; odorava di polvere, di cibo precotto, un poco anche di sudore.
Adesso odorava di corpi, odorava di carne e umori. Quel caldo e quell’afa, generati dalla frizione dei corpi, se li sentiva ancora addosso. Le si attaccava addosso come una patina e se ne andava solo dopo una lunga doccia o un bagno. La camera iniziava ad emanare un odore troppo forte per essere solo un odore; il sesso e i fluidi corporali aleggiavano ancora nell’aria, appesantendola, rendendola irrespirabile.
Sentiva che anche lei aveva addosso un cattivo odore. Sapeva di sudore, tutto il suo corpo era ricoperto dei residui delle sue esalazioni. La sua pelle si era raffreddata, i battiti erano rallentati, ma l’odore rimaneva sempre. Rimaneva sempre.
E nell’aria, tagliente come la lama di una zanpakuto, nell’aria tutt’attorno a lei c’era un effluvio particolare, un effluvio che avrebbe dovuto amare ma che in realtà la mortificava, per quanto si ripetesse che non ce n’era motivo, che era normale emanare quell’odore.
Lo sperma che le era rimasto dentro, e che non aveva avuto voglia di lavare via dopo l’ennesimo incontro sotto le coperte, si era depositato sulle sue mutandine e, dopo mezz’ora, era diventato stantio; e ora c’era un olezzo acido che proveniva da in mezzo alle sue gambe e che da un po’ di tempo le pungeva il naso.
Un po’ le era familiare. Era l’odore di una parte di Kurosaki.
Un po’ le faceva venire voglia di piangere. Era l’unica parte che Kurosaki le avesse mai permesso di toccare.
E così conservava gelosamente dentro di sé quello sperma, quella sua esclusiva preziosa; lasciava che il suo sesso continuasse ad esalare quell’odore, mischiato al suo, quello strano miscuglio che rimaneva tra le lenzuola umide e stropicciate che lei non cambiava mai per andare a dormire la sera, dopo che lui se ne andava.
Le lenzuola fresche e pulite non reggevano il confronto con le lenzuola dove Kurosaki l’aveva toccata, dove Kurosaki si era addormentato con la testa sui suoi seni, come se davvero avesse avuto bisogno di lei per potersi abbandonare al riposo.
Il giorno era al suo culmine ma il tramonto era ancora lontano, e così la notte, che comunque non le portava mai il sollievo del sonno. La stanza vuota urlava un suono meccanico, ininterrotto, come se un allarme risuonasse nella sua testa. Kurosaki se n’era già andato e il sollievo dei sogni era ancora così lontano.
E allora in quei momenti per tenersi compagnia chiamava a sé i propri ricordi, pur sapendo che come sempre l’avrebbero torturata e mortificata e quasi uccisa. Ma il dolore era pur sempre meglio del silenzio. I ricordi significavano che qualcosa era successo, un tempo. Almeno, un tempo, qualcosa.
 
Kurosaki che veniva a salvarla, per esempio. Kurosaki veniva sempre a salvarla. L’aveva salvata da suo fratello, dagli Hollow, da Aizen. Da Ulquiorra, anche se Orihime non l’aveva vista davvero come una salvazione.
E lei aveva sempre pensato che, se non ci avesse tenuto almeno un po’, a lei, non sarebbe venuto a salvarla. Poi l’aveva conosciuto meglio e si era reso conto che non c’era nulla e nessuno che, agli occhi di Kurosaki, non fosse degno di essere salvato a costo della vita.
Come se qualunque vita, umana o meno, fosse comunque molto più importante della sua.
In fondo l’aveva sempre saputo che, proprio come lei, non aveva in grande considerazione la propria vita. Lei sapeva tutto di lui, anche se non gliel’aveva mai detto. Non gliel’aveva detto nemmeno allora, nemmeno quel pomeriggio; probabilmente non gliel’avrebbe detto mai, senza neanche sapere perché.
Ancora come ai tempi non aveva il coraggio di parlargli.
Si era lasciata salvare senza capire, benché sapesse quanto la sua disperazione fosse profonda, quanto lui allo stesso modo volesse essere salvato. Supplicava di essere salvato, supplicavano i suoi occhi quando si lanciava incontro a un avversario con il panico e l’adrenalina nelle pupille, senza mai chiedere il cambio a nessuno, caricandosi di tutto e poi rilasciandolo lontano, lontano dalle spalle dei suoi nakama.
Ma pregava di avere quell’aiuto.
E il cielo assieme a una farfalla infernale gliel’aveva mandato, ma in tutto quel tempo Orihime non l’aveva mai capito. Quanto rimpiangeva adesso di non aver capito. Lei era apparsa e in un istante gli aveva tolto quel peso di dosso, facendosi carico della sua vita; di più, aveva fatto sì che il carico che lui portava con sé divenisse più leggero, non perché fosse più leggero, ma perché Kurosaki era diventato più forte.
Kuchiki non si era mai lasciata difendere.
Kuchiki aveva sempre combattuto, oppure, quando non aveva potuto farlo, aveva scelto di morire in solitudine, lontana dall’uomo che amava. Pur che lui non si ferisse.
Orihime gliel’aveva gridato da in cima a una collina, ma Kuchiki era imprigionata in una stanza, incapace di muovere un passo, ed era certa che se avesse potuto avrebbe impugnato la spada e si sarebbe trafitta da sola pur di non dover caricare Kurosaki anche del suo peso.
Kurosaki voleva proteggere, ma, più di ogni cosa, desiderava essere protetto.
E sebbene gridasse sempre ordini o rimproveri, probabilmente desiderava anche lui una guida. Orihime si coprì gli occhi con le mani. Senza una madre e costretto a far da padre a due sorelline, nonostante tutti i suoi proclami, era ovvio che si sentisse sperduto.
Ma Kuchiki era lì, pronta a dirgli cosa fare. A dirgli che poteva farcela; a dirgli che c’era lei, qualunque cosa fosse successa.
E lei, che cos’aveva fatto? Oltre a guardare, e piangere, e chiamare il suo nome, che cos’aveva fatto?
Non aveva mai saputo essere una spalla per lui, né una guida né un compagno affidabile. L’aveva sempre guardato con occhi adoranti attendendo che, tra i fuochi e le esplosioni delle battaglie, si ricordasse di lei.
Lei? Quella che arrivava alla fine, illesa e vergognosa, e curava le ferite di tutti perché in fondo non era in grado di infliggerne.
 
Ma, oh, se solo avesse potuto impugnare una spada.
Sì, pensò. Se solo avesse avuto una spada, né shikaibankai, né maschere d’ossa né arti demoniache; soltanto una spada. Allora sì che avrebbero visto il sangue. Non c’era fine alla quantità di risentimento che Orihime sentiva sempre pulsare e ondeggiare dentro di sé, come magma denso e bruciante.
Se avesse potuto, avrebbe distrutto tutto. Tutto quel mondo che l’aveva sempre rifiutata. Quei genitori indegni, quelle senpai che la tormentavano, quegli Hollow che la inseguivano ovunque. Tutto, tutto, avrebbe distrutto tutto.
Avrebbe voluto avere anche lei una spada per annientare quelli che la attaccavano; perché arrivata a sedici anni e con la morte nel cuore non aveva più la forza per combatterli. Voleva soltanto disintegrarli, e finalmente un po’ di silenzio.
… silenzio?, si chiese guardando il sole di sottecchi. No, il silenzio non le piaceva. Non le piaceva affatto.
Il sole iniziava a diventare tiepido e la temperatura in casa era calata. Iniziava ad avere freddo. I piedi sembravano congelati; era un freddo fastidioso, che la costringeva a sfregarli l’uno con l’altro nervosamente, a cambiare posizione di continuo.
 
Kuchiki aveva uno sguardo fiero, da guerriera. E fiero come quello di una principessa: come quello di Yoruichisan, come quello di Byakuyasan. Ma solo quando non era in presenza loro, o di persone come loro. Allora abbassava gli occhi, come ogni brava principessa in presenza d’un re.
Kuchiki, al contrario di Kurosaki, sapeva quand’era ora di abbassare gli occhi.
E guardandolo crescere da lontano Orihime capì che gliel’aveva insegnato.
Lei non era mai riuscita a insegnargli nulla. Ma cos’avrebbe potuto insegnargli quando lei stessa non sapeva come fare a resistere fino al tramonto? Era a lui che aveva sempre progettato di chiedere le risposte di cui aveva bisogno, senza mai nemmeno rendersi conto delle mille domande che lo tormentavano.
Conoscere la sua stessa sofferenza non era bastato a far sì che lui le andasse vicino e le dicesse ‘come posso vivere senza mia madre?’.
Era stato a Kuchiki che l’aveva chiesto, tra le righe. I suoi occhi le chiedevano sempre come fare a vivere. E Kuchiki gli aveva detto ciò che sapeva, ma poi era stato il suo turno di domandare, e lui le aveva risposto ciò che gli era stato insegnato: che i fardelli si potevano condividere, e che nonostante tutto entrambi meritavano di vivere.
Benché Kuchiki fosse già morta, morta da secoli, per Kurosaki lei era viva e palpitante come lo erano tutti loro.
Benché la vita di Orihime palpitasse al ritmo del suo saluto, del suo sguardo, di un suo ‘stai bene?’, non era mai stata niente al confronto del broncio e della forza di Kuchiki. Per lei era andato a farsi massacrare dai Vizard e lei era tanto sicura del loro rapporto da non preoccuparsi nemmeno di dove se ne fosse andato. Sapeva che lui non si sarebbe fatto annientare, che tra loro due, pur se non detta, pur se forse nemmeno intuita da loro stessi, nel tempo era nata una promessa.
La promessa di Orihime quindi non contava niente, perché il loro legame era atavico e incrollabile, e di fronte all’eternità cosa potevano mai essere le cinque vite che a lui aveva votato?
 
Doveva farsi una doccia e togliersi di dosso quelle mutandine umidicce e quei pantaloni della tuta sporchi, che ormai si erano impregnati di quell’olezzo.
E forse, pensò, avrebbe anche dovuto cambiare le lenzuola, cancellare ogni traccia di quanto era successo lì dentro. Forse avrebbe fatto meno male, forse si sarebbe sentita meno sporca, meno marchiata, se non ci fosse stato altro che un neutrale odore di detersivo.
Ma l’odore di detersivo era troppo triste se confrontato a quegli unici istanti di calore.
Tatsuki la odiava per questo.
“Non è possibile! Non posso credere che tu sia arrivata a lasciargli fare questo!”
“Ma, Tatsukichan, ti ricordi?” era così affranta all’idea che Tatsuki la odiasse “Ricordi? Mi avevi detto che non mi avrebbe resistito, se io…”
“Certo, ti avevo suggerito di tentarlo mostrandogli le tette! Ma pensavo che avresti voluto conquistarlo in un altro modo!”
“Ma lo sai bene che quella parte del suo cuore è riservata solo a Kuchiki, Tatsukichan!”
“E allora dovresti stargli lontano! Che cosa ne hai fatto allora del tuo amore…?!”
Era ancora lì, intero e luminoso. Sempre meno luminoso, magari; in effetti, ogni giorno più cupo. Ma senza dubbio solido e indistruttibile, conservato nelle celle più profonde del suo cuore. Non se ne sarebbe mai andato.
Purtroppo, era l’unica parte di lei che non l’avrebbe mai abbandonata.
 
Di nuovo come ogni volta che si trovava in un vicolo cieco nel labirinto dei suoi pensieri tornò ai ricordi, che avevano un percorso diritto e sicuro, un percorso che non cambiava mai se non nelle sue fantasie, che erano una deviazione soltanto temporanea, una deviazione che esisteva nella sua mente ma non nei ricordi sensoriali. Quei ricordi di un tocco, di un profumo; di una voce.
In quell’ultimo anno aveva respirato moltissima polvere, e anche molta terra; si era bagnata di sangue e si era accaldata correndo, correndo dappertutto senza mai arrivare da nessuna parte.
Lei era quella che correva sempre dagli altri senza mai affrontare un nemico.
Se avesse potuto, chissà se l’avrebbe fatto, o se avrebbe comunque preferito aspettare il suo principe azzurro.
Lei voleva annientare. Non combattere. Voleva cancellare e uccidere, ma non le interessava l’ansia di non saper tener testa a un avversario, lo scintillio di una vittoria inaspettata – la vittoria era sempre stata inaspettata, ogni volta.
Kurosaki correva e anzi il suo percorso era costantemente interrotto da qualcuno che lo considerava abbastanza importante da volerlo intralciare. E così lui sospirava e si preparava alla battaglia; alla fine aveva imparato a non protestare e a non strillare insulti ai suoi nemici. Forse aveva capito che, in fondo, non erano tanto diversi da lui; era soltanto che si erano trovati dall’altro lato della lama e questo segnava per forza il preludio di una battaglia, a prescindere dalle loro intenzioni.
Schiffer Ulquiorra e Grimmjow Jaggerjacques erano due nomi per tutti. Due che avrebbero potuto anche essere dei nakama, se non avessero ceduto il loro cuore al Diavolo in cambio del potere invincibile, come in quelle antiche leggende straniere.
 
E lei, il suo cuore, a chi l’aveva ceduto? A quale diavolo impazzito, a quale demonio viscido e lussurioso aveva ceduto il cuore in cambio di un corpo caldo premuto addosso al suo?
-Kurosaki – sussurrò, la voce incrinata.
Una lacrima cadde sul dorso della sua mano.
E nell’arcobaleno riflesso su quella lacrima vide i suoi genitori, suo fratello, Tatsuki, Kurosaki e se stessa quindicenne che mangiava il bento ridendo con le amiche nel cortile della scuola.
Se cadde un’altra lacrima, fu senz’altro per quella quindicenne. Per lei il suo cuore sembrò implodere e sprofondare nel nulla.
 
Per quanto tempo aveva guardato la sua schiena emergere dal pulviscolo, per quanto tempo non l’aveva nemmeno più visto in volto?
Ma i guerrieri non esistevano forse per stare in testa alle fila dei perdenti?
 
Le lacrime non si fermavano alle prime, non quando i ricordi pressavano nel suo cervello. Si ripeteva sempre che era indignitoso aver pena di se stessa, ma quando pensava a sé non riusciva a pensare che, se avesse potuto, avrebbe voluto aiutarsi.
-Orihime, non dovresti – biascicò.
Non avrebbe dovuto cosa?
Non avrebbe dovuto coricarsi con Kurosaki e agitarsi assieme a lui sotto quelle lenzuola, che doveva sempre cambiare dopo che era passato lui. Non avrebbe dovuto consentirgli d’andarsene, di lasciarla nel pieno pomeriggio, quando il sole splendeva ed era primavera e avrebbero potuto uscire, ridere, mangiare un gelato. O semplicemente di lasciarla sola in una casa tra le cui pareti rimbalzava il ruggito assordante del silenzio, così simile all’ululato straziante dei Menos Grande; così simile al grido disperato e animalesco della morte.
Questo le avrebbe detto Tatsuki. Questo le aveva detto ogni giorno, da quand’era cominciata.
 
“So che per te, la morte di Kuchiki…” era trasalita subito dopo averlo detto, perché alla parola morte, e poco dopo al nome Kuchiki, Kurosaki aveva ansato come se avesse preso un pugno nel petto “Oh, no, mi dispiace così tanto! Perdonami. Non avrei dovuto… io… Kurosaki, sono una stupida! Ti prego di perdonarmi!”
Aveva atteso una risposta ad occhi serrati, inchinata per non doverlo guardare negli occhi. Aveva udito un sospiro lontano. E poi una risposta.
“Credo che dovrò farci l’abitudine in ogni caso. Che c’è, Inoue?”
Alzando lo sguardo s’era resa conto che non era arrabbiato. In effetti, con lei non si era mai alterato. Era sempre stato gentile. Riservato, serio, un po’ chiuso, ma senza dubbio cortese.
“E-ecco, io… mi-mi chiedevo se… ecco… forse ti andrebbe di accompagnarmi oggi pomeriggio al centro commerciale! Per divertirci assieme. Anche se non voglio affatto dire che questo potrebbe cancellare il dolore della tua perdita! Pensavo soltanto che forse potrebbe… allontanare i pensieri.” Lui la guardava, in attesa. “E io… io so che in questi casi, dato che i pensieri non se ne vanno, e non lo faranno mai, l’unica cosa possibile da fare è cercare di allontanarli…” prese fiato “Kurosaki.”
“Hmm.” Mani in tasca, guardava l’erba e le margherite che erano spuntate dopo il temporale di quella notte. “Beh; perché no. Se ti fa piacere.”
Lo aveva guardato, sorpresa.
“Se fa piacere a te, Kurosaki.”
“Non vedo perché no” era stata la risposta, sempre cortese.
Non vedo perché non dovrebbe farmi piacere, l’aveva interpretata all’epoca. Aveva esultato, preso le mani di Tatsuki e ballato, isterica dalla gioia: dunque era ovvio che a Kurosaki facesse piacere! Finalmente era ricambiata! E invece, ancora una volta, non aveva capito nulla.
Non vedo perché non venire al centro commerciale con te.
Non vedeva alcun motivo per non venirci, così come non vedeva assolutamente alcun motivo per fare qualcosa di diverso.
Cancellata Kuchiki, come nei suoi sogni più crudeli aveva osato fantasticare, di Kurosaki non era rimasto più nulla… nemmeno quel Kurosaki che era esistito prima del suo arrivo.
Che era già monco di una madre e in fin dei conti non l’aveva mai conosciuto intero, se non in quei momenti in cui Kuchiki, lei e lei sola, era riuscita a dargli indietro quella parte di lui che se n’era andata con quella donna dieci anni prima.
La parte che sapeva di poter contare su qualcuno, al mondo.
 
Si morse un braccio in preda alla rabbia di una vita sprecata nei rimpianti e nell’immobilità passiva.
E dire che non aveva fatto altro che cercare un motivo per continuare a vivere, uno, uno solo, e una volta che l’aveva trovato ora le dicevano che in realtà era solo un fantoccio, colorato e cucito da lei per manovrare la sua immagine a seconda dei suoi desideri.
E invece Kurosaki si infilava nel suo letto con una distesa infinita di croci negli occhi, e una in cima a quella distesa ce n’era una, bianca e lucente, che si materializzava nello spazio tra i loro cuori, tra il seno di Orihime e il petto di Kurosaki, quei luoghi che, tra gli amanti, per pochi minuti avrebbero dovuto rappresentare la cosa più vicina a casa.
Il petto di Kurosaki era inciso da tutte quelle ferite che gli avevano inferto nel corso di quelle battaglie, quelle battaglie in cui lei non aveva fatto nulla per aiutarlo. Le avevano ordinato di non ribellarsi, e lei non si era ribellata.
E invece di fronte agli ordini assoluti del generale Yamamoto Kuchiki aveva preso con sé Renji e si era precipitata da Ichigo anche con la possibilità di non tornare, e aveva sconfitto un Espada, sacrificando se stessa proprio come avrebbe fatto Kurosaki.
Loro due erano pari, erano combattenti. Perciò potevano capirsi.
Orihime invece era un’osservatrice, una curatrice, come Unohanasan.
Nel Seireitei dicevano che il potere della dolce, calma capitana della quarta compagnia fosse persino più spaventoso di Ryuujin Jakka nel suo stadio più avanzato.
Forse anche lei, pensò Orihime, dentro di sé celava qualcosa di più potente e distruttivo del fuoco.
Chi sa curare ha accesso ad ogni cellula e anfratto del corpo umano.
Chi sa curare conosce tutte le nozioni fondamentali su come un corpo vada distrutto.
 
Tutto il dolore che aveva provato nella sua vita nei suoi progetti avrebbe dovuto trovare redenzione nell’amore di Kurosaki, che però infine era nato per un’altra persona. A risvegliare il suo cuore dolorante non era stata lei, ma un’altra. Tatsukichan aveva mentito, lei non ne era mai stata in grado.
E dire che aveva sperato di cambiarlo.
“Mmh, questo gelato è buonissimo, vero, Kurosakikun? Wow, forse potremmo… tornare, qualche volta, non credi? Sarebbe bellissimo anche vedere un film assieme, dopo, se ti va. O magari andare al karaoke. E che ne diresti se ci facessimo una foto assieme alle macchinette?”
Aveva cercato di sorridergli tutto, tutto il tempo. Non le veniva difficile: cercava sempre di sorridere, lei era costantemente a caccia di un motivo per ridere e sollevare il cuore da quella melma nerastra in cui sprofondava ogni giorno. Per tutto il tempo gli aveva mostrato un volto allegro, gli aveva indicato il ragazzo con quel cappello buffo, il bambino che gli faceva ciao, o quella ragazza che era scivolata sulla cacca di cane, ma Kurosaki al massimo faceva un mezzo sorriso.
Si era consolata pensando che lui, almeno, cercava di prodursi in quel mezzo sorriso che normalmente non avrebbe fatto solo per compiacere lei. Forse gli interessava che lei non fosse triste.
Ma col tempo si era resa conto che se era stato capace di farsi massacrare da Ulquiorra per lei, un mezzo sorriso non gli doveva costare poi molto.
Forse, se un tempo gli avesse parlato più spesso, le avrebbe regalato qualche mezzo sorriso anche allora.
Ma cosa contavano quei piegamenti di muscoli quando i suoi sorrisi veri e i suoi occhi pieni di tenerezza erano solo per quella Lei che ora se li era portati nell’aldilà per sempre, assieme all’anima appena rimessa in sesto dell’uomo per cui Orihime aveva vissuto?
L’aveva fatto suo, guarito e poi portato con sé, tutto quello che Orihime aveva sempre cercato di fare scrutando i suoi umori sempre tetri, sperando di riportargli un sorriso.
Ma non aveva mai capito ciò di cui avesse realmente bisogno.
Forse, aggiunse nella sua testa a propria difesa, la realtà era che finché non era arrivata Kuchiki non l’aveva capito bene nemmeno lui.
Era stata così stupida da pensare che le margherite sarebbero fiorite, all’epoca; e quando s’era resa conto, di recente, che non sarebbero mai sbocciate, che la pioggia scrosciava ancora nell’animo di Kurosaki, se le era tolte dai capelli e le aveva poggiate sul ripiano assieme alla foto di niichan. Come una specie di cornice.
 
-Ti disturbo?
Esordiva sempre così, quando veniva a trovarla. Non era mai scontroso, con lei. Nemmeno con molte altre persone lo era, ad ogni modo; ultimamente si era resa conto che era sempre stato piuttosto affabile anche con Mizuiro e Tatsukichan, ad esempio, o con Chado, Ryo, e in generale con tutti quelli che lo trattavano con rispetto e gentilezza.
-Oh! Certo che no…! Prego, accomodati!
Non gli aveva mai detto che non erano necessarie ‘certe formalità’. In realtà le sembrava che le dovesse ancora almeno quelle; almeno le formalità.
Poi si dispiaceva di pensarlo, perché lui, prima di fare qualsiasi cosa, le chiedeva sempre il permesso. La trattava con una certa dolcezza, come se lei fosse una cosa molto fragile.
In effetti, era come se lei fosse stata una bottiglia in vetro lavorato di un vino molto prezioso sullo scaffale di un negozio; una cosa che lui maneggiava con cura perché non voleva romperla, ma non perché fosse interessato ad averla.
Era solo un oggetto delicato che si trovava di fianco a lui e che doveva fare attenzione a non danneggiare.
Si era sempre consolata pensando che, almeno, si poneva dei riguardi verso di lei.
-Kurosakikun, vorresti una tazza di the?
Ma ancora non trovava il coraggio di chiamarlo per nome, e lui, proprio come lei non gli aveva mai detto di non badare alla formalità, non gliel’aveva mai chiesto.
Era un mutuo accordo, un rispetto reciproco per mantenere l’integrità delle loro anime compromesse.
-Oh… ti ringrazio.
-Siediti pure comodo! Vado subito a prepararlo, ci metto un minuto. Vuoi accendere la tv? Ah, già, scusami tanto, Kurosaki, adesso non ce l’ho la tv… vuoi una rivista?
-E la tv dov’è finita? Mi sembrava che ce l’avessi, fino a non molto tempo fa.
-Oh, sì, ma ho dovuto venderla perché mi sono trovata in difficoltà economiche, ma nulla di preoccupante!, rinuncerò a vedere qualche programma comico, ma me lo racconterà Tatsuki, e sai, Kurosaki, come lo racconta lei diventa ancora più comico!
Lui aveva fatto un mezzo sorriso, e lei era andata a preparare il the. L’avevano bevuto in silenzio; non trovavano mai molto di cui parlare.
Trasmettergli allegria, l’aveva capito dopo molti tentativi, era qualcosa che non era in grado di fare. Non solo perché anche la sua propria allegria non era autentica; anche se lo fosse stata, non avrebbe funzionato comunque.
I sentimenti non erano come gli oggetti. Solo per il fatto di possederne uno, non significava poterlo cedere in mano a qualcun altro.
Erano l’unica cosa, come avevano dimostrato Kuchiki e la sua immensa tristezza, che si potesse donare pur non possedendone affatto.
Il che, a ben pensarci, era l’essenza stessa dei doni.
Nessuno regala qualcosa che possiede già.
 
La memoria tornava indietro fino a quel giorno, quel giorno in cui erano usciti dall’Hueco Mundo per andare ad aiutare Kurosaki, con ancora le ceneri di Ulquiorra appiccicate indelebilmente alle maniche del vestito bianco.
Uraharasan era riuscito ad aprire un garganta e tutti loro, lei, Kuchiki, Renji, Byakuyasan, Zarakisan con Yachiruchan, poi Mayurisan e Nemusan, assieme a Nelliel, erano scivolati veloci nel mondo terrestre, dove Madarame, Yumichika, Hiisagi e Kira avevano difeso la sua Karakura fino allo stremo delle forze.
E lì il capitano Hitsugaya aveva sconfitto la terza Espada, il capitano Shunsui aveva sconfitto la prima Espada e il capitano Soi Fon la seconda Espada.
Tra i morti il capitano Tosen, che Orihime non aveva mai visto, e poi tra i feriti la signorina Matsumoto e la piccola Momochan, salvate dal fuoco del Generale.
Gin Ichimaru e Sosuke Aizen soli tenevano testa a tutti gli attacchi e frotte di Menos Grandi impestavano il cielo della sua città, ormai nero e violaceo a furia di essere squarciato da truppe di demoni.
Padre e figlio combattevano contro capitano e luogotenente, Espada e Fracciòn erano tutti morti, ma qualcuno ogni tanto si gettava nella battaglia, cercando di dare il cambio, di dare un aiuto.
Andare incontro a una spada era sempre una sfida, e le sfide avevano come caratteristica principale l’incertezza, oppure, come l’aveva sempre vista Orihime, la certezza di avere grandi possibilità di morire nello scontro.
Kuchiki aveva sempre combattuto al fianco dell’uomo che amava, ed anche in quell’occasione si schierò spalla a spalla con il suo compagno guerriero, anche se forse avrebbe dovuto rannicchiarsi anche lei alle sue spalle, ormai, perché non era al suo livello.
Ma Kuchiki non aveva mai camminato dietro a nessuno.
Non lo fece nemmeno quel giorno.
Il colpo che le inflisse la morte fu invisibile a tutti.
Nessuno seppe mai cosa l’avesse uccisa, se la spada o il kido, oppure un colpo fatale; con Aizensama era impossibile rendersene conto. Non fecero nemmeno in tempo a domandare: la vita del suo assassino finì poco dopo e Kurosaki non si era disturbato a chiedere.
Dopo aver gettato uno sguardo al sottile corpo di Kuchiki che cadeva, assieme al kimono e agli hakama neri che le galleggiavano attorno, Kurosaki aveva perso ogni remora e si era di nuovo trasformato in un mostro; ma, diversamente da poco tempo prima, di fronte a Ulquiorra, i suoi occhi non si volsero mai verso Orihime. Avevano guardato il corpo inerme di Kuchiki soltanto una volta, una soltanto, e poi il mostro che abitava in Kurosaki aveva distrutto tutta Karakura, lasciando terra arsa e polvere, di nuovo polvere, e un odore di sangue che aveva appestato l’aria circostante e asfissiato tutti quelli che si trovavano sul campo di battaglia.
Poi la maschera d’ossa era svanita e da quel momento in poi era rimasto soltanto uno sguardo vuoto, quello sguardo vuoto che si muoveva sopra di lei ogni giorno senza vederla davvero.
 
La toccava, certo, le sue carezze erano lievi, Kurosaki era buono e gentile. Non era mai animalesco, sebbene fosse impulsivo di carattere. Aspettava sempre la risposta del suo sguardo prima di farle qualsiasi cosa.
Ma affondava il volto tra i suoi seni sempre con la medesima disperazione.
Con l’abbandono non di chi è tornato a casa, ma di chi è troppo stanco per continuare a camminare. Si getta sul marciapiede senza curarsi né del futuro né di sé stesso.
 
Kurosaki aveva arrancato tremando fino al corpo di Kuchiki. Le sue sopracciglia sempre aggrottate si erano abbandonate verso il basso, anche loro sprofondate nella disperazione.
L’aveva sollevata e stretta tra le braccia, guardandola in attesa che parlasse, che gli dicesse cosa doveva fare.
Ma non glielo disse e nessuno fu mai in grado di dirglielo. Tantomeno Orihime.
Kuchiki da morta sembrava serena. Forse era stato questo a distruggere il cuore di Kurosaki: il pensiero che fosse in pace nella morte, il pensiero che non fosse riuscito a renderle cara la vita.
Sì che c’era riuscito, Orihime ne era certa; ma come ultimo egoismo, si era concessa la promessa a sé stessa di non dirglielo mai.
Le labbra socchiuse, il sudore ancora gocciolante, i capelli neri sul volto e un braccio che penzolava bianco ed esile giù da quello forte di Kurosaki che la stringeva. Lui emanava un’aura tale che nessuno osava avvicinarsi. Guardava Kuchiki allibito, spaesato, come se in quel momento fosse morto lui stesso, ma non trovasse il sentiero luminoso per il cielo.
Perché nel cielo che lei gli aveva promesso era morta l’unica donna che avesse avuto il coraggio di amare.
Kurosaki, per i legami, non era mai stato un tipo coraggioso.
 
Le loro pelli si toccavano, aderivano, si staccavano con piccoli schiocchi; gli affondi di lui erano sempre forti ma mai violenti, erano piacere puro; lui pensava anche a lei, e non soltanto al proprio godimento.
Ah, l’aveva sempre saputo che Kurosaki aveva un animo gentile.
Non aveva mai conosciuto suo padre. Mai parlato con le sorelle. Non era nemmeno mai stata a casa sua, a parte un weekend in cui il resto della famiglia era in vacanza. E non si chiamavano per nome.
Ma era così gentile. Lei l’aveva sempre saputo che lui era gentile.
 
Kurosaki era sempre stato gentile con chiunque non l’attaccasse per primo.
Meno che con Kuchiki, pensò improvvisamente.
Con lei non era mai stato gentile, anzi. Non le aveva mai dato l’onorifico, né le chiedeva il permesso per dormire nella stessa stanza. Litigavano spesso. A volte l’allontanava. A volte invece la tirava a sé con una forza che ad Orihime aveva sempre fatto un male da morire, come se le strattonassero il cuore in quattro direzioni diverse con quattro mani diverse.
Si chiese se la cortesia non fosse la cosa più lontana, forse, dall’amore.
Ma scacciò subito la domanda e corse subito a cambiare le lenzuola, così che Kurosaki le trovasse fresche e pulite la prossima volta che sarebbe venuto a trovarla.
 
 
 
 
(Nda: Questa davvero è fuori da ogni previsione XD.
Mai e poi mai avrei pensato di scrivere una storia su Orihime, anche se la trovo un personaggio interessante e quanto mai banalizzato nelle sue interpretazioni - tanto che, per quanto abbia cercato di renderla a 360° sono sicurissima di non aver detto nemmeno la metà di tutto quello che mi trasmette questo personaggio.
Spero sia piaciuta; a me è piaciuto molto scriverla, e non pensavo di riuscire a dar voce a Orihime. In effetti non credo di aver detto tutto quello che intendevo dire, ma per contro detto molte cose che non avevo in testa all’inizio, quindi suppongo vada bene così.
Per il titolo si ringraziano gli Switchfoot. Scegliere un titolo è stato un travaglio, veramente; questa canzone magari non ricalca perfettamente ciò di cui il testo parla ma è l'unica che in questo momento mi sembrasse rendere la sofferenza di Orihime; e anche di Ichigo.
Mi rendo conto che da queste pagine non emerge la sofferenza di Orihime per la morte di Rukia; questo non significa che, nella mia visione del personaggio, lei non ne soffrirebbe. Penso anzi che ne soffrirebbe moltissimo. Il punto è proprio che volevo focalizzarmi su altre cose e se avessi approfondito anche questo aspetto avrei deviato dal concept e allungato inutilmente la fanfiction, che, nei miei progetti, voleva guardare al passato come lontanissimo, come irrecuperabile; qualcosa da cui ormai Orihime si è totalmente staccata.
In breve: sono Ichiruki ma non penso che Hime voglia Rukia morta ò_ò penso che le voglia molto bene. Ecco. Ora vi lascio stare :D.)

Ennesimo edit: questa storia ha un parallelo, Crucify, che racconta le stesse vicende dal punto di vista di Ichigo. Se volete... :D  
  
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